“Babbaluti” i 33 “Penitenti” di San Marco d’Alunzio – Riti della settimana Santa
di Giuseppe Ingrillì
Trentatré erano gli anni di Gesù quando fu crocifisso, vissuti sulla terra a predicare e portare la parola di Dio, il messaggio della salvezza del mondo dai peccati, e trentatré sono i Babbaluti che a S. Marco d’Alunzio in provincia di Messina, diventano rappresentazione, nell’ultimo viaggio verso il pellegrinaggio materiale e spirituale poi. Movimento corale verso il pentimento di ognuno dei partecipanti al rito sacro. Conclusione spirituale, forse, dell’ultimo momento veramente cristiano nella religiosità pasquale e dei suoi riti più sentiti e introspettivi. Epilogo sacrificale di una vita terrena, nell’annuncio divino della Resurrezione spirituale. Sui monti Nebrodi, lì dove il cielo e la terra si incontrano, l’ultimo Venerdì di Marzo o se esso coincide con il Venerdì Santo, anticipato di una settimana, si celebra il momento più solenne della Crocifissione di Gesù. Le vie del millenario borgo si vestono a festa per la processione del S.S. Crocifisso dell’Aracoeli o da tutti comunemente detta dei “Babbaluti”.
La fonte storica la fa risalire al 1612 e da li ininterrottamente la si celebra, sempre immutata, anno dopo anno fino ad oggi, fiera rappresentazione storica di una ritualità che nel resto dei Nebrodi ha perso memoria.
Chi sono i “Babbaluti”?
Abbiamo chiesto all’Avv. Michele Manfredi-Gigliotti, competente studioso e storico, con numerose pubblicazioni sul territorio dei Nebrodi, che così ha voluto contribuire alla ricerca del termine semantico dei Babbaluti, “Non sono riuscito a rinvenire dei precedenti sull’origine semantica del termine Babbaluti. Prima facie, ho ritenuto di dovere orientare la ricerca nell’ambito della lingua araba. La parola genitrice a noi sembra essere babush, con il significato letterale di copripiedi o, se si vuole conservare una certa assonanza, babbucce (pantofola orientale comoda, di uso casalingo). Seguendo questa etimologia, ha un senso che l’ultimo venerdi di Marzo in occasione della festa del SS. Crocifisso di Ara Colei in San Marco d’Alunzio, i portatori della sacra icona si chiamino babbaluti. Tale denominazione deriva dal mondo rituale con cui i portatori incedono durante la processione, ossia molto lentamente, quasi indossassero delle calzature impedienti una andatura più sciolta, come avverrebbe se calzasserro delle babbucce. Il passo successivo consequenziale: il loro modus procedendi ricorda da vicino quello delle lumache, che non solo avanzano in modo lento, quanto sono onerate, come portatori, dal trasporto di peso. Nel palermitano, ove l’influenza araba è stata più incisiva, con il termine babbaluciu (con la variante vavaluci, babbaluti) si indica, appunto, il gasteropode che in italiano chiamiamo chiocciola.” Quì il tentativo di dare risposta ad un assillo letterario arcaico, che connota profondamente questa festa. Sappiamo che sono in numero di 33, come gli anni di Gesù, il numero che rappresenta la Cabala stessa con tutti i suoi segreti mistici che essa contiene. Per alcuni è definito il “numero maestro” o “vibrazione del maestro”, è sempre Gesù che nei Vangeli compie 33 miracoli dei quali 24 sono cure. Questo numero avrebbe la capacità di attrarre a se una vibrazione cosmica rendendo ispirate le persone e amplificando le capacità di meditazione spirituale. Sappiamo che sono uomini e donne, chissà se è sempre stato così, e sappiamo che sono chiamati anche i “Penitenti”, quelli che in virtù di una grazia ricevuta o dall’aver commesso un peccato, o più peccati, per farsi perdonare, accompagnano per le vie di S. Marco la “vara” di Gesù Crocifisso. Diventeranno espiazione personale.
Nelle profondità del 1600, i Babbaluti, impersonificheranno la parte più spirituale e misterica della celebrazione, connoteranno con una religiosità sentita e devota la fede cristiana, annullando l’uomo nella sua identità con la ricerca della redenzione dal crimine dell’uccisione del messia.
Nella frase ripetuta come un mantra “Signuri, misericordia, pietà!” tutta la voglia di redenzione e di ricerca del perdono per il crimine commesso dall’uomo e per i propri peccati.
Il loro abbigliamento è scarno, nessun segno che li contraddistingue, nessuna gerarchia, tutti uguali, tutti “fratelli penitenti incappucciati”, un tutt’uno con Gesù, 33 corpi che all’unisono reggono sulle loro spalle il peso della colpa. Sono tutti incappucciati, nella tonalità del blu intenso, che nel cristianesimo è il colore che nel periodo della purificazione penitenziale rimanda all’Avvento e alla Quaresima. La particolare rappresentazione, che cade in prossimità dell’Equinozio di Primavera, pone l’attenzione sui culti romani o prè cristiani, che rimandano all’eco di una città che in passato fu centro importante nella storia antica. Queste manifestazioni, molte poi cristianizzate, affondano le radici in espressioni cultuali più arcane. La “Ver Sacrum” o la “Primavera Sacra”, celebrata per scongiurare carestie o momenti difficili, nel periodo cristiano, assume il carattere del cambiamento o del rinnovamento. Quale occasione migliore dell’unico figlio di Dio, fatto uomo, carne, che con la sua morte e risurrezione, predispone al rinnovamento e al cambiamento.
In passato, il saio si configurava di colore grigio, il colore della cenere e della penitenza che riporta alla tradizione di cospargersi il capo di cenere, come atto di pentimento. Azione profonda di morte e purificazione in uso negli antichi popoli del Mediterraneo e presente nelle popolazioni Arabe e Giudaiche. Quest’ultimo popolo nella storia di S. Marco è presente, influenzando la cultura storica della cittadina. Altro particolare dell’abbigliamento dei Babbaluti, sono i “Piruna” pesanti calze di lana di pecora lavorate a mano. Nel periodo della conquista araba il Val Demone era rinomato per la sua seta pregiata e per la lavorazione tessile con il ricamo e l’intreccio, ancora vivo nella produzione di pregio a S. Marco. La condizione di scalzo del penitente, lo poneva a stretto contatto con la terra e lo rendeva ricettivo verso le forze telluriche che infondevano forza, “soprattutto se, come avveniva in tempi antichi, si danzava e si praticavano tali riti durante gli equinozi e i solstizi, momento in cui gli influssi astrali erano più forti”.
I Babbaluti abbiamo detto sono uomini e donne, annullati nella loro identità, solo il parroco a cui si rivolgono ne conosce il nome, il ruolo è ambito, i numeri limitati al simbolico 33, e quindi la concorrenza molto accesa. L’anonimato è alimentato dal rituale stesso, mentre tutto il paese è concentrato sulla liturgia che si svolge in chiesa, i 33 selezionati tra i più bisognosi di mondare la propria anima, nella chiesa di Santa Maria dei Poveri si cambiano, lontani da occhi indiscreti, in alcuni casi indossano guanti per non farsi identificare, nessuno può assistere o entrare durante la trasformazione.
Ognuno indosserà la sua anima, il suo supplizio interiore, il suo abito che poi restituirà al termine della cerimonia, permettendo di perpetuare con lo stesso saio la tradizione. In tutto questo si respira la modernità del momento, uomini e donne, l’umanità tutta, unita nel dolore, nella completezza del genere umano a sostenere lo sforzo del pesante fardello. Il fercolo che eleva la croce, il sacrificio del Verbo immolatosi per redimere i peccati del mondo. Uniti nel dolore e nella sofferenza, nello sforzo dell’incedere, lentamente e inesorabilmente verso il percorso che li riporterà da dove si è partiti. Cerchio divino che si richiude su se stesso, un “ouroboros” che simboleggia quindi l’unità e l’androgino primordiale, la totalità del tutto, l’infinito, l’eternità, il tempo ciclico, l’eterno ritorno, l’immortalità e la perfezione.
Ogni anno il rito, nei secoli immutato, scandisce la giornata dell’uomo e del suo sforzo, i preparativi si svolgono secondo una sceneggiatura collaudata. Nella chiesa dell’Aracoeli (edificata sulle rovine di un tempio pagano nel XII secolo e amministrata nel culto greco-ortodossa, fu ricostruita a partire dal 1494 in varie fasi e ultimata e abbellita nel 1720) viene allestita la macchina scenica, “u sepurcru” agghindato con drappi rossi e gialli, illuminato da candele, che riproducono il Pretorio di Ponzio Pilato. Lì si prega e si rende omaggio all’agnello sacrificato.
Una messa dedicata alla sofferenza prepara i fedeli al momento culmine della sacra rappresentazione, il momento in cui il S.S. Crocifisso del 1652 (opera di Fra Umile da Petralia) viene spostato e portato fuori, dove la folla lo attende con la vara già posizionata. Intanto nella concitazione del momento, i Babbaluti in coppia, lasciano il luogo della loro trasformazione, e si incamminano verso una rampa laterale della chiesa dell’Aracoeli, nel percorso secolare, che li porta ad attraversare “a porta fausa”, e baciando il sacro suolo della chiesa, verso il Crocifisso. E’ il momento che tutti aspettavano, l’uscita di Gesù in croce, offerto all’abbraccio e alla devozione dei fedeli. L’osservatore rimane affascinato dall’affetto della gente verso il Crocifisso, dal suo mescolarsi nella folla e da essa riceverne carezze, baci. Un abbraccio sincero, genuino, devoto, prima di essere issato e assicurato alla sua base. Bagno di folla che simboleggia interiormente per ognuno dei fedeli che si avvicina, la richiesta di scusa per una colpa non sua, il liberare la propria anima dalla colpa millenaria del non aver saputo scegliere fra Barabba e Gesù. Viene portato e messo ai suoi piedi il quadro della Vergine dei sette dolori, trafitta da sette spade, ma è quasi ignorata, l’attenzione è tutta verso il Crocifisso. “Anche qui il numero sette che rappresenta il perfezionamento della natura umana, numero che congiunge in sé il ternario divino con il quaternario terrestre. Essendo formato dall’unione della triade con la tetrade, il numero Sette indica la pienezza di quanto è perfetto, partecipando alla duplice natura fisica e spirituale, umana e divina. É il centro invisibile, spirito e anima di ogni cosa. Il Sette è il numero della Piramide in quanto formata dal triangolo(3) su quadrato(4). Quindi il Sette è l’espressione privilegiata della mediazione tra umano e divino e chi meglio della Madonna può esprimere questa natura”.
Una volta sistemata e assicurata il Crocifisso alla vara è il momento dei Babbaluti. Vengono sistemate le quattro stanghe e adesso la scena è tutta per loro. Sempre a coppia, prendono posto inchinandosi e rendendo omaggio al Cristo e alla Madonna, pronti a sostenere lo sforzo. Solo uno di loro procederà all’indietro, disponendosi di fronte alla vara, con lo sguardo fisso verso il quadro della madre e del figlio in croce. Forse solo ora si decide una gerarchia. Adesso in piazza si attende solo il parroco che esce dalla chiesa e in un raccoglimento collettivo, nel silenzio pronuncia la sua preghiera, la sua invocazione, ruba la scena solo per un attimo, poi al suono di una marcia funebre e in religioso silenzio incomincia la lenta marcia.
Ad un movimento lento, cadenzato, quasi ipnotico la vara incomincia a muoversi e con essa incomincia la nenia, il mantra che viene bisbigliato con deferenza, rispetto e devozione, “Signuri, misericordia, pietà!”.
Bibliografia
- G. Pitrè “Usi Costumi e credenze e pregiudizi”
- AA.VV. “La Città della Montagna, Tesori nascosti”
- G. Giaimi “Il Parco dei Nebrodi”
- N. MUccioli “Leggende e racconti popolari della Sicilia”
- Wikipedia alle voci “Ver Sacrum”
- Manfredi-Gigliotti Michele “Ipotesi su San Pietro di Deca”
Fotografie
- Giuseppe Ingrillì
- Antonino Ravì Monaca