Un processo per stregoneria a Patti nel 1585.
di Carmen Nardo
Il fenomeno della stregoneria non conosce limiti né di tempo né di spazio. Sorto agli albori della storia umana, accompagna, senza mai affievolirsi, tutte le età, fino al secolo XIX. Si estende su tutte le contrade della terra, dalle più colte alle più barbare, presentando caratteristiche quasi ma non sempre uniformi. L’origine etimologica del termine «stregoneria», viene ricercata nel latino strinx, ovvero uccello rapace notturno a cui si attribuivano poteri malefici. Era proprio questa, infatti, l’immagine della strega, prima della diffusione del Cristianesimo, avvolta in un simbolismo oscuro ed inquietante. Il fenomeno della stregoneria è una delle parentesi più folli, disumane e vergognose della storia, perché se all’apparenza può sembrare una banale credenza, nel periodo della storia dell’Europa moderna, all’incirca tra il 1450 e il 1750, diventò una “mania” sfrenata e incontrollata, che causò morte e disperazione. Accusare di stregoneria una persona non era difficile visto l’epoca, le credenze, i comportamenti e le situazioni sociali che vigevano fra le persone.Sebbene il semplice sortilegio sia sempre esistito, l’idea immaginaria che esista una categoria di esseri umani votati al servizio del demonio, sviluppò, in Europa nel medioevo e nell’età moderna, un nuovo genere di stregoneria. Il concetto cristiano di diavolo, trasformò l’idea di stregone in quella della strega soggetta a Satana.
La stregoneria europea, prima ancora di divenire eresia, contava su tutto un patrimonio di fattucchiera spicciola e di magia terapeutica in cui la donna aveva un ruolo di primissimo piano. In una società tecnologicamente più arretrata della nostra, le spaventose condizioni alimentari e igieniche delle masse, facevano insorgere malattie strane e sconosciute, totalmente ignote alla scienza medica, che si potevano attribuire solo a cause non naturali. È chiaro, quindi, che la maggior parte delle persone che erano accusate di stregoneria erano donne, poiché era un crimine connesso col sesso ma non specificatamente sessuale. In altri termini, erano più facilmente sospette per stregoneria appunto perchè erano donne, immaginate come ninfomani assetate di sesso. Nulla esclude, però, gli uomini, poiché anch’essi, potevano stringere patti col diavolo e partecipare al sabba. Le donne però, erano una maggior preda, perché si sosteneva che fossero moralmente più deboli e quindi facilmente esposte alle tentazioni del demonio. L’idea fu appoggiata dal clero, specialmente dai monaci, i quali vedevano nella donna una tentatrice. Intorno alla fine del ‘500, in molti paesi europei, vigeva, dunque, anche la credenza nel famoso patto col diavolo. Quest’ ultimo, non era altro che una cerimonia formale che avveniva dopo che il diavolo di persona era apparso alla strega, solitamente con l’aspetto di un uomo galante e bellissimo. La strega in questo rito rifiutava la fede cristiana calpestando una croce, ed era subito ribattezzata dal diavolo. Poi rendeva omaggio al diavolo inginocchiandosi davanti a lui e baciandogli il sedere. In segno di sottomissione, il diavolo poi, marchiava con un simbolo nascosto le donne, in genere una zampa di gallina. In cambio della sua anima dopo la morte, successivamente, insegnava alle megere come operare i malefici dotandole anche di poteri magici. Di conseguenza, la donna, ormai apparteneva al demonio e con le altre streghe, già marchiate di quello stesso patto, si riunivano periodicamente, per praticare un rito di adorazione del diavolo, seguendo atti osceni e disumani come infanticidi e cannibalismo. A queste riunioni notturne, il diavolo, si presentava sotto varie sembianze, accompagnato da altri demoni e dopo la sua apparizione, iniziavano appunto gli atti osceni. Sacrificavano dei bambini al loro dio, poi banchettavano con i corpi di questi neonati e con altri cibi nauseabondi. A volte in questo rito, si svolgevano parodie simili a quelle cristiane dell’Eucarestia, nel corso del quale, le streghe preparavano le loro pozioni magiche per i loro malefici. Dopo di che danzavano nude e avevano rapporti sessuali con il diavolo.
Inizia così, dopo la metà del XV secolo, la corsa alla caccia alle streghe, che inizialmente non assunse una forma marcata, ma nell’epoca moderma subisce una trasformazione radicale, specie quando il tribunale dell’inquisizione in Sicilia, ereditò il diritto inquisitorio spagnolo, ove vennero introdotti sistemi di interrogatorio più incisivi: la tortura. L’uso di essa si fonda sull’idea che, nel momento in cui una persona è sottoposta a sofferenze fisiche nel corso dell’interrogatorio, confessa il crimine. Ma queste idee sono ampiamente infondate, poiché a volte era talmente disumana che gli imputati non riuscivano a sopportarla e confessavano il falso. Le streghe prima ancora di essere interrogate, venivano gettate in prigione, in celle che erano conosciute col nome di segrete; antri che erano meno di tre metri di lunghezza e due di larghezza, cosicché i disgraziati ricevevano luce da un piccolo foro praticato sul soffitto ed erano condannati a una continua e quasi totale oscurità. Delle stuoie di vegetale per coperte, l’umidità che inzuppava i muri però le rendeva quasi subito inservibili; in un angolo, un vaso di argilla, dove ciascuno doveva provvedere alle materiali necessità fisiologiche, veniva vuotato una volta alla settimana, con le conseguenze facilmente immaginabili: spesso i più delicati morivano, asfissiati dai miasmi e i più fortunati, quando uscivano a rivedere il sole, non si reggevano in piedi, simili a cadaveri ambulanti. Assolutamente vietato leggere, ancora più lamentarsi, se qualcuno non resisteva gli veniva messa una sbarra di ferro in bocca per parecchi giorni e, se nonostante ciò, continuava a gemere, veniva condotto lungo i corridoi e sferzato a sangue. La “camera dei tormenti”, come si chiamava, si trovava nei sotterranei, vi si accedeva per una scala internamente buia. Si trattava, quasi sempre, di una grotta scavata nella terra, nella quale due fiaccole ad olio destavano angoli d’ombra terrificanti. Qui prendevano posto gli inquisitori, il medico, i carnefici e i colpevoli da “interrogare” se non avevano confessato. I carnefici vestiti da lunghe tuniche nere, con cappucci calati sulla testa e due buchi per gli occhi, uno per il naso e quattro per la bocca, afferravano il paziente e lo spogliavano fino alla cintola senza distinzione di sesso. Gli inquisitori si ponevano di fronte e con pazienza e tenacia, “supplicavano” l’eretico di confessare le proprie colpe, e se questi si ostinava a negare, ordinavano che venisse torturato “nel modo e per quanto tempo” stimavano necessario. Prima però che l’incaricato cominciasse, gli inquisitori avvertivano il torturato che in caso di lesione, frattura di membra o addirittura morte, la responsabilità doveva essere addossata unicamente a lui medesimo, alla sua testardaggine.
Ecco alcune forme di torture che l’inquisizione utilizza per indurre a confessione i presenti eretici:
“Lo strappado”: Una puleggia che, applicata alle braccia legate dietro la schiena, con una corda che penzolava da una carrucola ed, una volta tirata, sollevava il paziente ad altezze diverse dal suolo (di solito a quaranta piedi). Il dolore era aumentato da grossi pesi legati alle gambe, da 40 a 660 libbre. A un segno del giudice, la corda veniva lasciata e lo sventurato ricadeva sino ad un palmo dal suolo, per cui si slogava vertebre ed arti. Talvolta le ossa si spezzavano e non di rado il ventre scoppiava e ne schizzavano fuori le viscere, ma il carnefice e i suoi manigoldi le rimettevano al posto e se il torturato era ancora vivo sul colpo applicavano ferri roventi sulla pelle, per offrire spasmi atroci.
“Tormentum Insominiae”: Consisteva nel privare le streghe del sonno. La vittima legata era costretta ad immersioni nei fossati anche per tutta la notte, affinché non si addormentasse. Era una tortura molto efficace perché provocava smarrimento e le vittime confessavano senza problemi. Generalmente, quest’ultima non era niente di positivo, perché gli imputati sia dopo aver confessato o anche senza la confessione venivano condannate a morte. La sentenza più comune era il rogo, ove in una manifestazione pubblica, dopo giorni di digiuni e intense preghiere, la vittima veniva strangolata e poi il suo corpo veniva immerso in un barile di catrame e poi legata ad un palo e bruciata in uno stato di semicoscienza.
Dopo alcune ricerche nell’archivio storico diocesano della curia vescovile di Patti, mi sono imbattuta in un processo per magaria del 1585. Il processo, steso su di un manoscritto, è un miscuglio di lingua volgare e lingua latina, visto che il documento risale all’età moderna. Difficile da decifrare, ma dopo una lunga e dettagliata analisi del manoscritto, si deducono interessanti dati che consentono alcune osservazioni. Si tratta, purtroppo, di un manoscritto mutilo, ma dalla prima sentenza possiamo dedurre quale possa essere la conclusione, visto che già era stata accennata durante il processo la richiesta del procuratore fiscale di una massima pena.
Corre l’anno 1585, quando, una certa Vincenza Geraci, donna del luogo, è accusata di esercitare il mestiere di magara, pubblica ruffiana, incantatrice e istigatrice alla prostituzione. Era il “X° aprilis XIII.e Indictionis 1585, quando iniziò questo lungo ed interminabile processo. La donna è prima accusata di essere ruffiana, visto che molti testimoni affermano di aver assistito direttamente o indirettamente ad alcune conversazioni prima di lei ed Angiolella, una ragazza di giovane età e poi di altri che cercano di dissuaderla su delicate questioni sentimentali. Vincenza, secondo le testimonianze ha sempre tentato di unire in matrimonio la ragazza con don Michele Sinagra, un uomo di anziana età già vedovo. Infatti, secondo le affermazioni delle deposizioni dei singoli testimoni, Vincenza riuscì a far fuggire i due amanti, la classica scappatella, piaga della Sicilia moderna e contemporanea. L’accusa che a noi suscita particolare attenzione, secondo il tema della tesi, è quella di magaria. La donna, infatti, secondo un’opinione unanime dei testimoni, era solita effettuare magarie, attraverso vari modi ed a persone diverse. Il processo mutilo, termina il 31 maggio del 1585; non abbiamo avuto la possibilità di conoscere la sentenza, ma nel testo si riscontra la richiesta del procuratore fiscale, cosicché possiamo immaginare quale possa essere stato il destino di quella povera donna. A pare mio, Vincenza non era altro che una donna un po’ fuori dal normale che con le sue abitudini un po’ stravaganti infastidiva le persone con il proprio carattere; nessuno amava starle vicino. Purtroppo, in un’epoca dove la scienza e la medicina contavano poco, a lei toccò un destino pari o simile a quello di tante altre donne accusate di esercitare magia, che purtroppo, esisteva davvero nelle menti contorte di uomini perversi del periodo. Esaminando un altro processo edito in Sicilia ed a pochi chilometri da Patti, già commentato da Carlo Alberto Garuffi, possiamo azzardare anche l’ipotesi della conclusione del processo di Vincenza Geraci, poiché si può anche dire che in effetti anche in Sicilia a volte queste donne venivano trattate con ferocia e disumana follia, ma che a differenza delle altre parti sia dell’Europa e dell’Italia, attraverso queste sentenze possiamo intuire che le streghe anche se sottoposte a supplizi, non subivano la stessa sentenza di morte, ma un castigo esemplare. Il processo «super magariam» del 1555 contro Pellegrina Vitello, moglie di Leonardo Vitello, abitante a Messina, che Garuffi trasse dall’Archivio di Simancas, iniziò e finì nel breve periodo di quarantadue giorni, mentre ordinariamente la procedura si tirava in lungo anche parecchi anni, lasciando marcire in carcere gli imputati. Le prime accuse difatti di magaria contro pellegrina Vitello furono portate nei giorni 21, 22, 28 a 30 marzo 1555 da cinque donne all’illustre e rev. mo Don Bartolomeo Sebastian vescovo di Patti e inquisitore generale di Sicilia, che il 3 aprile seguente, prima ancora di raccogliere le deposizioni di altri confidenti, pensò di assicurare l’imputata alla giustizia, chiudendola in carcere, dopo averla chiamata in «audentia» e interrogata sulle generalità, dopo ciò le comunicò di «abri fatto asay magarie et invocato li dimonij», poichè ella ignorava la causa per cui l’inquisizione l’aveva chiamata e «data la prima monicio». Siccome ella si dichiarava innocente, il 7 maggio, fu condotta nella sala della tortura ed ammonita ancora che dicesse la verità, ma ella rispose che nulla aveva da aggiungere, sicchè l’inquisitore e il vicario generale, giudicandola negativa a dire la verità comandò «sia misa a tortura di la corda, in la quale estaya et persevera fina intanto chi dica la verità, protestandosi, como si protestarono, chi si in la dita tortura morisse oy habisse dilatatorie oy rotura di membri fuisse a culpa sua et non di loro». Nonostante le deposizioni dei testimoni contro di lei la inchiodassero, e nonostante la pesante e disumana tortura della corda, Pellegrina si confermava innocente. Sotto il tremendo supplizio, Pellegrina si rivolse a Dio affinché alleviasse le pene, poiché non era altro che una donna con abitudini simili a Vincenza Geraci, ovvero guaritrice incantatrice che ebbe un simile destino. La sentenza definitiva di maggio, puniva definitivamente questa donna e stabiliva che essa venisse «frustata pubblicamente per li estrati di quista cità» affinché sia castigo per lei ed esempio per gli altri. Con la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo i processi per stregoneria in Europa, cominciarono a diminuire, fino a cessare completamente, simultaneamente, in tutti i paesi d’Europa. Quelle credenze, furono semplicemente ribattezzate come «superstizioni» e trattate con disprezzo. Non mancò, nonostante tutto, qualche infiltrazione di idee a riguardo fra la gente di quel periodo, anche perché lo scetticismo nei confronti del soprannaturale è molto più difficile da instillare nella gente che non la credulità. Alla fine del XX secolo, grazie alle varie correnti filosofiche e alle scoperte scientifiche, la stregoneria, uno dei capitoli più tristi della storia europea, fu chiuso definitivamente.