12 Dicembre 1925 – Il furto del simulacro originale di Maria SS. di Capo d’Orlando
In prossimità della ricorrenza del furto sacrilego avvenuto la notte tra l’11 e il 12 dicembre del 1925 nella chiesa di Maria SS. che sovrasta l’abitato di Capo d’Orlando, cercheremo con una serie di riflessioni di inquadrare e spiegare, in un percorso ragionato e motivandole, le dinamiche che portarono all’azione di quella notte nella speranza che si possa fare luce sull’agire dei ladri e sui motivi che lo determinarono.
All’alba del 12 Dicembre 1925, il sacerdote Giuseppe Mancari (fratello del commissario prefettizio Ernesto) appena salito al monte per recitare la novena per Santa Lucia, notò qualcosa che non andava.
Quello che vide fu: una trave appoggiata al campanile, la porta della chiesa spalancata e sul pianoro si trovavano a terra un calice d’argento e delle ostie consacrate sparpagliate.
Dopo lo sbigottimento iniziale entrò in chiesa per rendersi conto di cosa mancasse e avuto coscienza dell’assenza del simulacro di Maria SS. di Capo d’Orlando, al grido di “si rubaru a Madunnuzza”, si precipitò giù per la ripida scalinata fino al paese.
Il suo primo pensiero fu di recarsi dal fratello Ernesto per rendergli conto dell’accaduto e subito dopo al posto fisso dei Carabinieri Reali per denunciare il fatto.
A tutt’oggi purtroppo non sono stati rintracciati documenti ufficiali sull’attività investigativa posta in essere dai Carabinieri e nemmeno la denuncia riferita al furto sacrilego, solo dai racconti degli anziani possiamo avere un’idea di come furono ricostruiti i fatti.
L’azione prese avvio dal recupero di una trave di legno dall’interno del castello, dove era stata lasciata da precedenti lavori eseguiti nella chiesa, e mentre almeno due persone la sostenevano, dopo averla posizionata sulla facciata del campanile, un’altra ci si arrampicò per accedere, dalla cella campanaria, all’interno della chiesa.
Discesi nella sacrestia attraverso la scala interna di legno, entrarono nella chiesa e subito dopo aver asportato la piccola statuetta della Madonnina, uscirono da una delle due porte.
E’ andata veramente così?
I luoghi oggi sono diversi da come erano nel 1925, dal campanile era possibile accedere, tramite una porta in seguito murata, ad un ballatoio, poi demolito, che correva in contro facciata per tutta la larghezza della chiesa e usato come coro.
Una volta saliti sul ballatoio, si è dentro la chiesa ma ad una quota più alta e non vi è nessuna possibilità di scendere, si rimane lassù con l’unica opzione di calarsi con una fune o saltare.
Non poteva essere questa la via più agevole per introdursi in chiesa, ma non avendo il resoconto del sopralluogo delle forze dell’ordine, non sappiamo se quella porta fosse risultata aperta, indizio che poteva confermare che i ladri non conoscevano bene l’ambiente in cui si muovevano, e nella discesa dalla cella campanaria potevano averla aperta credendo di introdursi facilmente nella chiesa.
Possiamo desumere che, ignorando la falsa via, continuarono la discesa per la scala del campanile trovandosi davanti la porta che immetteva nella sacrestia e da lì proseguirono nel piccolo corridoio entrando in chiesa dalla porta che separa i due ambienti.
Non avendo accesso ai rilievi investigativi di come furono trovate queste porte, non sappiamo se furono forzate e quindi se i ladri avessero con loro le attrezzature necessarie (leve, piede di porco, ecc.) per farlo.
Una volta dentro la chiesa ai ladri venne facile riconoscere la posizione del simulacro, anche perché era possibile identificarlo già dalla finestra inginocchiatoio dall’esterno.
La statuetta era custodita dentro una piccola nicchia di legno, adornata di fregi d’oro e munita di inferriata d’argento, posta sull’altare maggiore, “aprire e rubare” fu un gioco da ragazzi e così rimaneva solo di uscire dalla chiesa.
I ladri non ritornano sui loro passi per uscire dalla chiesa dato che una delle porte di accesso fu trovata spalancata e quindi è sicuramente da li che uscirono, ma ignoriamo se quest’ultima fosse stata forzata dall’interno o dall’esterno.
Sul calice ritrovato abbandonato all’esterno della chiesa non si ha alcuna notizia, era l’unico all’interno della chiesa?
Esisteva un inventario che avrebbe permesso di determinare cosa effettivamente mancasse?
Buona parte degli arredi sacri e di valore erano stati portati nella chiesa di Porto Salvo, quindi il calice d’argento poteva effettivamente essere l’unico oggetto di valore presente in chiesa al momento del furto.
L’esistenza di un inventario del “tesoro della Madonna” può essere dedotta dal fatto che negli anni ’80 padre Manzella leggendolo si lagnava di come mancassero molti oggetti e i pezzi che rimanevano erano davvero poca roba.
Molto probabilmente il tesoro fu in buona parte compromesso con la donazione di oro e argento alla patria nel 1935 per finanziare le campagne coloniali del regime fascista.
Sembra quindi che le attenzioni dei ladri furono riservate al solo simulacro, per altro di nessun o modesto valore economico, dato che non furono rilevate attività o tracce di ricerca di oggetti di valore.
Altri elementi possono essere riscontrati dal racconto che l’insegnate Cono Micale Alberti – uno dei paladini dell’autonomia – fa del suo sopralluogo al monte proprio in quella mattinata.
Recatosi sul posto rilevò alcune orme vicino alla trave e con del gesso ottenne il calco dell’impronta di una scarpa da donna (sono visibili il tacco e la punta), ed altre tracce di scarpe da uomo vicino al calice.
Se i ladri lasciarono delle impronte dinanzi alla chiesa, vuol dire che il terreno era umido, quindi, come mai non furono rilevate anche altre impronte all’interno?
Quante persone entrarono nella chiesa e quante rimasero fuori? Qualcuno fece da “palo” e come si sarebbero comportati se fosse arrivato qualcuno? Possibile che non si fossero creati una via di fuga per uscire velocemente dalla chiesa? Vi era una via di fuga alternativa dagli ambienti del castello?
Interrogativi che per il momento restano senza risposta.
Possiamo invece ricostruire i motivi che permisero ai ladri di agire indisturbati nel portare a termine il loro piano.
Il 1870 è un momento decisivo per la storia del Santuario e della comunità di Capo d’Orlando, i sacerdoti Giuseppe e Salvatore Merendino, decidono di chiedere di “dotare il villaggio” di una chiesa più agevole da raggiungere in qualsiasi momento dell’anno e più pratica nell’impartire i sacramenti del battesimo, svolgere i funerali e le messe solenni.
Con l’avallo del clero di Naso il vescovo – Mons. Michelangelo Celesia – il 13 Agosto 1870 approvò la costruzione di una chiesa.
Per l’erezione della stessa fu utilizzato un terreno di proprietà della famiglia Merendino, finanziandola con gli introiti provenienti dal Santuario.
Questo di fatto determinò uno spostamento della religiosità dalla chiesa del monte, alla nuova chiesa dedicata a Maria SS. di Porto Salvo, già venerata a Naso nella chiesa del SS. Salvatore fin dal 1616.
Al 1925 la chiesa del monte non aveva più una presenza fissa ma un parroco, Giuseppe Mancari, che ogni mattina aveva il compito di dire messa.
Durante la notte sappiamo che la chiesa rimaneva incustodita e alla portata di chiunque, nessun sacrestano o prelato abitava più dentro la sacrestia, si preferì vivere nella nuova chiesa alla marina.
Questo spostamento legittimo, creò i presupposti, per ciò che accadde nel 1925.
C’erano comunque già stati dei segnali, dopo pochi anni nel 1880 , la poco sorvegliata chiesa del monte subì il furto del lampadario in argento e pietre preziose, donato da Pietro Giron Duca d’Ossuna e Vicerè di Sicilia per grazia ricevuta, che fu in seguito recuperato già diviso presso un argentiere.
Nel 1907 e nel 1910 fù presa di mira la cassetta dell’elemosina.
Altro episodio non datato e riportato oralmente da Calogero Ingrillì, ennesimo campanello d’allarme ignorato, è quello che vede l’inferriata della nicchia che custodisce la Madonnina venir ritrovata semi aperta e la stessa statua leggermente spostata, quasi come fosse stata toccata da qualcuno.
I furti interessarono solo cose di valore anche se l’ultimo episodio potrebbe far presagire il mutato interesse da parte di qualcuno che aveva intravisto le condizioni per una profanazione della chiesa e la conseguente attuazione di un furto sacrilego per un non meglio precisato scopo: collezionismo, religione, vendetta?
Anche le indagini furono condotte in maniera approssimativa, con perdita di tempo prezioso in piste che sembravano più divergere dai ladri che avvicinarsi.
I Carabinieri Reali di Capo d’Orlando e quelli di Naso setacciarono il territorio effettuando perquisizioni in casa di pregiudicati, nei casolari e nelle cantine, tutte senza esito.
Emersero ipotesi investigative che deviarono le indagini, notizie montate ad arte e tendenti a creare confusione e false piste.
Gli investigatori rivolsero la loro attenzione su un circo che si trovava di passaggio a Capo d’Orlando e che la sera prima aveva concluso il suo ultimo spettacolo nel tendone montato in piazza Caracciolo alle falde del monte.
Venne preso di mira un equilibrista che la mattina del furto era stato visto entrare, non si sa da chi, all’interno del tendone con un fagotto sotto braccio.
Tutti gli appartenenti al circo furono rintracciati, identificati e interrogati nel carcere di Patti e di Naso.
Tra i fermati risultò irreperibile solo l’acrobata che era di nazionalità francese. Non emersero indizi a carico dei fermati e tutti furono rilasciati.
Per l’acrobata irreperibile fu diramato un fonogramma di ricerca in tutta Italia e in Europa ma non si ebbe mai alcuna notizia.
Fu ingaggiato persino un fantomatico investigatore privato ed anche le sue ricerche non portarono a nessun risultato.
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