1860 – I Garibaldini testimoni della “malaria” a Capo d’Orlando
di Giuseppe Ingrillì
Un vecchio detto siciliano recita: “‘nta ogni paisi d’ ‘a Sicilia Garibaldi àvi sempri ‘na casa”.
Dando per buono questo convincimento siculo, non possiamo non notare come il percorso dell’eroe dei due mondi venga, nell’immaginario comune, scandito e identificato dai luoghi di sosta e d’accoglienza in cui Garibaldi o i suoi subalterni si rinfrancarono dalle fatiche delle marce e della guerra. Questa caratterizzazione viene scandita marginalmente anche nelle nostre zone, tanto che, sia Patti che Milazzo, al momento le uniche due località ad avere memoria della visita, ne hanno reso omaggio con l’apposizione di due targhe.
In altri centri montani, mi riferisco per vicinanza e per i fatti successi, ad Alcara Li Fusi subito dopo lo sbarco a Marsala, il ricordo dei Mille si trasforma in dolore, per via delle note vicende successe e ampiamente documentate (vedi Manfredi-Gigliotti Michele, “I moti d’Alcara Li Fusi”). La strada sarà stata sicuramente faticosa e le lunghe giornate a cavallo impegnative, tanto da dover riposare comodamente, ove possibile, cogliendone l’occasione, quando si presentava e non rifiutando la possibilità di rifocillarsi con un pasto o di servirsi di un morbido letto dove riposare le stanche membra.
Senonché, nel ricordo di una memoria orale, tramandato da qualche anziano e raccontato a quei bambini diventati anch’essi anziani, arriva a noi l’eco di chi quella storia l’ha vissuta o sfiorata nel cammino dell’eroe dei due mondi verso Messina.
Nel 1860, né Capo d’Orlando piccola frazione marinara, né il capoluogo Naso, poterono vantare un pernottamento del prode Generale, nessuna abitazione che possa veder appuntata una medaglia sulla sua facciata, una targa a memoria o a ricordo dell’illustre inquilino – solo l’intitolazione postuma di un piazza comunemente appellata più “stazione”, anziché “Piazza Garibaldi”, la quale negli ultimi 15 anni è stata al centro di un revisionismo alterno e battagliero, poco storico e poco convincente, in definitiva poca cosa.
La memoria orale però, identificava in una piccola e bassa costruzione in un angolo del salotto buono del tempo, Piazza Duca degli Abruzzi a Capo d’Orlando, non esteticamente rilevante, quasi una stalla, o magazzino, appellata a memoria prima della demolizione “a casa di Garibaldi”. Al suo posto il progresso piazzò un bell’edificio a più elevazioni, cancellando la piccola costruzione e in parte la memoria; io personalmente da piccolo fui suggestionato dal racconto di questa “casa Garibaldi”, immaginandomi l’eroe dei due mondi fermarsi con il suo cavallo e lì pernottare. Di contro alle domande curiose “ma Garibaldi è passato da Capo d’Orlando?” tutti rispondevano “no figliolo, passò largu!”
Le moderne tecnologie, hanno costruito autostrade del sapere, che aiutano, oggi più che ieri, le ricerche permettendo di rimanere comodamente seduti a casa con l’accesso quasi illimitato alle fonti. Una di queste ricerche, non voluta perché rivolta ad altro, permette oggi di ricostruire un fatto, che non darà risposta alla “casa Garibaldi”, ma che ci racconta un episodio marginale, totalmente dimenticato e che coinvolge la marina di Capo d’Orlando.
Il testo si intitola “Il clima di Roma” di Corrado Tommasi-Crudeli edito nel 1886 da Ermanno Loescher & C., lo riportiamo integralmente così come raccontato nelle pagg. 61 e 62:
Avviene però che spessissimo ci si trovi in località di malaria grave, nelle quali non v’è la menoma traccia di ristagni d’acque putrescenti. Allora si cerca di uscire dall’imbroglio, studiando le carte geografiche se si trovino in qualche località finitima dei ristagni d’acqua cosifatti.
Appena se n’è trovato uno, anche a distanza grande, si ammette senz’altro che i venti trasportino la malaria prodotta da quel focolaio, sino al luogo che non ha ristagni d’acque consimili; e per lo più lo si asserisce, senza nemmeno accertarsi se vi sia alcuna corrispondenza fra il manifestarsi delle febbri di quest’ultimo, e l’arrivo di correnti aeree dalla direzione del primo.
Ma talvolta anche la risorsa di questa spiegazione manca, perché non si trovano ristagni d’acqua putrescente in nessuna delle località dalle quali i venti possono soffiare nella direzione del luogo malarico. In tal caso, non di rado avviene che la preoccupazione teorica faccia velo al giudizio, fino al punto da indurre la gente a dubitare che il luogo sia malarico, piuttostoché ammettere che lo sia senza le norme volute dai dettami della scuola.
Io pure sono stato trascinato una volta dai miei pregiudizi scolastici a commettere questo peccato (che chiesa Cattolica annovera fra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio), ed ho negato la verità conosciuta, per non essere infedele ad una tradizione erronea. Me ne confesso pubblicamente, perché possiate profittare anche voi della lezione che ebbi io venticinque anni fa.
Nella marcia che il piccolo esercito di Garibaldi faceva su Milazzo nel luglio 1860, lungo la costa settentrionale di Sicilia, il reggimento al quale io apparteneva dovette accampare una notte al capo d’Orlando. Arrivammo con un magnifico chiaro di luna, sopra un pendio situato nell’alto di un colle che prospetta le isole Eolie, ed in questo pendio si doveva fare il campo.
La guida siciliana avvertì il colonnello del reggimento di non farcelo, perché era un luogo di malaria. Il colonnello, sorpreso di sentire che in quel bel luogo ed a quell’altezza vi fosse malaria, mi invitò ad assicurarmene. Io mi posi ad interrogare la guida, e dopo essermi accertato delle sue risposte che non v’erano nelle vicinanze paludi, maceratoi, risaie, ristagni di acque dolci miste alle marine, ecc…, sentenziai che quell’uomo era in errore, poiché situati come eravamo, col monte dietro le spalle verso Sud, e col mare dinanzi a noi verso Nord, non potevamo aver trasporti di malaria prodottasi altrove, mentre il terreno asciutto ed elevato dove stavamo non poteva produrre.
Ma invece ne produceva, e ne produceva tanta che alla mattina dopo avervi fatto accampare il reggimento, parecchi soldati furono presi da febbri intermittenti. Naturalmente un fatto simile scosse la mia fiducia nella teoria palustre, ma, come vi ho detto poco fa, ciò non bastò a togliermela interamente dal capo; e vi è voluto un lungo studio pratico, e soprattutto un lungo commercio colle popolazioni dei luoghi malarici di varie parti d’Italia, prima ch’io riuscissi a liberarmi interamente del pregiudizio.
Così si chiude il breve racconto di una memoria scritta e riportata, al tempo stesso dimenticata e adesso, fortunatamente condivisa. A noi il piacere di divulgarla e ricordarla come il tassello di un fatto storico del nostro territorio.