Dall’Inquisizione a San Marco d’Alunzio le vicende dell’ebreo alcarese Matteo Carruba, mandato al rogo.
di Michele Manfredi-Gigliotti
Per ricercare e rinvenire le origini dell’Inquisizione, è necessario effettuare una retrocessione cronologica e ambientarci nel tempo in cui si tenne il Concilio di Verona, che fu presieduto da papa Lucio III. Correva l’anno 1184 e, nell’occasione, vennero gettate le basi progettuali per l’istituzione dell’Inquisizione, a cui la Chiesa cattolica conferì, mantenne nel tempo e tuttora continua a usare, l’appellativo di Santa.
Sembrerebbe (ma la questione appare controversa) che la spinta verso la realizzazione del Tribunale eccezionale ecclesiastico sia stata generata dal timore che potessero espandersi le eresie (il termine proviene dalla lingua greca e, precisamente, dal verbo αιρεω=operare una scelta) che presero piede nei secoli XI-XIII ad opera dei Catari (kαταρs=puro) e dei Valdesi (così detti dal loro fondatore, Pietro Valdo da Lione).
Il Concilio di Verona, come già evidenziato, pose le basi (consistenti nell’esplicito ordine dato dal papa, quale presidente del consesso veronese, ai vescovi di tutte le diocesi di porre in essere frequenti visite pastorali alle singole parrocchie al fine di verificare e riferire circa l’esistenza o meno in esse di attività ereticali che contraddicessero le interpretazioni autentiche date dalla Chiesa) sulle quali venne in prosieguo eretta quella istituzione ecclesiastica che si chiamò Santa Inquisizione, che, nell’esecuzione dei compiti ad essa affidati, ebbe una vita lunghissima e attivissima come è dimostrato dal breve excursus qui di seguito riportato senza alcuna pretesa di essere esaustivo, ma solo indicativo del suo dna.
Le disposizioni impartite dal papa Lucio III furono, infatti, completate ed integrate da quelle emanate da Innocenzo III, datate 1205, 1206 e 1212, nonché dal canone terzo del Concilio Lateranense che si tenne nel 1215.
Poiché, però, le varie eresie, malgrado i rigori adottati, prendevano sempre più piede, indotte e favorite dalla vita sempre più scostumata e contraddicente gli insegnamenti di Cristo proprio da parte della Santa Sede, i poteri politici centrali della Chiesa cominciarono a irrigidirsi adottando vere e proprie misure di polizia e ottenendo, per questo, la cooperazione di vari Stati, confessionali e non, tra cui, in particolare modo, la Francia con la quale intervenne il c.d. Trattato di Parigi del 12 aprile 1229, le cui norme pattizie erano rivolte ad impegnare i poteri statuali ad assicurare supporto e sistemi poliziesco-esecutivi su semplice richiesta della Santa Sede.
Sulla medesima falsariga, Federico II negli anni 1220, 1224 e 1231 adottò una serie di costituzioni, sia di normalizzazione che di potenziamento dell’attività inquisitoria, mentre Gregorio IX si fece carico dell’erezione di vari tribunali inquisitori, costituiti da giudici tratti, prevalentemente, dalle file dei Domenicani e dei Francescani, che sedevano per la funzione in modo permanente ed avevano giurisdizione territoriale sulla maggior parte degli Stati europei nei quali essi erano esistenti come organo giudicante (ma sarebbe più corretto dire esclusivamente reprimente).
L’inquisizione esaurì le sue funzioni in epoche diverse con riferimento ai singoli Stati. In Portogallo scomparve nel XIX secolo; in Spagna, soppressa nel 1808 per intervento di Napoleone, restaurata da Ferdinando VII nel 1814, nuovamente soppressa nel 1820, di nuovo restaurata nel 1823, venne definitivamente abolita nel 1834; in Italia, dopo varie vicende, sia religiose che politiche, l’Inquisizione finì per scomparire dalle pagine della cronaca quasi diluendosi nell’oblio generale, senza tanti clamori, con grande soddisfazione degli inquisitori, i quali probabilmente ritennero, così, di essere riusciti a celare, definitivamente, le nefandezze di cui, nei secoli nei quali avevano operato, si erano macchiati.
Difficilissimo, per non dire impossibile, fare il conto di quante furono le vittime che subirono la persecuzione inquisitoria, sia perché esse si trovano ad essere distribuite su territori di Stati diversi, sia per i diversi tempi di inizio e di soppressione della sua attività criminosa. Solo al fine di addurre un esempio, e non altro, di modo che si possa estrarre un dato a campione, diciamo che, in relazione al solo territorio della Sicilia, abbiamo potuto comporre, per la soluzione temporale che va dal 1487 al 1732, un elenco di relaxados al braccio secolare, sia in personam che in statuam, di 458 persone tra uomini e donne (ci siamo avvalsi, per questo, dello studio di Vito La Mantia, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo 1977).
Se si tiene conto, come è doveroso tenerne conto, che il dato numerico si riferisce al solo territorio isolano, chiunque può ricavare l’entità del fenomeno nella sua generale complessità, riferito, cioè, all’intero territorio dell’Italia geografica e, ancor più, a quello di tutti gli Stati europei ed extraeuropei (si pensi ai vasti territori delle colonie delle sole Spagna e Portogallo) nei quali ha operato attivamente l’Ufficio dell’Inquisizione.
Una vera e propria carneficina, per molti versi paragonabile alla politica di sterminio effettuata nei campi di concentramento nazisti con i medesimi sistemi improntati al sadismo più orrendo, secondo prevenzioni concettuali e giudizi precostituiti basantisi, non più sull’appartenenza a determinate etnie classificate di infimo pregio, ma su concetti divergenti da quelli ritenuti e diffusi ex professo dalla Santa Sede.
La competenza funzionale di questa specie di organi giudiziari della Chiesa cattolica si estendeva alla cognizione di quei comportamenti umani posti in essere da eretici conclamati e non solo tali, ma anche da quelli che fossero appena appena sospettati di esserlo, il più delle volte a seguito di denunzia presentata in forma anonima, in quanto palesemente calunniosa, oppure da coloro che avessero ascoltato sermoni, prediche e preghiere di eretici o, infine, da coloro che si fossero prestati a dare, in qualunque modo, protezione, asilo e qualsiasi altra forma di aiuto e supporto ad eretici; da bestemmiatori con assoluta equiparazione degli abituali agli occasionali; dai giudei, buddisti, maomettani e, in genere, dagli appartenenti a qualsiasi altra fede religiosa, diversa da quella cristiano-cattolica, ivi compresa quella ortodossa; da streghe, maghi, stregoni, sciamani, le quali ultime categorie di persone rimangono quelle maggiormente colpite dall’Inquisizione; dai fraticelli, dagli spirituali, dagli scomunicati, dai violatori del riposo domenicale, da coloro che avevano intrapreso convivenze more uxorio (1); da coloro che contestavano la potestà del papa e non credevano nella sua infallibilità anche quando si pronunciasse su questioni teologiche, oppure contestavano che l’elezione del papa avvenisse per intervento diretto dello Spirito Santo essendo di tutta evidenza che, specialmente nei tempi ai quali ci si riferisce, l’elezione al soglio pontificio era una questione eminentemente di natura politica che coinvolgeva gruppi di pressione costituiti dalle famiglie più potenti, soprattutto di Roma, che davano vita a intrallazzi vari, camarille di ogni tipo e, spesse volte, ad omicidi per togliere di mezzo candidati al soglio di Pietro.
Che in tutti tali intrallazzi, omicidi, violenze private, compravendita dei voti dei porporati conclavisti, storicamente accertati, qualcuno possa ancora pensare che sia potuto intervenire lo Spirito Santo per eleggere il pontefice, è un pensiero che esula dalla docetica di Cristo.
Per quanto attiene alle modalità adottate dall’ ufficio inquisitorio per istruire (il termine va ritenuto come un puro e semplice eufemismo!) il processo, diciamo che l’iter procedurale comprendeva, di massima, tre fasi.
Prima fase: l’inquisito veniva interrogato dai componenti l’ufficio alla presenza di due testimoni, mentre un notaio trascriveva gli avvenimenti ai quali assisteva. Nel caso in cui fosse stata confessata la colpevolezza, l’iter processuale veniva perentoriamente interrotto per dare lettura della sentenza di condanna. La maggior parte delle volte l’inquisito confessava di essere colpevole in quanto, prima di procedere alla sua audizione collegiale e dinanzi al notaio, egli era stato, per così dire, preparato tramite la sottoposizione ad una serie di torture inimmaginabili, tramite sistemi e macchine infernali, come, tanto per evocarne alcune, la forcella dell’eretico, il topo, le turcas e lo strappo delle unghie, il triangolo, la culla della strega, la garrota, le ordalie del fuoco e dell’acqua, la vergine di Norimberga e il tormentum insonniae.
In mancanza di una confessione spontanea di commissione del crimine contestato, l’inquisito veniva sottoposto a torture disumane finalizzate a fargli dire la verità, ossia a fargli ammettere l’unica verità possibile apprezzata dalla Inquisizione: l’ammissione di colpevolezza;
Fase intermedia: le modalità di esecuzione della pena avevano caratteristiche che definire assolutamente affette e pregne da algolagnìa, con alto grado di specificazione sadica, rappresenta un eufemismo. Il condannato, infatti, relaxado (rilasciato) al potere temporale, saliva sul rogo nella piena e assoluta coscienza di quanto stava per accadergli e con tutti i sensi al massimo della loro potenzialità percettiva, così che la morte sopravveniva in modo lento e cosciente, tra le urla strazianti del condannato, divorato man mano dal fuoco;
Fase successiva: ad esecuzione portata a termine, le ceneri venivano disperse al vento, preferibilmente, sulle superfici del mare, di un fiume o di un lago, di modo che del condannato non restasse alcuna traccia materiale visibile, come se non fosse mai esistito sulla faccia della terra.
Appare molto difficile capire ed esporre le motivazioni che hanno spinto la Chiesa di Roma a inventare, istituire e incentivare in tutti i modi i Tribunali dell’Inquisizione. Erano trascorsi secoli e secoli dal tempo in cui i seguaci della religione di Cristo (quando erano loro ad essere ritenuti eretici, in quanto avevano osato minare dalle fondamenta il consolidatissimo paganesimo, l’ebraismo e tutte le altre credenze religiose che avevano preceduto il cristianesimo), erano stati perseguitati, massacrati, squartati, crocefissi e dati in pasto alle belve feroci nelle arene di tutto il mondo allora conosciuto. Il lungo lasso di tempo trascorso da quegli avvenimenti aveva fatto, con ogni evidenza, dimenticare e quasi cancellare dalla memoria tutto quello che avevano patito i proto-cristiani, al punto che i seguaci del nuovo credo di Cristo, oramai collocato al sicuro già dal tempo dell’imperatore Costantino entro la corazza della religione di Stato, hanno pensato bene di porre in essere una specie di legge del contrappasso, ovvero una nemesi storico-religiosa, adottando gli stessi metodi di persecuzione, di massacro e di torture, che essi avevano patito agli inizi. Con l’aggiunta di una ulteriore, autoreferenziata e odiosa aggravante avendo essi preteso di qualificare quest’opera spregevole da veri Anticristo, addirittura come santa, al punto da pervenire alla definizione (sovente ancora oggi abusata e affetta da millantato credito) di SANTA INQUISIZIONE e SANTO OFFIZIO. E’ come se i seguaci del paganesimo, al tempo in cui Gesù pose le basi del suo credo religioso in aperto contrasto con le credenze verso gli abitatori ultraterreni dell’Olimpo, avessero qualificato e ritenuto SANTI gli eccidi da essi perpetrati nei confronti dei proto-cristiani.
Così la Chiesa ufficiale, motu proprio, senza, cioè, che ciò fosse giustificato da una anche superficiale esegesi degli insegnamenti di Cristo, decise di istituire, sulla falsariga, appunto, delle persecuzioni effettuate dai pagani, l’Ufficio dell’Inquisizione con attribuzione di illimitate potestates vitae ac mortis, potestà, per altro, delle quali l’Ufficio ha fatto uso ed abuso, in un’atmosfera di artefatta e latitante santità, senza offrire alcuna via di scampo, di comprensione, di perdono.
L’aut aut inquisitorio appare in tutta la sua evidenza: “O diventi seguace degli insegnamenti di Cristo secondo l’interpretazione autentica del sommo pontefice, oppure finisci sul rogo”.
Questo tipo di politica, rigorosamente seguita dall’Inquisizione, rappresenta, com’è evidente, l’esatta antitesi degli insegnamenti di Cristo, per come essi sono stati, con certezza storica, riveduti, corretti e, nella sostanza, manomessi ed elaborati dai vari Concili niceani, tramite innumerevoli catalizzatori di natura politica, che nulla hanno a che vedere con l’insegnamento che il Messia è venuto a lasciare in dote all’Umanità. Eppure, Egli aveva detto e ribadito, in modo chiaro ed inequivoco, che anche i vecchi lasciti testamentari erano da considerarsi abrogati, tamquam non essent, primo fra tutti quello della legge del taglione, dell’occhio per occhio, dente per dente, per essere novellati da un nuovo imperativo, fondato sulla sopportazione, sull’altruismo, sulla pazienza, sulla mitezza, sulla tolleranza, sul rispetto della vita propria ed altrui, sul riconoscimento del libero arbitrio in virtù del quale ultimo ogni uomo ha la facoltà di potere scegliere, con il proprio cuore e con la propria anima, il credo religioso che egli ritiene di dovere seguire. Addirittura, il Messia giunse a predicare l’osservanza del comandamento basato sul “se qualcuno ti dà uno schiaffo, porgi l’altra guancia”, che non va inteso come l’affermazione di un principio di autolesionismo fisico, ma solo come un indirizzo di estrema tolleranza nei confronti degli altri, mettendo da parte ogni forma di violenza, giustificata o meno. Calpestando tutto e tutti, la Chiesa di allora, tramite l’istituzione dell’Inquisizione, non solo ha negato che andasse offerta l’altra guancia, quanto, ha inteso indossare, addirittura, i panni dello schiaffeggiatore.
Poste tali brevi premesse, come possiamo ex post spiegare o, meglio, giustificare l’esistenza stessa della Santa Inquisizione o Santo Offizio?
Era, dunque, questo che Cristo voleva?
Che tutti gli uomini che avessero pensieri diversi dal suo dovessero patire le medesime torture che Egli patì per via del flagello, delle spine, dei chiodi e della croce?
La Chiesa aveva il diritto di imitare pedissequamente i comportamenti tenuti dal Sinedrio e da Ponzio Pilato, adottandoli nei confronti di coloro che pensavano in modo diverso da essa e ciò tenendo in assoluto non cale gli stessi insegnamenti del Maestro?
E’ fin troppo evidente come i comportamenti dei seguaci di Cristo, tenuti in seno alle pratiche inquisitorie, mettano in mostra quella che da sempre ho definito una palese sindrome sinedrica oppure di Ponzio Pilato, oppure da crocefissione: oggi mi comporto con gli altri come gli altri, alcuni secoli or sono, si sono comportati con me! Che, poi, tale opera massacratoria e da vera nemesi storica sia stata e venga ancora qualificata come SANTA, rappresenta qualcosa che ci fa inorridire. Cristo, avendo patito i medesimi sistemi, non avrebbe certamente permesso l’istituzione di un tribunale del genere.
Non possiamo non andare con la memoria alle centinaia e centinaia di vecchiette e vecchietti del Meridione e delle Isole, ma anche delle campagne e montagne del Settentrione e del resto dell’Italia, analfabeti, indigenti, che frequentavano le chiese cattoliche, pur non capendo l’essenza e la natura del sacrificio di Gesù, quando ancora la liturgia ecclesiastica si basava sulla lingua latina, che furono costretti a salire sul rogo solo perché un vicino di casa permaloso e vendicativo li aveva accusati di stregoneria e pratica di riti giudaizzanti. Ma in tale frullatore di vite umane non finirono solo i vecchietti analfabeti e indifesi: cadde anche la vita di Giordano Bruno e cadde anche, con estrema mortificazione, l’intelligenza geniale di Galileo Galilei. Eppure, non siamo riusciti ad ascoltare la recitazione di alcuna doverosa e riparatoria mea culpa, anzi, chiamando tuttora SANTO l’ufficio inquisitorio, non si fa altro che, apprezzandone l’operato, attribuirgli un’aureola che decisamente non merita.
Fatta questa breve e necessaria premessa sull’Inquisizione o Offizio, ci occuperemo adesso di due processi contro due siciliani, dei quali si è occupata la produzione letteraria di altri due siciliani come loro, Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo. Non so perché, ma nutro il convincimento che, se i due scrittori fossero vissuti ai tempi in cui impazzava l’attività inquisitoria, probabilmente, sarebbero anche loro finiti sul rogo.
Tra i molti libri da lui scritti, quello al quale Leonardo Sciascia si sentiva più legato, per sentimento non solo professionale, ma soprattutto umano, è Morte dell’Inquisitore, nelle cui pagine viene narrata la tragica vicenda di frà Diego La Matina, giustiziere e giustiziato allo stesso tempo. Di questi suoi particolari attaccamento e predilezione, è lo stesso scrittore racalmutese ad avere illustrato le ragioni.
“Dirò subito che questo breve saggio o racconto, su un avvenimento e un personaggio quasi dimenticati dalla storia siciliana, è la cosa che mi è più cara tra quelle che ho scritto e l’unica che rileggo e su cui ancora mi arrovello. La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa” (Dalla prefazione a Morte dell’Inquisitore, Palermo 1996).
Questo è quanto Sciascia scrisse della sua creatura letteraria.
Certamente questa esposta dallo scrittore rappresenta una delle ragioni della sua predilezione, la quale, però, secondo noi, non è l’unica. Infatti, quando si scende nella profondità dell’anima dell’ordito narratorio del libro, si scopre un giudizio su frà Diego La Matina che racchiude la ragione terminativa e risolutoria di questo particolare attaccamento dell’Autore nei confronti del personaggio da lui trattato.
Attraverso la lettura si scopre, infatti, che circa cinquant’anni dopo la morte di frà Diego, un suo confratello, frà Romualdo da Caltanissetta, agostiniano, era pervenuto, tenuto conto del suo stato di religioso, ad una conclusione certamente sui generis, secondo la quale frà Diego era da considerarsi alla stregua di un vero e proprio santo per ciò che aveva fatto contro la violenza e la prepotenza, sebbene occorra ammettere che anche la sua sia stata una condotta, a sua volta, improntata alla violenza e alla prepotenza, anche se di natura reattive.
Appare, tuttavia, rispondente a giustizia concedere a frà Diego una attenuante o, addirittura, una esimente derivante dal fatto che, quando le vie legali e legittime, mirate all’affermazione dei diritti fondamentali, sono negate oppure del tutto assenti, l’unico strumento possibile per il povero cristiano rimane il tortuoso e poco agevole sentiero del ricorso alla forza fisica.
Sciascia, è vero, nel libro dichiara il suo assoluto dissenso dal giudizio dato da frà Romualdo, preferendo riportare la figura del frate non già sull’altare della santità, bensì su quello della eccellenza della sua umanità, affermando:
Noi abbiamo scritto queste pagine per un diverso giudizio sul nostro concittadino: che era un uomo che tenne alta la dignità dell’uomo.
Una dignità che secondo l’Autore aveva fatto vacillare, come l’epicentrica onda di un sisma sussultorio, non solo la stessa autorità, quanto l’autoreferenziata santità dell’ Uffizio.
Esaminiamo quanto riporta Vito La Mantia (Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo 1977), in riferimento a frà Diego La Matina:
Racalmuto. Frà Diego Lamattina, da Racalmuto, di anni 37, diacono, religioso professo dei frati Agostiniani reformati, era stato, come fuoriscito e corridore di campagna in abito secolaresco, dalla Corte laicale fatto prigione. Fu la prima volta di se stesso spontaneo accusatore e fu penitente. Si sospettò che fosse stata finta la penitenza. Non furono bastevoli a farlo buono e domarlo i disagi e i tormenti della galera. Fu egli bestemmiatore ereticale, ingiurioso, dispregiatore delle sacre immagini e dei sacramenti. Fu superstizioso, eretico e dommatista. L’Inquisitore del Tribunale del S. Officio, D. Giovanni Lopez de Cisneros, fu ucciso (a 4 aprile 1657) da Frà Diego Lamattina, reo inquisito esistente nelle carceri del Tribunale, mentre era dentro nelle carceri segrete per visitare i carcerati di esso Tribunale, il suddetto frà Diego rompendo le manette di ferro, colle quali teneva legate le mani, diè coll’istessi ferri molte percosse nella testa dell’Inquisitore, e due particolarmente mortali una nella fronte, e l’altra più grave nel cranio, per le quali morì. Per sentenza del 17 marzo 1658 Diego Lamattina fu condannato ad essere rilasciato al braccio secolare. Era già bruna l’aria, quando al luogo del supplicio pervenne; ed ivi attorno erasi e di carrozze e di gente indicibile moltitudine adunata. Alla vista del rogo non si alterò, non sbigottì, non mostrò segni di timore o spavento. Accomodato su la catasta delle legna, una o due volte si fece mostra di accendervi il fuoco. Per ultimo egli disse al P. Giuseppe Cicala, teatino, che voleva parlare. A grida di popolo fu richiamato il Padre, al quale avvicinatosegli in questo modo favellò: ”Io muterò sentenza e fede e alla Chiesa Cattolica mi sottometterò, se vita corporale mi darete”. Risposegli il Padre che non era più tempo di sperare e di sfuggir la morte, essendo ormai impermutabile la sentenza. Replicò frà Diego allora: “A che dunque disse il Profeta –Nolo mortem peccatoris, sed ut magis convertatur et vivat?”. Ripigliò il Padre che della vita spirituale parlato il Profeta avesse. Concluse allora frà Diego con quest’ultima bestemmia, e disse: “Dunque, Dio è ingiusto!”. A queste sacrileghe parole dato fuoco alle legna ben tosto fu affogato, abbrugiato ed incenerito. Ordinò Monsignor Arcivescovo Inquisitore che la mattina per tempo le sordide ceneri raccolte fossero, e disperse al vento.
Il riferimento che abbiamo fatto a Sciascia, in relazione a frà Diego La Matina di Morte dell’Inquisitore, ci obbliga, per così dire, ad effettuare il dovuto parallelismo con un altro personaggio, anch’esso entrato nella Letteratura Meridionale e, in particolare, insulare, trattato dalla penna di Vincenzo Consolo ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e riferentesi alla figura di un altro relaxado ai poteri di repressione politica da parte dell’ Ufficio dell’ Inquisizione, ossia a Matteo Carruba. (Per un processo del genere avvenuto a Patti, vedi l’interessante articolo Un processo per stregoneria a Patti nel 1585 di Carmen Nardo, in SiciliAntica Capo d’Orlando del 22 maggio 2017).
In merito, diciamo subito che la notizia tràdita da Consolo è stata, certamente, trattata in modo diverso da quello di Sciascia non fosse altro che per la circostanza secondo la quale, mentre per Sciascia il suo personaggio riveste il ruolo di protagonista (protos agomai: agente principale) del racconto, per Consolo il riferimento diventa un supporto marginale e, soprattutto, strumentale sempre sotteso alla evidenziazione delle condizioni sociali, civili, politiche e religiose del luogo nel quale ebbe a verificarsi l’episodio storico da lui trattato, Alcara Li Fusi.
Scrive Consolo (Il sorriso dell’ignoto marinaio, pag. 63, Giulio Einaudi Editore 1976):
“Palo d’infamia e di vergogna, d’eretici d’un tempo e di blasfemi, che primi, incordati, sferzati, garrotati, cominciarono a cacare. Santo l’Ufficio che vi disponeva. Disporre per quelle bestie della forgia nascosta tra le querce, malicarni satanassi, tòrre beni mogli figli bestie, ruinare case, la forgia!, simile al Matteo della casa di via Forno, In quisto loco fu la casa di Matteo Carruba la quale fu dirrupata per la Santa Inquisizione per ipso avirsi retrovato allo insulto di lo Monaco Augustino de Urbino Capitanio de ditto Santo Ufficio. Santissimo. E non fu il povero romito, il monachello laico da que’ vicarioti maltrattato?”.
Il periodo che precede viene riportato da Consolo in corsivo, in quanto esso è stato escerpto da una lapide commemorativa moderna, tuttora leggibile su una delle mura perimetrali della Chiesa Madre di Alcara Li Fusi, posta a ricordo della distruzione della casa di abitazione, sita in via Forno, di Matteo Carruba che, avendo ucciso il suo persecutore, M. Augustino de Urbino, capitano del Santo Uffizio, venne relaxado in statuam il 5 luglio 1551, nella piazza della Loggia a Palermo.
Matteo era di religione ebraica e con ogni probabilità era stato già destinatario dei benefici della normativa del 1492, in virtù della quale coloro che professavano l’ebraismo potevano evitare l’espulsione, alla quale sarebbero andati necessariamente incontro, ove avessero abiurato alla loro fede e si fossero convertiti al cattolicesimo. Tale espulsione avrebbe comportato, poi, ipso jure, la conseguente confisca di tutti i beni mobili ed immobili di cui fossero risultati titolari jure propietatis. In ipotesi di abiura e di conseguente professione del credo cristiano cattolico, avrebbero assunto lo status differenziale di reconciliados, il quale comportava il riconoscimento, grazie al pentimento profferito, di correligiosità con gli altri cristiani, anche se, è doveroso precisare, il reconciliado, venuto meno lo stato di inquisito, restava, tuttavia e a sua insaputa, costantemente sub judice.
Dall’intero contesto storico, sembrerebbe verosimilmente probabile che, alla formalità dell’abiura che Matteo prestò solo per evitare le drastiche sanzioni normativamente previste, non fosse conseguita una reale conversione che lo avesse portato ad aderire al credo cattolico: Matteo, nella clandestinità, avrebbe continuato a professare la sua antica fede, almeno secondo le accuse mossegli dall’ufficio inquisitorio. E’ altrettanto probabile che tale suo comportamento ambiguo abbia aggravato i normali sospetti sui riconciliati, al punto da essere collocato sotto strettissima sorveglianza, con delega di svolgere le relative indagini, quale Sherlock Holmes del momento, al capitano dell’Inquisizione, M. Augustino de Urbino. La situazione sopra descritta di diuturni pedinamento e controllo, portò all’esasperazione il reconciliado Matteo Carruba, il quale nell’anno 1551 fa esplodere la sua rabbia a lungo covata e si verifica il suo raptus omicida. Augustino de Urbino, mentre si trovava a transitare per una stradina di San Marco (d’Alunzio), venne assalito dall’intera famiglia del Carruba, Matteo in testa. Dopo essere stato spintonato, schiaffeggiato e bastonato, il capitano viene accoltellato e cade riverso sulla strada ove muore per dissanguamento. Matteo si dà alla latitanza sfuggendo alla cattura. Vengono, però, catturati tutti i componenti della sua famiglia, a partire dalla moglie, Beatrice, e dalla figlia Marianna, sue dirette coprotagoniste nell’agguato teso al de Urbino. La loro sorte è segnata. L’Ufficio dell’Inquisizione mette in atto tutti i suoi strumenti di tortura per farli confessare e, soprattutto, per costringerli a rivelare il nascondiglio del principale ricercato, che, però, non viene rivelato. Così, il furore dell’Ufficio dell’Inquisizione si riversa tutto sul fratello di Matteo, Andrea Carruba, il quale viene condannato ad un aucto de la fé (auto da fé= atto di fede, consistente nel bruciare vivo sul rogo il condannato, in un pubblico spettacolo popolare) e, per conseguenza, viene fatto salire sul rogo. La notizia è riportata da Vito La Mantia (Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, pag. 168, Sellerio 1977) nel modo seguente:
S. Marco. Andrea Carrubba (con due “B”), eretico giudaizzante, relasso, fu per sentenza a 11 agosto 1513 rilassato in persona al braccio secolare; fu letta la sentenza a 29 settembre 1513
Anche Matteo Carruba viene condannato all’auto de fè, ma al contrario del fratello la pena venne eseguita in statuam come viene riferito dallo stesso Vito La Mantia:
S. Marco. Matteo La Carrubba (con due “B” e il “La” inserito quale patronimico), neofito, giudaizzante, fu per sentenza a 11 agosto 1513 ammesso a riconciliazione ed abiurò nella Cattedrale Chiesa a 24 agosto 1513, poi nella detta terra di S. Marco ammazzando ad Agostino Urbina capitano del S. Officio e fuggendosene, fu per sentenza a 2 marzo 1551 rilassato in statua, letta nella piazza della Loggia a 5 luglio 1551
E’ opportuno a questo punto spendere qualche parola sul procedimento relativo al trattamento che l’Ufficio riservava agli inquisiti sino alla conclusione dell’iter di sua competenza.
L’inquisito, catturato dagli sgherri dell’Inquisizione, veniva affidato agli specialisti degli interrogatori. Le domande che gli venivano rivolte erano poche e chiare: doveva rispondere se fosse innocente o colpevole rispetto alla incolpazione formulata nei suoi confronti e, per aiutarlo a dare la risposta corretta, veniva confortato tramite il ricorso a delle macchine che sembravano essere state progettate direttamente dalle officine di satana.
Quando il Tribunale inquisitorio aveva ottenuto la confessione (la percentuale delle confessioni estorte era altissima, in questo giocando un ruolo preminente il potere persuasivo che avevano le torture e l’assenza di qualsiasi forma di difesa legale), venivano fissati luogo, giorno e ora dell’auto de fé. Per tale fine, il Tribunale ordinava che il condannato fosse relaxado (rilasciato, consegnato) al potere temporale, al quale era delegata l’esecuzione di fatto della pena capitale.
L’esecuzione poteva avvenire con due modalità secondo le circostanze che oggettivamente si presentavano: in personam, se il condannato si trovava, privo della libertà e, quindi, fisicamente a disposizione dell’Ufficio inquirente; in statuam, (come nel caso di Matteo Carruba) se il condannato fosse stato latitante o, addirittura, fosse premorto per sorte non collegata alla Inquisizione. Succedeva, infatti, che se l’inquisito fosse deceduto, il processo veniva istruito lo stesso e la condanna al rogo eseguita ugualmente e pubblicamente, tramite l’irrinunciabile forma di pubblicità delle autos de fè, in seno alle quali il posto fisico del condannato veniva occupato da una immagine statuaria che simbolicamente lo rappresentasse.
Occorre precisare che l’esecuzione in statuam non è una invenzione riferibile all’Inquisizione. Essa ha, in verità, un precedente raccapricciante anche se notevole per i personaggi storici coinvolti e ciò in quanto sperimentato nell’ambito della stessa Chiesa cattolica, tramite il cosiddetto Sinodo del cadavere, altrimenti conosciuto anche con la denominazione di Concilio cadaverico. Tale Sinodo, o Concilio che dir si voglia, si riferisce al processo per sacrilegio (che, per vero, non può definirsi in statuam in quanto al dibattimento era presente il cadavere dell’imputato) che venne intentato per volere del pontefice Stefano VI (del quale, essendone sconosciuto il casato, si sa solo, secondo la tradizione, che fosse figlio di un prete di Roma), nei confronti del suo predecessore passato a miglior vita da circa un anno, ossia papa Formoso (di cui non si sa altro se non che fosse figlio di tale Leone di Roma) nell’anno 897. Il cadavere di papa Formoso, infatti, dopo essere stato riesumato, vestito con i paramenti pontificali e fatto sedere sul trono, sebbene nell’occorso sedesse rivestendo lo status di imputato, fu sottoposto ad interrogatorio da parte del pontefice in carica, Stefano VI, che fungeva processualmente da pubblico accusatore. All’esito di tale macabra messinscena di istruttoria dibattimentale, poiché le prove a discapito apportate in dibattimento non vennero ritenute convincenti, anzi l’imputato non aveva dato alcuna risposta alle domande formulate dall’accusa, la sentenza non poteva che essere dichiarativa della sua responsabilità. E così fu! In dipendenza di ciò, il cadavere di papa Formoso venne, seduta stante, spogliato dei paramenti pontificali, gli vennero amputate le tre dita della mano destra, con le quali era aduso benedire i fedeli e, quindi, dopo essere stato trascinato fuori dalla Basilica di San Giovanni in Laterano, ove si era svolta quella farsa di processo, venne gettato nelle acque del Tevere. Papa Formoso va, quindi, ad aggiungersi al numero di quei pontefici che, per motivazioni diverse, non sono stati inumati nella ipogea necropoli vaticana (c.d. Grotte Vaticane), in cui ogni papa ambisce di riposare in eterno a contatto di gomito con il primo e il più importante dei pontefici di Roma, San Pietro.
Con la famiglia di Matteo Carruba l’Inquisizione si dimostrò particolarmente e accanitamente severa in quanto il Carruba era ritenuto dal Tribunale come un relapso, termine, questo, che corrisponde all’odierna definizione giuridica di recidivo. Orbene, solo delle menti contorte potevano partorire questo tipo di sillogismo giuridico, in virtù del quale tutti i membri della famiglia Carruba erano da considerarsi recidivi. Il ragionamento che portava a tale conclusione era il seguente: i Carruba avevano dichiarato di essersi convertiti e, per questo stesso, erano stati perdonati e mondati dalla loro colpa di essere stati dei giudaizzanti, per cui erano stati ritenuti reconciliados. Malgrado ciò essi erano ricaduti nel primitivo errore (o, forse, non si erano giammai convertiti?).
Qualche volta, ma raramente, è anche avvenuto che l’inquisito fosse condannato all’immuramento perpetuo (ergastolo-carcere a vita).
Ricordiamo che tale ultima pena venne, ad esempio, irrogata a Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dei Templari, cumulativamente a Joffroy de Charney, Precettore di Normandia dello stesso Ordine. Poiché, però, sia il de Molay che il de Charney, nel momento in cui avevano compreso che il papa Clemente V (al secolo Bertrand de Got) non aveva l’autorità necessaria per trarli fuori dall’impiccio, avevano ritrattato la loro confessione, la pena dell’immuramento perpetuo era stata commutata in quella del rogo dell’auto de fé che si tenne nell’Ile de France, proprio di fronte alla cattedrale di Notre Dame de Paris.
Come la vicenda attinente a frà Diego La Matina, anche quella di Matteo Carruba presenta molti aspetti poco chiari che non convincono, rendendola una storia non del tutto finita.
Dalla documentazione esistente nell’Archivio Storico Siciliano e nella Biblioteca Comunale di Palermo (riferita da Vito La Mantia, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia e da Carlo Alberto Garufi, Fatti e personaggi dell’ Inquisizione in Sicilia, entrambi pubblicati da Sellerio, rispettivamente nel 1977 e nel 1978), la notizia è stata annotata nel seguente modo:
San Marco (d’Alunzio). Matteo La Carruba, neofita, giudaizzante, fu per sentenza a 11 agosto 1513 ammesso a riconciliazione ed abiurò nella Cattedrale Chiesa a 24 agosto 1513, poi nella detta terra di San Marco ammazzando ad Agostino Urbina, capitano del Santo Ufficio e fuggendosene, fu per sentenza a 2 marzo 1551 rilassato in statua nella piazza della Loggia a 5 luglio 1551.
Della tradizione dell’avvenimento sopra riportato si è anche occupato il canonico Antonino Franchina e, precisamente, lo ha fatto nei termini di seguito riportati del tutto dissimili da quelli ai quali si è riferito Vito La Mantia:
… accadde che gl’Inquisitori per servigio di nostra Santa Fede inviarono il Capitano del Tribunale con alcuni Familiari nella Terra di S. Marco, per catturare alcuni Eretici, ivi commoranti: sollevassi ivi un certo Uomo nominato Matteo Carrubba di pessima vita e scandalose operazioni, assistito d’alcuni che ‘l seguivano, onde presero le armi alle mani, uccidendo alcuni Officiali del S. Ufficio, come anche della famiglia del Capitano, il quale pure con più ferite lasciarono semivivo in terra e così non permisero fossero catturati quei Rei ed Eretici con non poco cordoglio degl’Inquisitori, e suoi Ministri, vedendo la gloria di Dio posposta e il suo Santo Tribunale a sì fatto vilipendio ridotto (Da: Breve rapporto del Tribunale della SS. Inquisizione di Sicilia, del canonico D. D. Antonino Franchina Inquisitore, in Palermo MDCCXLV, Palermo Regia Stamperia di Antonino Epiro).
A riferire l’episodio omicidiario nel modo che precede è solo il canonico Antonino Franchina, Inquisitore. Per questo, e per il fatto che l’autore sottace il riferimento alle sevizie inferte ai componenti la famiglia del Carruba, riteniamo che la notizia sia frutto della fantasia del canonico-inquisitore che, per il suo status di appartenente al tribunale inquisitorio, aveva tutto l’interesse a rappresentare l’avvenimento nel modo più negativo possibile per il Carruba. L’intento, è ovvio, è quello di giustificare i particolari sadismo e ferocia della Inquisizione gabellandoli per intransigenza di giustizia.
Le perplessità, alle quali sopra abbiamo accennato, riguardano alcune circostanze tra loro collidenti per le quali non è stato possibile trovare alcuna spiegazione logica.
Intanto Matteo Carruba (così come è stato sopra accennato) è stato annotato dall’Ufficio dell’Inquisizione come appartenente alla popolazione di San Marco. A San Marco ebbe a verificarsi pure l’evento omicidiario in danno del capitano de Urbina. E’ da escludersi, tuttavia, che il riferimento sia stato fatto a San Marco in quanto locus commissi delicti e non già perché luogo della residenza anagrafica del relaxado. Tale ipotesi non appare percorribile, essendo pacifico che l’Inquisizione era solita annotare, per i rilasciati al potere temporale, il luogo della provenienza anagrafica e non già quello di commissione del reato. Di conseguenza, Matteo Carruba viene annotato tra la popolazione di San Marco, evidentemente quale luogo della sua residenza. Senonché, dalla visione dell’intera vicenda, si ricava un dato contrastante con l’affermazione che precede.
Infatti, nel paese di San Marco l’avvenimento dell’omicidio del capitano dell’Inquisizione passa senza alcuna sottolineatura particolarmente evidente, né si verificano avvenimenti postumi di applicazione di sanzioni patrimoniali nei confronti della famiglia Carruba. Dove, al contrario, si ha una vera e propria aggressione al patrimonio immobiliare del Carruba è il paese di Alcara Li Fusi.
Abbiamo riportato sopra la lapide commemorativa posta dagli Alcaresi su una delle mura perimetrali della Chiesa Madre, dalla quale si può apprendere che proprio lì, in quella che è stata la via Forno, ove oggi con ogni evidenza sorge la Chiesa Madre, era la casa di Matteo Carruba che venne demolita dalla Inquisizione, in applicazione della pena accessoria di natura patrimoniale, che seguiva sempre quella principale di natura capitale.
Dunque, Matteo era anagraficamente residente a San Marco ed era proprietario di una casa di abitazione in Alcara?
Certamente, è del tutto verosimile che egli potesse possedere due case in differenti paesi. Ma anche messa così, l’ipotesi non merita il lasciapassare per entrare nella logicità, dal momento che, comunque, non si spiega perché mai la casa di Alcara Li Fusi sia stata dirrupata, mentre nulla si dice per quella ipotetica di San Marco.
E, ancora, l’Inquisizione non era adusa a dirrupare le case, in quanto preferiva confiscare ogni tipo di beni patrimoniali, di qualsiasi natura fossero, incamerandoli.
A nostro modo di vedere, poi, è di particolare rilievo che la comunità di Alcara Li Fusi, al contrario di quella di San Marco, abbia usato una empatia particolare nei riguardi di Matteo Carruba, al quale, tuttora, nella toponomastica stradale cittadina è possibile leggere “Via Matteo Carrubba” (con due “B”).
Un’ultima circostanza finisce con aumentare le perplessità.
In Inquisizione in Sicilia (Palermo, 1997), Francesco Renda, nostro Maestro all’Università di Palermo nel corso di Scienze Politiche, riporta che l’Ufficio dell’Inquisizione, non solo ebbe ad adottare provvedimenti sanzionatori (sia di natura personale, sia di natura patrimoniale nei confronti di tutti i componenti della famiglia Carruba), quanto emanò provvedimenti punitivi anche nei confronti dei rappresentanti della Autorità territoriale locale ritenuti responsabili di non aver saputo adottare tutte le precauzioni possibili e necessarie per evitare l’evento letale che aveva colpito il capitano M. Augustino de Urbino.
In mancanza di ulteriori precisazioni, che non siamo riusciti a rinvenire, ci siamo chiesti, senza trovare una risposta soddisfacente, la tirata di orecchie é stata indirizzata all’Autorità locale di San Marco o a quella di Alcara? Oppure ad entrambe?
Nelle considerazioni e, soprattutto, negli interrogativi che precedono può rinvenirsi un’altra motivazione, da aggiungersi a quelle già esaminate, per cui Leonardo Sciascia in Morte dell’Inquisitore ebbe a scrivere che quello “è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa…”.
La motivazione alla quale sopra abbiamo fatto riferimento, può essere affermativamente sostenuta, essendo essa già presente in nuce nelle considerazioni fatte da Leonardo Sciascia.
Se noi oggi abbiamo la possibilità di esprimere il nostro motivato dissenso nei confronti dell’opera deleteria e disumana dei massacri effettuati dall’Inquisizione, i quali tutti sono stati programmati, gerarchizzati ed approvati dalla Chiesa cristiano-cattolica, senza che tale dissenso possa farci correre il rischio che novelli Torquemada (più correttamente dovrebbe essere indicato come Torrecremata, secondo l’originale suo patronimico, da cui emerge chiaramente l’etimo della cremazione, a guisa di oracolare predestinazione del personaggio) ci mandino a finire nel fuoco delle autos de fé (definizione, questa, che non spiega se fossero atti di fede da parte dei combusti o da parte dei piromani massacratori), lo dobbiamo, anche, a frà Diego La Matina e a Matteo Carruba.
E a quei letterati che avvertono il dovere di scrivere per tenerne vivo il ricordo.
Note
(1) La convivenza more uxorio era ritenuta titolo di reato che abilitava il Tribunale dell’Inquisizione ad emettere sentenza di condanna di entrambi i conviventi, i quali, per questo, venivano relaxados al potere temporale per l’effettuazione dell’ auto de fé. Vi sono emergenze storiche di episodi che suscitano, ancora oggi, a distanza, quindi, di circa otto secoli, una pietà non facilmente narrabile. Molto spesso, i condannati, in mancanza di parenti collaterali, lasciavano la prole in tenera età senza alcuna legittima tutela, in balia di tutto e di tutti. Non si può, a questo punto, omettere una considerazione che dà la misura del modus operandi del tribunale e, soprattutto, della sua mentalità settaria. Possiamo affermare, con assoluta tranquillità, che nei tempi storici ai quali ci si sta riferendo, la stragrande maggioranza dei pontefici, che si sono avvicendati sulla sedia di Pietro, ha condotto una vita affatto morigerata, caratterizzata da un’attività sessuale frenetica, instaurando rapporti stabili con concubine di varia estrazione sociale e generando figli, molti dei quali sono diventati principi della Chiesa e, in alcuni casi, anche pontefici. Non intendiamo redigere una lista nominativa dei pontefici che hanno disonorato l’insegnamento del Messia. Ne ricordiamo soltanto alcuni, se non altro per dimostrare che non stiamo scrivendo queste cose per partito preso, ma a ragion veduta e in modo obiettivo. Papa Sergio III, appena asceso al soglio pontificio, una delle prime cose che realizzò fu quella di farsi una concubina, scegliendo per tale funzione una sua cugina, una ragazzina di appena quindici anni: da tale unione illegittima, nacque un figlio di nome Giovanni, successivamente salito al soglio pontificio con il nome di Giovanni XI.
Paolo III, da una relazione stabile con una donna di Roma, ebbe un figlio.
Innocenzo VIII, da una relazione stabile more uxorio procreò due figli.
Gregorio XIII ebbe un figlio.
Tra i più spudorati, non si può non ricordare il papa che è passato alla storia per avere fatto salire sul rogo Girolamo Savonarola, ossia Alessandro VI, che mise al mondo ben nove figli avuti tutti, non già con la medesima concubina (circostanza, questa, che potrebbe rientrare nella quasi normalità), ma con donne diverse, anche se la relazione più stabile e duratura l’ebbe con tale Vannozza. Per non dire, poi, di Giovanni XII, che, eletto papa a diciassette anni, ebbe i favori in Laterano di un vero e proprio harem, al quale aveva accesso non solo lui, ma una pletora di religiosi anche di alto rango. Benedetto IX, ottenuta la tiara papale ad appena dodici anni, condusse una vita da vero teppistello, al punto che le maggiori famiglie romane, mettendo da parte ogni reciproca rivalità, si coalizzarono per toglierlo di mezzo. L’attentato, per strangolamento, avviene proprio sull’altare di una chiesa romana, ma il papa riesce a sottrarsi e fuggire. Dopo qualche tempo rientra a Roma (che nel frattempo era occupata da due antipapi), ma viene scacciato di nuovo e la sua storia finisce con una prigionia nei boschi tusculani. L’elenco delle nefandezze commesse dai papi in questo periodo non finisce qui. Sarebbero necessarie pagine e pagine per illustrare le imprese di questi Anticristo, camuffati da seguaci di Gesù. Riteniamo, tuttavia, che, per illustrare il nostro pensiero, siano sufficienti gli esempi riportati. Ebbene, di fronte alle uccisioni perpetrate tramite le autos da fé, numerosissime per tutti coloro che vivevano in peccato instaurando rapporti more uxorio, nessuno dei papi sopra nominati o di altri principi della Chiesa, come vescovi e cardinali, furono fatti salire, né in personam, né in statuam, sui roghi, che erano sempre pronti nelle pubbliche piazze ad opera della Inquisizione. Ma, ciò che fa inorridire e lascia esterrefatti, è che, riferendoci a questo tipo di tribunali, ancora oggi, evidentemente per riconoscimento dell’opera meritoria da essi svolta, li si connoti con un immeritato e anacronistico attributo di SANTITA’.