Ficarra, dall’incastellamento alla forma urbana, genesi di un centro nebroideo.
di Giuseppe Ingrillì
Ficarra oggi rappresenta una forma urbis antiquæ con un caratteristico toponimo, di natura fitonimica, che s’incanala nella tradizione siciliana che, a partire dalla forma dialettale Ficu (Fico) o Ficara (più piante di fico insieme), si evolverà in Ficarìa o Ficara per giungere infine al nostro termine contemporaneo. E’ proprio questa sovrapposizione che oggi stratifica e nasconde una storia molto più antica e radicata nel Vallis Deminæ.
La sequenza di notizie riferibili al centro fonda la comparsa del centro subito dopo il 988 d.C., in una fase che è caratterizzata dalle esigenze di riorganizzazione degli insediamenti terricoli sul territorio post conquista araba della Sicilia.
Ficarra si configura così come un polo demografico, catalizzatore urbano del versante nord-orientale della fiumara di Naso, che bilancia e organizza, al pari del centro montano di Naso, un nuovo assetto stanziale d’equilibrio nel distretto arabo della Ṣiqilliyya, che lo trasporterà fino all’epoca moderna.
In realtà, il primo documento ufficiale che menziona Ficarra è scritto solo nel 1082, appena agli albori della storia normanna dell’isola, quando viene disposta l’assegnazione del casale alla istituita diocesi di Troina.
A voler indagare più a fondo nella storiografia di Sicilia, il famoso documento normanno è preceduto nel periodo arabo da un altro notorio documento che dispone e organizza il territorio e i suoi abitanti, tramite “un’ordine di fortificazione”, emesso poco dopo la conquista di Rometta nel 965 d. C.. E’ il quarto califfo Fatimida dell’Ifriqiya ad emanarlo, al-Muʽizz li-dīn-Allāh, rivolto all’emiro siciliano Aḥmade: le disposizioni riportano la data del 966-967 d. C..
Questo ordine perentorio rivoluziona il territorio siciliano, che passa così dall’insediamento agricolo e di sussistenza aperto, a quello chiuso in un centro urbano. L’idea, perseguita dal califfo, aveva il preciso scopo di poter meglio controllare e soggiogare fiscalmente gli abitanti, oltre che sviluppare nelle scuole la conoscenza della lingua araba. Tale ordine, necessario dopo la caduta dell’ultimo lembo di terra cristiano di Sicilia, è anche la diretta conseguenza di un tentativo fallito di rivolta dei centri del Val Demone. Il testo contiene già tutte le indicazioni progettuali di fondazione e fa obbligo «di edificare in ciascun iqlim (distretto) una città fortificata (madinaḥasina) con una moschea gami ed un minbar e di obbligar la popolazione di ogni iqlima a soggiornare nelle città non permettendo che vivessero sparpagliati per le campagne». L’elenco, che obbliga la popolazione a spostarsi nei centri del distretto d’appartenenza, è redatto dallo scrittore arabo al-Muqaddasi e avrà carattere d’ufficialità solo nel 988, ben vent’anni dopo l’editto del califfo e risulta ampiamente incompleto. In questo elenco, per quanto riguarda il Val Demone, vengono riportati solo dieci centri: Aci, Cefalù, Demenna, Geraci, Y.n.f.sh, Messina, Qalʽat al-qawārib, Qalʽat al-ṣirat, Rometta e Taormina. Questo ordine, palesa per gli studiosi un limite, omettendo molti centri, sia dell’interno, sia importanti città portuali d’antica origine. Proprio questa mancanza, unita al successivo documento normanno, permette di ricostruire quelle realtà urbane che si erano già aggregate e insediate nell’intervallo di tempo che va dal 988 al 1082.
Così riporta il documento che istituisce la Diocesi di Troina: “Nomina autem civitatum, et castello rum sunt: […], senagra, ficarra, nasus, panagra, galat, turripotit, alcares, s. marcus, miletum, misterctum, tosa…e per studiosi del calibro del Maurici e del Bresch, questi sono i centri che completano di fatto l’ordine arabo.
Non deve stupire dunque che in tale ipotesi, Ficarra risulti già aggregata come centro rurale, tanto da esserne riportata. Di questo passato e di questo passaggio, parrebbe rimanere memoria orale nella collina del castello, dove si colloca una struttura militare riferibile al periodo arabo e il ricordo di un toponimo Al Fakhar (la gloriosa?) o anche Fikaràs, che così precedono la successiva forma vulgata, Ficu.
L’essere ancora un piccolo casale, presumiamo meno popolato rispetto ad altri centri già sviluppati, giustifica in parte anche il disinteresse mostrato da Muhammad al-Idrisi durante la sua ricognizione, tanto da non menzionarlo nella sua opera più famosa “Il libro di Ruggero” del 1154, né tantomeno trova collocazione nella “Tabula Rogeriana”. La descrizione del contesto territoriale si limita al centro di Naso “Bāsu”, alla sua marina, Ġafluḍîʾas Suġrâ (Capo d’Orlando), mentre per l’ambito territoriale di Ficarra si menziona il suo naturale sbocco a mare, Marsâ Dâlîah, il porto della vite (Brolo), ignorando il centro collinare e la sua fortezza.
La successione documentale di poco successiva, su richiesta del vescovo Roberto di Troina, attesta la presenza del centro nel 1156 e vede Ficaram insieme a Senagriam, Fetaliam, Nasam, Galath e Turrim Tudith confermate nel privilegio del 1082, fornendoci la traccia di continuità riguardo ad un centro che ormai ha superato le prime difficoltà d’impianto e si avvia ad essere infeudato.
Per continuità orale, riportiamo l’informazione contenuta nel registro della Diocesi di Messina del 1198 in cui esisterebbe la citazione della fortezza araba, che avrà continuità nei successivi racconti storici, come tema di fondazione.
Il centro a partire dall’XI secolo vedrà da subito legare il suo territorio alla corona normanna e il suo incastellamento sarà espressione del potere feudale, diventando appetibile in assegnazione. Il Garufi e il Pirri, nelle loro opere, identificano Ficarra come cognomen toponomastico già dal 1111 e la sua presenza come castrum Ficarie dal 1210.
Oggi dell’antica Ficarra rimane traccia nell’impianto urbano, dove si palesano i contorni di agglomerati sedimentati nel tempo, un inurbamento che si appoggia su di un perimetro già definito e livellato dall’orografia dei luoghi, svelando più di una caratterizzazione stratificata e ampiamente cristallizzata all’ultima epoca ottocentesca, quando si rompono i confini fisici e ci si allarga alla natura. Gli spazi occupati dalla cinta muraria, vengono fagocitati dalle abitazioni civili e ne rimane memoria sepolta e nascosta nell’impronta, nell’andamento da limes che raccoglie al suo interno i luoghi abitativi. Di questa conurbazione che si protrae verso l’esterno, rimane traccia nell’uso dei due toponimi sopravvissuti ad oggi, a ricordo di un’interazione del territorio: porta Lombardia e porta dei Greci. Due univoci termini che ci parlano in prima persona di una possibile marcata divisione urbana di genti, sviluppata su almeno due agglomerati di case, potenzialmente riferiti a due diverse epoche, una più antica, con il caratteristico toponimo “Greci” (rimando arabo al modo d’appellare le popolazioni praticanti il rito ortodosso e quindi di cultura bizantina), proprio quelli che sembrerebbero sottomettersi all’editto fatimida e che fondano il centro, mentre l’altra circoscrive con il termine “Lombarda”, la successiva ondata aleramica che a partire dal 1088 arriva in Sicilia e trova un suo spazio anche a Ficarra. Due fulcri che sembrano persistere nella toponomastica e che mediano anche la formazione urbana di Ficarra, aggrappata a due poli architettonici che fanno da catalizzatore: la Chiesa Madre e la fortezza.
Questa definizione urbana, incentrata sui due colli, in realtà lascia indefiniti alcuni aspetti.
Mantenendo saldo ad oggi il vissuto urbano di Ficarra, dove si origina l’area di primo impianto? Dove si collocarono le prime genti arrivate a Ficarra?
Salta subito all’occhio come la collina con sulla sua sommità il castello, domini il centro, a guardia e a protezione del primo polo fondativo. Sembra di riconoscere nell’andamento urbano la prima scelta insediativa, una serrata e fitta presenza che avvolge la base della collina, lasciando alla sommità scoperta il ruolo di ultima difesa. Le case stesse oggi continuano a formare un corposo bastionamento difensivo, con dentro una stretta maglia che ingloba e compatta il centro abitato.
L’unico spazio libero e aperto, la piazza Umberto I, originatasi dallo smantellamento di fabbricati, in seguito a terremoti e migliorie viarie, sembra dare l’impressione, per chi arriva, di assolvere ancora oggi la funzione di accesso che permetteva di penetrare e mediare nella fitta trama cittadina. I lotti delle case si adattano e curvano, mantenendo le ancestrali caratteristiche urbane del luogo.
Discorso ben diverso è per la collina che ospita oggi la chiesa di Maria SS. dell’Annunziata (1582), che in un determinato momento della storia di Ficarra è relegata a ruolo di nuovo polo d’espansione urbana, determinato nell’allestimento della fabbrica di Santa Maria dei Latini che coesisterà con quelle di rito bizantino già presenti. E’ qui che rileviamo la probabile ubicazione del nuovo polo d’indirizzo urbano al riparo della nuova chiesa. E’ nelle giaciture della sua stratificazione architettonica che si legge questa preesistenza religiosa, riferibile a Santa Maria dei Latini, che già prefigura il passaggio dall’epoca “greca” esplicato nel culto ortodosso, al culto latino, espressione cristiana di nuovo indirizzo legata a Ruggero. La nuova edificazione confina già la religiosità bizantina al vecchio centro e fornisce la via per farla confluire all’interno della chiesa romana.
La definitiva riprogettazione a partire dalla seconda metà del seicento, amplificata dalla monumentalità che esprime nella fierezza svettante della facciata e del campanile, nasconde in realtà un vincolo nella forzata giacitura che ne limita la visione e il campo d’osservazione, che non è più orientato verso il vecchio centro, ma delinea i limiti di un orientamento, vincolato nella direzione sud-nord e racchiuso in uno spazio che necessita di una significativa bastionatura, che deve sostenerne il peso e le spinte. La massa reale della chiesa è percepibile solo nella parte retrostante, dove è possibile ammirare l’imponente lavoro di bastionatura e di consolidamento per impostare il transetto e a cui si affianca l’alta mole della torre.
Questo colle in realtà sembra caratterizzarsi esclusivamente come polo religioso, grazie alla presenza in continuità a Santa Maria dei Latini, dal 1575, degli ordini religiosi che qui edificano il grande complesso monastico di Santa Maria delle Grazie dell’ordine di San Benedetto.
Dalla lettura dei prospetti abitativi nella direttrice di collegamento più rappresentativa, quella che mette in asse i due poli, quello del castello e quello della chiesa, si assisterà a una ricostruzione in chiave scenografica monumentale di palazzi che esprimeranno la nobiltà di Ficarra, i Milio, i Piccolo, i Busacca, i Ferraloro. Ma in tutta questa manifesta realizzazione rileviamo un vuoto, la mancanza di una rappresentazione diretta dei blasoni che hanno retto per molti secoli le sorti di Ficarra e delle sue terre, i Lancia.
Chi sono i Lancia?
Andiamo per ordine, se ci atteniamo alle informazioni che vengono tramandate, possiamo trovare l’elenco nella Genealogia dei Lancia di Brolo, che così riporta: è Federico II che avea assegnato a Costanza D’Aragona sua prima moglie Ficarra. Poi fu conceduta con altre terre a Guglielmo d’Amico (barone di Ficarra) sposo di Makalda (Macalda di Scaletta) Maletta, la quale restata vedova la ottenne da Carlo d’Angiò in prò di cui in Sicilia cospirava. Unitasi in seconde nozze con Alaimo da Lentini gliela apportò in dote. Mentre ella era in carcere nel 1248 Ruggiero Loria venne a domandarle i titoli della baronia che a lui fu conferita; ma quando nel 1282 Ficarra con altri paesi vicini si ribellò contro Federico III, e si diè agli Angioini ne fu spogliato pure alla sua volta quando anch’egli passò ai servigi dei nemici di Sicilia. Quindi ai Lancia fu conceduto, Amico dice che fu concessa a Corrado, dal quale a Pietro, e da costui a Blasco passò. Al di là di alcune imprecisioni e di alcune informazioni che non hanno al momento fondamento documentale a noi tocca fare delle aggiunte per colmare i vuoti della successione d’infeudamento di Ficarra.
La ricerca dei documenti inerenti evidenzia come a Ruggero II, pervenne protesta scritta per le reiterate vessazioni del barone Alghéres/ Alkérios di Ficarra, verso i villani del neonato centro di Focerò. Il barone, che s’inserisce così nella prima successione di Ficarra, approfittando dell’incertezza del centro di Focerò, fondato per volere del Conte Ruggero tra il 1094 e il 1100 per ripopolare le aree boschive ed incolte con prigionieri e popolazioni musulmane, ne usurpa le terre non poste a coltura e disperde i villani demaniali nelle località limitrofe. Questa vicenda che si protrae per qualche anno, ci fornisce la successione documentale alla vicenda dell’infeudamento del centro di Ficarra. La data della protesta è compresa tra il 1130 e il 1140 d. C..
Nel 1144 in continuità, registriamo il Privilegium di Ruggero II che così menziona: Proposuit et Algerius de ficarra coram nobis […].
A queste diatribe di carattere territoriale, si affiancano anche quelle di carattere religioso, che costituiscono base documentale per il centro, come quella del 1151, quando approfittando della sede vacante di Lipari-Patti, il vescovo di Messina Gaufredus include i centri di Senagram, Ficaram, Fetaliam, Nasam, Paganam, Galath, Turrim tudith, Alchares fino ad arrivare a Patti.
Nella concessione del 1153, il solito Alkérios Fikarras cede alla chiesa di San Nicola de la Fico il diritto di pascolo, di legna nel bosco di Ficarra e di poter costruire sbarramenti sul corso della fiumara. Questa è l’ultima volta che vedremo nominare il barone e in assenza di documentazione successiva, dovremmo considerare la fine naturale di Alkérios e la presenza di un nuovo reggente la baronia, del quale al momento sconosciamo il nome.
Ficarra ricomparirà nella documentazione ufficiale religiosa nel 1178, quando nella donazione al monastero di Maniace, viene inclusa la chiesa della Madre di Dio di Farasiis-Faraxis di Ficarra.
A partire dal 1283 Alaimo da Lentini per diritto della moglie Macalda di Scaletta ne reggerà le sorti per poi giungere all’ammiraglio Ruggero Loria a partire dal 1297.
Quindi Ficarra e le sue terre, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, si trova ad essere infeudata alla famiglia Lancia insieme a Galati, Sinagra, Raccuja ed Ucria; si ritiene nell’incertezza documentale per parte di Ugo, mentre altri studiosi propendono per l’ipotesi che essa fu data a Corrado II Lancia per poi passare a Pietro e poi a Basco. Il dato di fatto è che si dà avvio ad un ininterrotto governo, che vedrà passare il feudo in eredità a dieci rampolli di casa Lancia, salvo qualche piccolo inframezzo alla fine del secolo con Bartolomeo Aragona, per poi tornarne in possesso dei Lancia nel 1430 e che vede compiersi l’atto finale nel 1732, quando a Ficarra nasce l’ultimo rampollo di casa Lancia e Caruso, Federico. La lunga storia s’interrompe nel 1738, quando il Marchese Gastone, Presidente del Patrimonio, qual giudice deputato alla vendita, vendè sub verbo regio et clypeoperpetuae salvaguardiae Ficarra, Brolo e Iannello al Marchese Lungarini, Vincenzo Abate. Per onze 400, fu venduto il titolo di marchese di Ficarra al barone Saverio Guttadauro di Catania, che commutandolo lo applicò alla vicina terra sua di Santa Barbara. Girolamo Lancia, ultimo Barone de facto, rimase in possesso del solo titolo di Duca di Brolo e ne prese investitura a Palermo, terminando così la lunga presenza della famiglia Lancia a Brolo e Ficarra, che vedrà estinguersi il casato all’alba del 1900 in Palermo.
Questi secoli di storia che legheranno la famiglia Lancia a Ficarra e che avrebbero dovuto essere manifesti in una presenza architettonica più evidente, sono percepiti però solo attraverso qualche episodio, come quello accaduto nel 1543 e che vede coinvolto Girolamo Lancia, colpito da grave sventura, fuit captus per triremes turcas in maritima Broli, una cum ejus filiis…et fuit taxatus pro redemptione et recattito in ducati diecimila, dei quali pagò settemila ducati d’oro…
Prontamente l’assemblea dei notabili di Ficarra convocata a consiglio, votò uno stanziamento di once quattrocento, ed egli (il Lancia) accettonne soltanto trecento col patto di restituirle in rate. La cattura in mare durante una battuta di pesca, ufficialmente ad opera del feroce pirata Barbarossa, datata 1543, difficilmente può essere posta in relazione al famoso Khayr al-Dīn, in quanto la sua presenza fisica in zona è attestata durante l’assedio di Lipari, che avvenne l’anno successivo, ad agosto del 1544, né è imputabile a suo fratello Oruccio, che è morto nel 1518. Per la su menzionata data, il Barbarossa era impegnato con l’alleata Francia ed era di stanza a Marsiglia. Il reale rapimento del barone ad opera o meno di un famoso pirata durerà tre anni. Ritornato a Brolo dietro sostanzioso riscatto, darà comunque vita a tutta una serie di racconti che lo faranno emergere come una figura singolare e sui generis, trasformandolo in un pirata capace di elaborare un piano per vendicarsi in terra di berberia. I cronisti o i cantastorie dell’epoca raccontavano di come attirando con il tranello sulla sua nave, allestita per l’occasione da commerciante di sete e stoffe, niente meno che la moglie e la figlia del temuto pirata Barbarossa, le portasse nel suo castello a Brolo. Da questo rapimento e dalla conseguente conversione della ragazza con matrimonio con il Girolamo, la tradizione tramanda l’inizio della dinastia delle “Lance spezzate” o delle “Barberosse”. Quella dell’organizzazione di incursioni a quanto pare per Girolamo è consuetudine, riuscendo a replicare la stessa operazione nel vicino centro di Patti, questa volta a danno di un commerciante che si vede sequestrata la moglie.
Altra informazione sul buon governo dei Lancia su Ficarra ce la fornisce il Milio, che nel suo discorso sui Lanza, così scrive a proposito: Contenea molti gentiluomini facoltosi, di cui taluni possedevano, oltre i poderi, onze mille annue censuali; coronava ed ergea alle stelle i suoi trionfi e grandezze l’esser dominata dalla Serenissima casa Lancia. Oh tempi felici, oh! Trapassati costumi! Mentre in essi fiorivano la nobiltà paesana, la ricchezza, la buona vita, la modestia, la parsimonia del vitto e del vestire, la semplicità, la virtù, la giustizia, la pudicizia, la tranquillità degli animi, la fertilità delle campagne, la quiete dei tumulti che si godea in quel secolo d’oro! Era in quel tempo lo stato della patria così sublime che rendeva invidia non solo alle terre contigue, ma anche alle remote popolazioni.
Per fornire dati certi sul centro, Contavansi nel paese nei Riveli del 1548, 500 fuochi. Sotto l’imperatore Carlo, 500 case e 1691 anime verso il fine del secolo; nel 1652 segnaronsi 680 case, 2620 abitanti; al nostro tempo nel 1713 vedonsi nel registro con Brolo 381 case, 1124 abitanti, ultimamente 1967.
Cosa resta a Ficarra in termini storico-architettonici della lunga presenza dei Lancia?
Ad oggi sembra che tutta la rappresentanza dei Lancia a Ficarra abbia espressione artistica e di committenza nella cappella dell’Annunziata, dono della famiglia alla Vergine miracolosa, così come riportato nella Genealogia dei Lancia di Brolo nel cap. XIX riferito a proposito della donazione, per la sua ampliazione si erogarono ventimila scudi, quando nel 1684 vi si trasportò la statua marmorea di Maria SS, Annunziata. Essa sta nella cappella laterale sinistra dell’abside, ed è tradizione esser venuta da Palermo nel 1507. Mentre trasportavasi altrove dalla marina di Brolo sostò fuori l’abitato sulla strada di Naso, ove è ora una chiesetta, quasi accennando a voler rimanere in Ficarra. La cappella è messa tutta ad oro di zecchini, con un baldacchino sostenuto da colonne spirali, sul quale aleggia una vaga gloria d’angeli, sormontata dalla pezza araldico dei Lancia…La chiesa era pria intitolata a San Placido, e il prospetto elegante eretto nel 1706 con danaro dei Lancia, e per legato di Fabrizio, un po’ poco, anche se le informazioni che si evincono dai documenti parrocchiali, riportano che la facciata della chiesa fu costruita grazia ad una colletta tra gli abitanti più facoltosi.
Per quanto riguarda la residenza della famiglia Lancia, è notorio come essi scelsero lo sbocco a mare delle terre della Ficarra, dove fin da subito ampliarono, sopraelevarono e fortificarono la torre di controllo del sottostante scalo marittimo di Brolo, eleggendola a residenza di rappresentanza e trasformando il colle in un munito castello. Una famiglia così titolata non poteva che esprimere nella propria nobiltà l’idea di un forte incastellamento. Pur tuttavia, visto che di fatto sono principalmente Baroni delle terre di Ficarra, nella genealogia scritta dai Lancia leggiamo, “…Ei soggiornava a Brolo, ma nell’està villeggiava in Ficarra, nel castello che sorge sul culmine meridionale del colle, ed ora è carcere lurido e lercio (potrebbe essere il momento in cui si caratterizza nella storia ficarrese la funzione preminente di un carcere?). Sembra forzato pensare che nel 1732 il buon Federico sia nato entro queste mura, essendo più è logico che la nascita avvenne in una comoda dimora nel centro urbano di Ficarra.
Inutile ribadire come il lurido e lercio carcere si trovasse sulla collina occupata dal castello, lì dove nella tradizione orale si colloca anche la fortificazione riferita al periodo arabo. Luogo che, da quello che si evince oggi, è in diretto contatto visivo con l’altro centro di Naso e posto a vista, un tempo, con la torre presente nella marina di Brolo.
Il sito scelto è elevato; un ampio spazio lo separava e continua a separarlo dalle prime case, oggi coltivato, ieri sicuramente brullo. L’idea che si ha percorrendo il viottolo che colma il dislivello e raggiunge il castello dall’abitato è quella di un mutato rapporto: non vi è più una via diretta che lo ponga in relazione al centro abitato. La via non punta più al portone d’ingresso, bisogna costeggiare due lati di cinta e solo una volta arrivati all’ingresso, lo spazio, seppur recintato e limitato ad un viottolo, si apre, lasciando trasparire un diverso rapporto con l’ambiente. L’aver rivolto a nord l’unica entrata, pone il costruito in stretta relazione con il centro, evidenziando come con il tempo, questo spazio funzionale, sia stato fagocitato dai nuovi proprietari che hanno approfittato di terre libere, tanto da perderne memoria.
L’impianto del costruito è geometrico; un quadrato con una corte interna e 80 metri di perimetro murario, cinto e chiuso; quasi 400 mq di struttura coperta, segno di una precisa idea edificatoria. Nella semplicità e nella perfetta specularità degli ambienti a piano terra, possiamo leggere l’intenzione di progettare e realizzare questo tipo di struttura, che replica i primi modelli d’incastellamento a pianta quadrata.
Con che lingua ci parla questo monumento oggi?
Tommaso Fazello, lo cita già così nel 1574:
Lontan quattro miglia poi, segue la foce del fiume Naso, ch’è nome moderno, il qual nasce sopra il castel d’Ucria, e lasciandoselo a man sinistra, mostra nel correr dalla banda destra, il castel Raccodia, e passa dal castel Sinagra, e poi lascia a destra il castel Martini, e castel di Ficarra, posto in un colle rilevato, e da sinistra lascia il castello antichissimo di Nasida allungando la sillaba di mezo, il qual si vede in una valle, tutto rovinato.
Vito Amico così ne parla nel 1757: Ha un’antica fortezza celebre dal tempo dei Saraceni, rivolta verso Oriente e Settentrione, ristorata ultimamente per ordine dell’attuale Signore di cui è nella piazza un’elegante casa, volgarmente Palazzo (parliamo del barone Longarini, o di Saverio Guttadauro nuovo proprietario del feudo ?). Qualche informazione è meglio conservarla, ci tornerà utile più in là.
Arriva a noi incredibilmente conservato. La muratura non mostra segni d’usura, ma si percepisce fin da subito come sia stato sottoposto a una manutenzione che ne ha ingrossato i volumi.
I quattro lati del perimetro murario, si mostrano costruiti con perizia, le pietre sbozzate e lavorate con dovizia per poter fornire una base su cui impostare i filari in maniera regolare. Gli angoli sono realizzati con pietre cantonali posizionate e lavorate con cura, si nota come in alcuni tratti ci sia stato un riposizionamento, una ricucitura ordinata. Tutta la struttura non mostra i segni del tempo. Stride all’occhio la base del muro a cui è addossata una scarpa, che poco sembra conciliarsi con tutto il contesto, presentando nel coronamento della stessa un continuo marcapiano non lavorato e lasciato grezzo, tanto da dare l’idea di uno scalino, che poco si rapporta con la soprastante struttura: il tutto è legato da cemento.
Sicuramente questo collarino è postumo alla costruzione e non sembra essere la soluzione adottata per contrastare l’efficacia delle armi da fuoco, quanto più un tentativo moderno di repliche d’incastellamento note, che ritroveremo anche in altri interventi all’interno. Questa soluzione, diventa ancor più discutibile nei pressi dell’unico accesso al castello in cui si nota la presenza di due cilindri di cemento che chiudono la scarpa su i due lati del portone d’ingresso, con una resa visiva alquanto sgradevole. L’ingresso è un elegante portale, un bugnato in pietra locale che con un arco a tutto sesto permette di entrare nella struttura: anche su questo nutriamo qualche dubbio! Sembra una riproposizione. In facciata principale, in alto a destra sembra ritornare il motivo del marcapiano uguale a quello della scarpa con l’aggiunta di elementi di decorazione ad asso di picche. Dobbiamo precisare che la struttura è su un solo piano e presenta in altezza solo i relitti murari di due altane in asse con l’ingresso, uniche elevazioni al primo piano, che si raccordano tra di loro grazie alla terrazza del complesso. Niente soluzioni che prevedano ai quattro angoli, bertesche, o torri d’angolo, o ulteriori elementi di difesa. Sopra la porta un’altana, che presumiamo sia l’unica soluzione adottata per difenderla, ma da quello che oggi è non presenta aperture verso l’esterno, ma soltanto due porte laterali che permettono di spostarsi sulla terrazza e una finestra che affaccia sul cortile sottostante. In questo caso è probabile che l’intervento in elevato abbia ricomposto solo la sagoma del muro, non disponendo di ulteriori elementi.
Una volta dentro, a sinistra e a destra si aprono due corpi di guardia, che danno accesso ai rispettivi ambienti retrostanti, tramite due piccole e basse aperture simmetriche, alte circa un metro che permettono di forare lo spessore murario, conducendo in ambienti chiusi e non comunicanti con l’esterno. Dall’interno del cortile è possibile ammirare la soluzione con cui è stato trattato l’ingresso, una linea elegante che curva e sembra accogliere e che si offre come quinta scenica con due finestre identiche nelle pareti laterali, che risultano ricomposte in alcuni elementi degli stipiti. Una sequenza armonica di vuoti e pieni, anche se stride molto la presenza ai quattro angoli, di quattro cerniere di cemento che saldano i lati della fortezza.
Fronteggiante l’asse d’ingresso troviamo al centro del cortile il collo di una cisterna, che permetteva di sfruttare una riserva d’acqua e da sfondo una semplice porta che immette all’interno della struttura, con due finestre laterali e un oculus in asse sulla porta e più in alto quel che resta della seconda altana con evidenti i resti di una finestra.
La sorpresa più grande si ha guardando il muro a destra, che si mostra notevolmente diverso per costruzione e materiali rispetto a tutto il resto. La struttura del muro è composta da pietre perfettamente squadrate, in filari regolari e per un’altezza di circa tre metri, poi lo stacco con la lavorazione del muro con pietre più piccole, meno lavorate e che rimandano alla stessa composizione esterna. In questo muro, possiamo rilevare almeno tre diversi livelli di costruito. Tutti gli ambienti si affacciano sul cortile interno e prendono luce ed aria dalle grandi finestre rettangolari, tranne una che è stata trasformata in porta per permettere un più agevole ingresso alla stanza.
L’accesso a questa porzione di castello è mediato dal vano d’ingresso che a destra immette in una stanza in cui sono stati ricavati degli ambienti chiusi e bassi che si addossano alla parete, lasciando all’interno lo spazio per posizionare almeno un uomo.
Ci troviamo davanti, senza ombra di dubbio, alle famose celle del carcere e di fronte, il solito varco alto un metro che perfora uno spesso muro largo oltre un metro, oltrepassato il quale ci si immette in una stanza voltata, illuminata dalla finestra vista in precedenza dall’esterno. La stessa soluzione di costrizione adottata quì, la ritroviamo anche in forma più limitata nel palazzo-castello di Raccuja, dove l’unica cella viene costruita nello spazio che precede l’unica torre del complesso dedicata a carcere.
L’impressione è quella di aver varcato l’antico ingresso di quello che resta di una precedente costruzione, all’interno del muro che immette nella stanza. Soffermandoci, è possibile leggere nello spessore murario una linea di demarcazione in cui è semplice accorgersi dell’affiancamento dei due paramenti murari. La parte esterna è l’ingresso nella stanza del carcere, la parte interna quella che immette nella seconda stanza più antica. Questo spessore murario non lo si rileverà in altri tramezzi interni, rimanendo confinato alle pareti esterne. Se dobbiamo cercare una preesistenza è in quella stanza che bisogna rivolgere lo sguardo. Di contro però nella parete esterna della fortezza, in corrispondenza della stanza, non abbiamo la stessa apparecchiatura muraria, ma solo qualche pietra che replica quelle interne, posta ad un’altezza maggiore, come se la struttura sia stata completata dopo un crollo o un abbandono e sia stata ripresa e completata nelle parti mancanti. Siamo comunque davanti ad un diverso trattamento della pietra. I relitti murari, sono stati sicuramente riutilizzati in loco per ricostruire la fortezza.
Il complesso, come abbiamo accennato prima, è tutto su un unico piano e la struttura è sezionata alla stessa altezza, ma potrebbe anche essere che sia stata lasciata così e non completata volutamente, per mutate esigenze, terminando solo il parapetto e trasformando tutto in terrazza.
La cronologia degli interventi riportano un primo intervento di miglioria già con Ruggero Loria che ne rafforza il castello, proseguendo con un radicale intervento a partire dai primi anni del 1500 che lo configurano nella disposizione che oggi conosciamo e secondo il racconto riportato nella Genealogia dei Lancia di Brolo, dal 1736 in poi, il nuovo proprietario (i Longarini o il Guttadauro) assistiamo ad un nuovo intervento, lasciato incompleto. Potrebbe trattarsi della demolizione del secondo piano con l’obbiettivo di una nuova disposizione di ambienti di rappresentanza più consoni ai nuovi proprietari. Di questo intervento rimane probabile traccia nelle torrette, che ad oggi, sembrano assolvere solo la funzione di raccordo e collegamento per l’accesso alla terrazza, relegando la visuale verso il cortile interno. Quella sul portone d’ingresso, ha l’accesso diretto dal sottostante vano di guardia al piano superiore attraverso una botola di cui rimane traccia, non dentro la torretta ma di fianco, esterna. Quella interna assolve alla funzione di vano scala ricostruito.
Tutt’e due le altane oggi danno l’impressione di essere chiuse; i quattro angoli non mostrano continuità con eventuali porzioni di murature al secondo piano. L’unica altezza maggiore la troviamo vicino all’altana sulla porta principale, che mostra una soluzione artistica di coronamento con i famosi elementi di decoro.
Ad oggi non sembra esserci stato alcun ritrovamento di ceramica che permetta di datare l’eventuale cronologia d’insediamento del sito, manco nella cisterna, da dove è stato solo recuperato un proiettile in pietra, però forato, che potrebbe assolvere anche alla funzione di elemento decorativo, al pari del grosso elemento a clessidra che si trova oggi nel cortile.
Altro dato che colpisce è la totale assenza di monumentalità degli ambienti, la mancanza di un camino per riscaldare le stanze e dei luoghi dove cucinare, che adducono a considerazioni come il complesso poco si prestasse a residenza invernale, tanto meno di una famiglia nobile come quella del Lancia, abituata anche ad una certa comodità. In definitiva, in base a quello che vediamo oggi, difficilmente possiamo immaginare una soluzione abitativa.
Ci torna utile ricordare ad esempio il castello di Sant’Agata Militello, che nella sua mutata destinazione a partire dal 1600, fu implementato con due ali di palazzo che fornivano al piano nobile stanze confortevoli, tanto che la famiglia Gallego lo elesse a dimora tutto l’anno, lasciando al piano inferiore magazzini e stanze di servizio.
Oggi la memoria di questo luogo ci parla più della funzione di restrizione umana tipica di una struttura detentiva, anche se l’adattamento interno realizzato in tempi successivi delle famose cellette, fa ragionevolmente ipotizzare una mutazione della destinazione di uso.
Per il resto, solo una approfondita ricerca archeologica sul pianoro potrà fornire migliore datazione cronologica.
In chiusura è mio dovere ringraziare l’avv. Francesco Marchese per la disponibilità fornitami e il Prof. Mauro Cappotto per il tempo dedicato ad accompagnandomi sui luoghi e nella storia di Ficarra, oltre che per avermi fornito l’immagine di copertina.
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