Francesco Trassari, il poeta in ombra.
di Sinagra Brisca Francesca
FRANCESCO TRASSARI (Naso 1871 – 1942)
Premessa
L’illustre amicizia di fine 1800 fra il poeta Francesco Trassari e il politico Francesco Lo Sardo è stata celebrata a Naso nel 2017 dall’Associazione di volontari “Tempi di recupero”, presieduta dal dr. Pruiti, da artigiani e specialisti, che hanno presentato il restauro di un sedile pubblico, posto al culmine della tortuosa salita d’accesso alla cittadina arroccata sul colle. Sulla parete alle spalle del sedile campeggia l’iscrizione lapidea di un noto sonetto composto dal poeta nel 1939 e trascritto postumo nel 1948 su marmo dall’amministrazione repubblicana.
Il sedile, restaurato con maiolica policroma di pregiato disegno e recuperato dalla tradizione ceramica seicentesca nasitana, ripropone al compaesano l’accoglienza di una sosta paesaggisticamente godibile. Il sito ha ora acquistato anche il valore di prezioso monumento dovuto da tempo al conterraneo poeta. La targa, che riporta una poesia di grande raffinatezza, è posta all’entrata del paese sopra un sedile, noto fra i nasitani col nome imprecisato di “sedile del deputato” e che si presta ad essere associato a quello dell’amico deputato al Parlamento Regio on. Francesco Lo Sardo, lasciando immaginare i due giovani che insieme arringano i passanti appiedati, infondendo pensieri di riscatto sociale.
Funtana e risignolu
A l’urtimu sidili, a lu casteddu All’ultimo sedile al castello
c’è un chianiolu cu na barcunata; c’è uno slargo con un balcone;
cu’ si metti a guardari la vaddata, chi si mette a guardare la vallata,
vurrissi aviri l’ali di ‘naceddu. vorrebbe avere le ali di un uccello.
Di jornu, ‘ntra li timpi, quarchi agneddu Di giorno, negli anfratti, qualche agnello
va pascennu l’erbuzza ‘nvirdicata; si pasce dell’erbetta rinverdita;
stenni la luna poi, ‘ntra la nuttata, stende la luna poi, nottetempo,
lu mantu arripizzatu e vicchiareddu. il manto rappezzato e vecchierello.
La funtana dda sutta chiacchiaria, La fontana là sotto fa chiacchiericcio,
canta lu risignolu a non si diri…, canta l’usignolo a non si dire…,
l’arma si pigghia di malincunia. l’anima si immalinconisce.
E a un certu puntu nun si po’ sapiri E a un certo punto non si può sapere
s’è scrusciu d’acqua chi si lastimia, se è rumore d’acqua che si lamenta
o risignolu cu li so’ suspiri. o l’usignolo con i suoi sospiri.
Nonostante l’estetica cristallina e il verismo spontaneo, per una moderna “damnatio memoriae”, ostracismo dalla memoria collettiva, sia la poesia di Francesco Trassari che lo stesso martirio carcerario del suo amico deputato, saranno passati sotto silenzio fino al periodo postbellico ed oltre, tomba dei molteplici delitti del fascismo. A tutt’oggi le opere del poeta sono reperibili solo presso gli eredi e in rare pubblicazioni.
La giovinezza
La vita e l’opera di Francesco Trassari ci portano al periodo della nascita della Nuova Poesia Dialettale Siciliana, che si distacca dall’arcadia imperante del Meli per raggiungere un contenuto di autenticità sentimentale e di purezza espressiva. In Sicilia il decennio di fine secolo 1800 ribolle di novità intellettuale e di intraprendenza sul piano sociale, espressa politicamente per un triennio dal movimento dei Fasci siciliani, con sentimenti e situazioni di grande epicità popolare, la cui partecipazione corale in tutta l’isola ebbe espressione organizzata in un programma sociale di contenuto costituzionale che, riprendendo il tema del diritto al lavoro e alla terra, si estendeva al diritto allo studio e ai beni comuni.
Francesco Trassari nacque in famiglia benestante di ricchezza terriera, giovane esuberante e battagliero nell’ideale di convivenza fondato sul progetto della giustizia sociale, aderì durante tutta la giovinezza al movimento di rivolta contadina dei Fasci dei lavoratori siciliani nel suo paese, a Naso (ME), dove una sede era stata fondata nel 1892 dall’amico coetaneo, l’anarchico-socialista Francesco Lo Sardo, futuro deputato comunista e perseguitato a morte dal fascismo. Quel periodo di assunzione delle rivendicazioni dello storico ideale si sposava all’età della ricerca della liberazione intellettuale e dell’affermazione delle attitudini personali; mentre Lo Sardo esercitò la propria propensione all’attività politica, Trassari sviluppò la passione poetica, ambedue diedero vita all’avvio di una consapevolezza sociale di rifiuto delle chiusure della mentalità paesana e del sistema borbonico e, nel contesto poetico, del tradizionalismo della imperante stilistica arcadica. Quel sogno sociale in avanti fu spezzato dalla repressione attuata dal garibaldino siciliano e voltagabbana Crispi, il quale, decretando a gennaio del 1894 il primo stato d’assedio unitario sull’isola, incarcerò e condannò la meglio gioventù e spinse le folle contadine a cercare un’altra vita possibile nella migrazione massiccia e avventurosa verso le Americhe. La battaglia per il riscatto delle condizioni di sfruttamento trovò un poeta anche in Giuseppe De Felice Giuffrida, di Acicastello, fondatore dei Fasci di Catania e condannato a diciotto anni di carcere. Sotto la tensione viva e dolorante della sconfitta politica, in aprile del 1895 Trassari dedicò una generosa poesia, a tutt’oggi inedita, a Nicola Barbato, famoso avvocato palermitano rappresentante dei rivoltosi (si ricordi che il partigiano siciliano Pompeo Colajanni, nipote del fasciante Napoleone, entrò nel 1945 in Torino liberata da comandante con questo nome di battaglia). Nel sonetto, unico pervenutoci a carattere politico della sua ampia produzione, Francesco Trassari offre al suo eroe solidarietà d’affetto e riconoscimento da parte dei giovani siciliani.
A Nicola Barbatu
A tia chi si’ ‘ntro’n funnu di galera A te che sei in un fondo di galera
comu un latru briccuni cunnannatu come un ladro briccone condannato
mannu stu libriceddu studiatu mando questo libricino curato
fruttu di l’arma mia tutta sincera. frutto dell’anima mia sincera.
Mentri li sciuri di la primavera Mentre i fiori della primavera
spuntanu ‘ntra li munti e ‘ntra lu pratu, spuntano fra le montagne e il prato,
o poviru picciottu cunnannatu o povero giovane condannato
porti di lu martiriu la bannera. porti del martirio la bandiera.
E la povira to’ mamma, trimannu E la tua povera mamma, tremando
cogghj tutti li sciuri di ‘stu munnu raccoglie tutti i fiori di questo mondo
e li duna a mia chi ti li mannu. e li dona a me che te li mando.
Ma li cosi cchiù granni e megghiu cchiù Ma le cose più valide e migliori più
di li sciuri chi a tia ti mannu, sunnu dei fiori che ti mando, sono
tutti li cori di la giovintù. tutti i cuori della gioventù.
Nell’1895 pubblica anche due opere significative nel titolo “Per la giustizia” e “Omne Trinum”. Trassari però non ritornerà più a scrivere su quel periodo politico giovanile, solo più tardi approverà la guerra libica, propagandata come sbocco occupazionale del mezzogiorno.
A dicembre dello stesso anno, Trassari risponde a un nuovo amico, il noto poeta e drammaturgo dialettale Nino Martoglio, che gli aveva dedicato un sonetto, con una poesia colma di affetto che nella prima quartina recita: “Mi facisti davveru un comprimentu, / nun mi crideva chi m’amavi tantu. / Iu di l’amuri to’sugnu cuntentu, / vidiri ti vurrissi a lu me cantu.” (Mi hai fatto davvero un complimento, non credevo che mi apprezzassi tanto. Io sono felice del tuo affetto, vedere ti vorrei accanto a me), per finire nell’ultima terzina confermando “ora chi tu mi manni lu to’ cantu, / o Ninu amicu miu, sugnu cuntentu / pirchì truvavi a cu’ circavi tantu.” (ora che tu mi mandi la tua poesia, o Nino amico mio, sono contento perché ho trovato chi cercavo da tanto tempo).
La cruenta sconfitta politica della rivolta siciliana aveva dissolto i raggruppamenti solidali colpendo in gran numero anche le singole persone, ma Trassari visse comunque un momento di rinascita della speranza, perché la sua attitudine poetica era rimasta intatta e irreprimibile, e ne era consapevole tanto che nel 1896 pubblicò la raccolta di poesie giovanili e intitolata “Li Minzogni”; ne espunse il sonetto a Barbato, certo perché politicamente compromettente ed estraneo al genere lirico-paesaggistico della silloge. Ancora in quell’anno, Trassari venticinquenne si trasferiva per seguire gli studi di giurisprudenza a Roma, dove raggiunse presto la notorietà letteraria, fu ammesso a frequentare il circolo di Luigi Capuana e fu accolto nella cerchia di letterati quali Carducci e Pirandello, con cui stabilì rapporti di amicizia e scambio epistolare, presto anche con Verga e Pitrè, ed estese vivaci rapporti con i poeti dialettali di tutta l’isola. Aveva imboccato la strada larga della propria attitudine: la poesia e lo studio linguistico. Ma in seguito a quello sociale, anche il suo sogno in avanti personale fu spezzato da un lutto familiare che lo risucchiò nell’ambiente scontroso e tradizionalista del suo piccolo paese. Nel 1897 pubblica Poema giovine, silloge dalla produzione di tempi precedenti e dedicata a due “uomini di campagna”.
Nel 1899 ancora aderisce generosamente al tentativo di riscatto sociale candidandosi alle elezioni amministrative nella lista “Democrazia Nasitana”, composta da sei giovani e insieme all’amico Francesco Lo Sardo. La borghesia di allora, ligia alle convinzioni borboniche del compaesano sacerdote Buttà (che in vari scritti riversava il suo odio contro i garibaldini perché era stato cappellano del re a Napoli e riferimento dei nasitani trasferiti nella capitale), non poteva che trovare preoccupanti gli obiettivi ribelli del programma di quei giovani “scapestrati”. Non furono eletti.
Nello stesso 1899, anno di fine secolo e della sua ultima esposizione politica, il poeta visse varie disillusioni perché Nino Martoglio pareva che l’avesse abbandonato, mentre l’amico Lo Sardo con la famigliola lasciava il paese per stabilirsi a Napoli. La sua sensibilità lo porterà a chiudersi in se stesso, incompreso e ostacolato salverà la propria sopravvivenza interiore nell’espressione poetica, volutamente frustrata della possibilità di stampa perché affidata a foglietti sparsi e dispersi. Sposato e dedito unicamente all’amministrazione della proprietà terriera, ebbe numerosi figli, cui diede nomi originali e mitici, fra cui Eolo e Libia. La sua prima biografa G. Zafarana riferisce che “i figli lo ricordano sempre con un taccuino in mano, dove annotava ispirazioni, voci dialettali; tutto quello che si sprigionava dalla sua vena poetica lo affidava momentaneamente a quei minuscoli fogli di carta, a cui attingeva poi per comporre i suoi sonetti, che tuttavia erano destinati a restare sconosciuti. Egli infatti scriveva e riponeva nei cassetti”. Due anni dopo ritroviamo la gioia in un Trassari nuovo, che s’è riconciliato con l’amico catanese, che è rinunciatario ma orgoglioso della lingua siciliana, come è chiaro in un sonetto del 1901 dedicato a Martoglio in partenza per un convegno di poeti dialettali a Roma: … ”Iu di ssa festa sugnu assai luntanu / ma sentu puru cca la cuntintizza / d’essiri comu a tia sicilianu.” (…Io sono molto distante da questo tipo di festa ma sento pure qua la contentezza d’essere come te siciliano). Trassari trascorrerà la maturità nella villa di campagna a Naso, benestante proprietario impegnato, in ambiente solitario e disilluso, nella produzione in poesia dialettale e nella ricerca linguistica, fino alla morte nel 1942.
La produzione letteraria e la poetica
Negli anni di fine 1800 vigeva a Naso l’abitudine di celebrare la memoria di un defunto di rispetto con la pubblicazione a stampa di un elogio funebre, che ne tesseva le lodi a futura memoria. Si tratta di un’antica usanza che presso i non abbienti era orale e comunemente detta “leggere la vita”, declamata all’avvio del funerale verso la tumulazione. Di Trassari sono conservati gli opuscoli degli eleganti Elogi funebri in italiano ai compaesani: Antonino Lo Sardo (stampato nel 1892 a Napoli da R.Tipografia F.Giannini & Figli), Giuffré Musarra Parisi, Sebastiano Paterniti, Mariannina Giuffré, Rosalia Giuffré, Gaetano Calcerano, Rosalia Buttà Origlio.
Nel 1895 Trassari ha pubblicato presso la tipografia Donzuso di Acireale un fascicolo intitolato “Omne Trinum. Prologhi in versi”, in cui a seguito dell’introduzione datata 1894, sono raccolti tre discorsi di tono aulico. In premessa il primo, datato 4 dicembre 1892, è “un prologo recitato da l’autore insieme con una compagnia di dilettanti a beneficio di due miseri coniugi ed altrettanto miseri artisti“, il secondo datato 8 ottobre 1893, è scritto “in occasione del colera che afflisse i paesi della provincia di Messina nell’estate 1893”, il terzo è recitato l’11 settembre 1894 “A proposito de’ terremoti della provincia di Catania”.
A dicembre dello stesso 1895 Trassari pubblicava ad Acireale presso la Tip. Edit. V. Micale la Commedia in un atto “Per la giustizia”, con esergo tratto da L’intermezzo di D’Annunzio e dedicata a Luigi Capuana, Ugo Flores, Giovanni Cesareo e Giuseppe Mantica, letterati conosciuti a Roma e che gli furono amici, con un’introduzione esplicativa della motivazione: “Scrissi questa commedia per darla a rappresentare a una compagnia di girovaghi trovatisi qui per caso come ne’ drammi de lo Shakespeare. Non ebbi intendimento o sperai di coglier lauri da la biga di Tespi, e la diedi in lettura al capocomico”. L’argomento è l’incruenta tresca amorosa fra la giovane moglie di un vecchio danaroso e il prete del villaggio; l’autore vi premette la propria dichiarazione di spirito laico: “Nel resto, chi volesse avere un’idea del mio sentimento su la moralità, sappia che morendo altro desiderio non avrei che di andare a l’inferno tra Farinata e Francesca”. Spirito libero, più tardi riconoscerà nel sonetto commovente intitolato “’A cruci”, la somma degli umani dolori.
Segue nel 1896 la pubblicazione in proprio della silloge di composizioni dialettali “Li MINZOGNI di CICCIU TRASSARI – Sunetti siciliani“, con esergo in copertina “Iu sacciu ‘na canzuna di minzogni e nudda parti cci nn’è viritati”, datata Aprili 1894 – Marzu 1895, e con dedica alla memoria di Natale Ricciardi e di Pietro Pizzino uomini di campagna. (Il sonetto è forma poetica tutta siciliana, per esser nata nella Scuola siciliana da Giacomo da Lentini, poeta alla corte di Federico II di Svevia, conoscitore delle poesie d’amore degli arabi.) La raccolta trassariana comprende venticinque sonetti, che il Poeta aveva già presentato al vaglio di amici e letterati, tanto che alla dedica fa seguire l’invocazione: “Picciotti! nun mi l’arrubbati; facitivi l’affari vostri.” Di quest’opera fondamentale è pervenuta solo la ristampa del 1921 presso E. Priulla Edituri a Palermo. C’è notizia del fatto che Pascoli amasse farsi recitare all’inizio delle lezioni all’Università di Messina, questa poesia tratta dalla silloge, con contenuto paesaggistico planetario, che sembra onorare il contesto naturalistico dei Fascianti siciliani soprattutto per il sentimento di speranza, espresso nell’ultimo verso che racchiude l’afflato poetico invocatorio “…virdi spiranza, iu ti salutu”.
L’erba
Crisci l’erbuzza ‘ntra li vaddunati, Cresce l’erbetta dentro alle vallate
crisci supra li rocchi e ‘nta li mura: cresce sulle rocche e fra le mura:
e di ‘nvernu accussì comu d’estati, e così d’inverno come d’estate,
Jinchi la terra di la so’ virdura. riempie la terra della sua verdura.
Crisci ‘mmenzu a li timpi sdirrupati, Cresce in mezzo alle coste dirupate,
‘ntra li fangazzi di la sepultura… fra le pozzanghere delle sepolture…
e duna a l’acidduzzi ‘nnammurati, e dona agl’uccelletti innamorati,
duci riposu cu la so’ friscura… un dolce riposo con la sua frescura…
Biniditta mi si’, erba chi pasci Benedetta tu sia, erba che pasci
li pecuri, li vacchi, e puru aiutu le pecore, le vacche, e pure aiuto
duni a li puvireddi affritti e stanchi! doni ai poveretti afflitti e stanchi!
Biniditta mi si’! ‘ntra li valanchi, Benedetta tu sia! dentro i solchi,
‘nta l’orti, ‘ntra li prati…unni chi nasci, negli orti, nei prati…ovunque nasci,
erba, virdi spiranza, iu ti salutu. erba, verde speranza, io ti saluto.
Fra le recensioni all’opera, Pipitone Federico commenta “Sotto il trasparente velo della menzogna (quanta amara ironia nel titolo del caro libricino!) si sente l’angoscia, il pianto, la sofferenza di quest’anima sensibile che, ancora adolescente, ha conosciuto le miserie della vita, il dolore, e lo esprime con spontaneità senza atteggiamenti melodrammatici” in l’Ora di Palermo nel marzo 1922. Dell’anno seguente 1897 è la stampa, presso la Tipografia dell’Etna di Acireale, del “POEMA GIOVINE”, una raccolta di ben dieci anni di composizioni poetiche in lingua, datate dal 1886 al 1896, e dedicata alla memoria del padre appena deceduto, che Francesco ha dovuto supplire rinunciando alle speranze della propria formazione giuridica e artistica a Roma. Nel primo sonetto introduttivo “O tu che leggi” Trassari cita Walt Whitman “Io celebro me stesso e canto me stesso” ma parla bene di se stesso nel sonetto (fra i più riusciti) “Io getto i versi miei siccome a ’l vento”. Il poema è suddiviso in quattro tematiche intitolate Preludi, Eroiche, Liriche stanche, Elegie, e contiene circa centoventi componimenti. Il poema attraversa tutte le fasi della vita trascorsa per lo più nel difficile disinganno di un ideale dell’arte poetica, intravisto e inseguito con accorato attaccamento. La sua vena creativa si dimostra schietta, spontanea e di raffinato stile, doti nuove nel panorama poetico siciliano e assai ben accolte nella cerchia letteraria. Appena pubblicato, il poema fu recensito molto positivamente da vari letterati affermati, da Luigi Capuana che nella rivista edita a Catania “Sicilia letteraria” ne elogia “un senso squisitissimo d’arte”, da Federico Pipitone “commossi accenti di un’anima sensibile e appassionata” su l’Ora di Palermo in marzo, da S. Albertini in “Sancio panza” in aprile. L’amico di vecchia data Nino Martoglio, lo definisce “poeta solitario e gentile”.
Alla svolta del 1899- 900, la vena poetica trassariana sembra defilarsi e sminuirsi, seppur sempre frequentata per inerzia creativa ancora lirica, goduta e godibile. Scriverà al compaesano Pippino Monforti “l’umanità non cridi a nenti, cridi a li sordi, a li divertimenti” (l’umanità non crede in nulla, crede ai soldi e ai divertimenti) e “li tempi su’ riversi / sugnu misu ‘ntra ‘na gnuna” (I tempi sono rovesciati, io sono messo all’angolo), e ancora “l’amici sunnu rari, li mecenati asenti”(gli amici sono rari e i mecenati assenti) e la motivazione “senza circari né comu né pirchì” (senza chiedere né il come né il perché) che rimanda al sonetto d’apertura de Li Minzogni, dove lo scopo poetico era propositivo. Nel rapporto con l’esterno il poeta si conferma dunque isolato dal dibattito letterario, cui sembra aver sostituito l’impegno nella ricerca filologica sul dialetto, concretizzato nell’annosa fatica della stesura di un Dizionario della lingua popolare, e più sente la necessità di aggiungervi un Rimario fraseologico siciliano che lentamente compila. Composto di dieci quaderni numerati e fascicoli, il secondo scritto raggiunge le 1515 pagine. La motivazione del lavoro dichiarata da Trassari nell’introduzione rivela uno stato d’animo depauperato: “io non sentendomi più capace di nulla faccio un lavoro materiale di classificazione, ma che pure richiede sforzi, sacrifici, tenacia, passione” … “pure le difficoltà che presenta il dialetto siciliano (per chi non voglia accontentarsi delle rime più facili) mi hanno spinto a classificarle, perché il poeta possa a priori sapere di quali rime può disporre”. Il dizionario completo inedito dagli eredi è stato depositato per un periodo presso il professore Picciotto dell’Università di Catania. E’ rimasto inedito pure un piccolo Trattato di agrumicoltura. Un testo recente dove sono presenti molte correzioni rispetto all’originale e una scelta di inediti che lascia qualche perplessità è l’edizione catanese di Minzogni vecchi e novi, con introduzione di Salvatore Camilleri; resta la nostalgia de Li secunni minzogni che i colleghi poeti avevano richiesto con insistenza al poeta. Visse nell’armonica eleganza del paesaggio nasense, circondato dai figli e nonno orgoglioso, non lasciò mai la sua cittadina, attese con responsabilità alla proprietà agricola, coltivando unicamente la poesia e la ricerca stilistica dialettali.
La poetica
La poetica trassariana delinea un accoramento nell’animo del poeta incerto sulle sorti delle sue composizioni, che sono “foglie di autunno in un avverso ciel sospeso” (Poema giovine). Autore di temperamento passionale, irrequieto ma sempre vigile e attento all’interesse stilistico, è definito da G. Di Giovanni “poeta dei miti affetti di famiglia”. Di contro agli apprezzamenti incoraggianti del periodo romano e di fine secolo assume una visione del mondo in cui, spezzato il posto al sole letterario, decide di rimanere all’angolo della vita. Ma sottolinea e rivendica a sé la specificità non comune d’essere poeta, le stigmate della poesia (da Chi fazzu?) “ E cantu.. pirchì l’omu quannu nasci, / o fussi riccu o fussi puvireddu, / porta lu so’ distinu ‘tra li fasci. / E comu c’è cu’ pati di fuddia, c’è cu discurri senza ciriveddu, / ci su’ li mastri di la puisia” (E canto ..perché l’uomo quando nasce, sia ricco che poveretto, porta il suo destino nelle fasce. E come c’è chi patisce per follia, c’è chi discorre senza cervello, ci sono i maestri di poesia). La fonte d’ispirazione amorosa, una certa Lucia, è un amore che evolve da donna senza cuore che lo ha deluso e deriso “Prima la vuci di la to’ vuccuzza, / ora lu cantu di la carcarazza” (prima la voce dalla tua boccuccia, ora il canto della cornacchia), a donna madre affettuosa che si pente d’essersi negata “Non chianciri Lucia, troppu chiancisti…, / già la to’ facci persi lu culuri; / ora asciucati l’occhj ! e chiddi e chisti peni scordati tu, rosa d’amuri.” (Non piangere Lucia, troppo hai già pianto…, già il tuo viso ha perso il colore; ora asciugati gli occhi e quelle e queste pene dimentica, tu rosa d’amore). L’aspirazione ultima di un grande amore è quella canonica in “Quannu tu ti fa vecchia” (Quando ti farai vecchia) dove il poeta ricorda con tenerezza antiche pene amorose trasformate nella serenità affettuosa della vecchiaia condivisa.
Il poeta non riesce a comprendere chiaramente l’autenticità dei sentimenti della donna che ha sempre un comportamento mutevole, mentre invece è limpido interprete e osservatore dei propri. La donna è bella ma distante, volubile, non avvicinabile, incapace di vero amore e della dedizione che lui esige. Sono versi sempre densi di struggente malinconia, dai toni delicati anche nel piglio sferzante e pungente dell’immediatezza di un sentimento realistico e spontaneo. La poesia di circostanza o d’occasione, rara, ha sempre un contenuto profondamente sentimentale o d’analisi descrittiva che la allontana dalla mediocrità. L’emozione estetica, che tocca il tono elegiaco, riguarda la concezione naturalistica del paesaggio, perché anche la natura è impregnata di una dolce malinconia che è tutt’uno con l’animo del poeta “vecchiu com’iddu e stancu di lu munnu, / li me’ spiranzi già viju cascari / comu li fogghj cu la tramuntana” (dal bellissimo sonetto Autunno – vecchio come lui e stanco del mondo, già vedo cadere le mie speranze come foglie nella tramontana). Anche i fiumi partecipano con la loro presenza discreta alle pene del poeta: “Sciumi d’argentu, chi parrannu vai / ‘ntra lu cannitu, cu l’aceddi e l’orti; / sciumi d’argentu, ascuta li me guai, / pigghiati li me’ peni e ti li porti!” (Fiume d’argento, che parlando scorri dentro il canneto, con gli uccelli e gli orti; fiume d’argento, ascolta i miei guai, prenditi le mie pene e portatele via!). Nel mare è trasferita la sua stessa anima, come annotò Di Giovanni “Prima dote di questo poeta veramente gentile è un sentimento appassionato del mare, le cui arcane e remote melodie egli sa rendere con un senso musicale di gratissimo effetto”. Gli abissi marini accolgono i meandri dell’anima fatta di affanni e tormentate pene: “Oh si putissi ‘ntra ‘ssu virdi mantu / ammucciarimi e scinniri un mumentu… / e lassariti tuttu lu me’ chiantu !” (da A lu mari – Oh se potessi nascondermi fra questo verde manto e immergermi un momento…e lasciarti tutto il mio pianto!).
Autore colto nella letteratura italiana, di tendenza leopardiana come tanti della sua epoca, fu il primo a dimostrare l’inattualità dell’insegnamento del maestro Meli nella poesia dialettale a lui contemporanea, merito che gli dà Di Giovanni esplicitamente, per cui Trassari risulta caposcuola della nuova poetica siciliana.
Scrive la studiosa G. Zafarana che: “per quanto concerne la resa stilistica fin qui illustrata, bisogna notare che Trassari riesce a contemperare alcuni usi trasmessi dalla migliore tradizione lirica, anche in lingua, specialmente leopardiana e le forme personali, proprie di un’ispirazione dialettale legata a precisi ambienti e a precise sollecitazioni di gusto. Una delle forme più riuscite è certamente quella colloquiale perché è chiaro l’intento del poeta di intimizzare il suo discorso lirico, proprio come aveva fatto il Leopardi e come faranno tanti leopardiani dell’’800, contemporanei del Trassari”. Frequente è l’uso della ripetizione in funzione invocativa a significare l’intensità del sentimento, anche l’uso dell’iperbole si riscontra ora in funzione di esaltazione (A Nicola Barbato), ora in funzione sarcastica (Lu vintagghiu); la proposizione ipotetica dà alla poesia il respiro largo di possibilità positive, sia per soggetti umani che naturalistici. Tutta l’opera di Francesco Trassari attende ancora di essere portata in luce da studi approfonditi.
- Trassari e i poeti dialettali siciliani
La stampa delle opere in proprio ad Acireale presso tre diversi tipografi, lascia pensare che Trassari avesse frequentazioni amicali nella costa ionica. Supponiamo che il Nostro fosse attratto da un’affinità di interessi verso il popolo, circoscritto al momento storico che vedeva tutti i poeti e letterati siciliani interessati alla questione sociale con sensibilità e scelte politiche diverse. A confronto degli altri letterati, Trassari proviene dall’esperienza dei fasci siciliani vissuta in prima persona al fianco dell’amico socialista Lo Sardo, che senza astrazioni intellettualistiche aveva saputo mettere nelle mani del popolo gli strumenti civili e politici per uscire dalla barbarie padronale. Questa esperienza differenzierà contenuti e espressività di Trassari dagli altri letterati e lo salverà dalla compassione pruriginosa per le disgrazie popolari.
La nuova scuola poetica dialettale rifiuta i soliti temi delle smancerie a imitazione del Meli, quindi le pastorelle infiorate e svenevoli e i contadini raffinati, personaggi “latte e miele” cui si affianca il ventaglio dei comportamenti dell’arcadia del sangue, quella dei luoghi comuni con accoltellamenti, prepotenze, omertà. L’esigenza nuova è di una poesia che studi la natura e la vita reale del popolo e la renda con verità e spontaneità: il verismo. La nuova scuola vuol cantare l’anima e la vita interiore dei popolani comunicando liricamente i drammi, la desolazione e le superstizioni di mietitori, zolfatari, braccianti. Secondo Tamburello, il poeta Di Giovanni è penetrato nell’animo di un popolo non ancora uscito dalle tenebre medioevali.
Trassari viene da un’esperienza politica di rivolta popolare organizzata, che gli altri non possiedono e che non gli permette quella loro stessa adesione inerme all’infelicità umana che trova ricompensa immaginaria nella fede e in un aldilà religioso impastato di superstizione. Leggendo Patri Francescu, Trassari in Santu puema ricava una verità personale: “di tutti li fantasimi chi sparti / la vita…, a l’umbra di li so’ duluri…, / l’unica gioia ‘nta stu munnu è l’Arti !” (1923 – di tutti i fantasmi che sparge la vita, all’ombra dei suoi dolori, l’unica gioia in questo mondo è l’Arte!). In Trassari poeta colto, sono facili i riferimenti al XVII canto del paradiso dantesco nel sonetto Lu cani e a Leopardi in Com’eri e comu si, e in Malannata, come alla cameretta di Petrarca in S’avissi saputu. L’abbraccio al popolo comprende l’assunzione della sua lingua, nella varietà locale e nella sua attualità terminologica, che il poeta colto solleverà comunque a dignità letteraria. Ciascuno fa rivivere il proprio dialetto: Di Giovanni l’agrigentino, Martoglio il catanese, Platania l’acese, Trassari il messinese.
Martoglio è incisivo nella drammaturgia e rispecchia fotograficamente situazioni popolari. Trassari non prende in considerazione il popolo né più la politica. A differenza degli altri e similmente a Saro Platania, ha una poesia soggettiva, personale, intimistica e raffinata: sono poeti colti. I contemporanei di Sicilia sono i grandi Capuana, Pirandello, Pitrè, Verga, Martoglio, Di Giovanni, Saro Platania e molti altri, coi quali Trassari entrò in rapporto, di persona o per corrispondenza, e forse ne ebbe l’impressione di essere anch’egli un po’ “sesto fra cotanto fra cotanto senno“, ma il destino avverso, l’interruzione obbligata dello sfortunato rientro a Naso, certo gli fece sfuggire la possibilità di approfondire quelle somiglianze e differenze che ancora non sono state, a un secolo di distanza, indagate né adombrate.
Tralasciando l’ovvio riferimento al verismo di Capuana e Verga, la corrispondenza dei poeti fra le tre sponde dell’isola avveniva sulla rivista letteraria “d’Artagnan”, dove troviamo due sonetti di Saro Platania “A Cicciu Trassari” e “Na dumanna a Cicciu Trassari”. Queste sono riportate da Salvatore Camilleri che, nel commentare i due poeti a confronto, mette in risalto il tema dell’amore sanguigno, sensuale e poco romantico di Platania, che alla sua Santina dedica un intero canzoniere, mentre riconosce a Trassari il “superiore dominio tecnico e la purezza del disegno ricco di romanticismo”. Della corrispondenza di Trassari abbiamo quattro sonetti: “Vasuni e sdegnu. A Saru Platania d’Aciriali” – “A Saru Platania: Tu mi dumanni pirchì lu to cori” – “ A Saru Platania: Mmustrami lu ritrattu di Santina” – “Lagnanza a Saru Platania: Saru, Saru, pirchì nun m’ha cchiù scrittu” (1895).
Vincenzo De Simone in segno d’amicizia gli invia una copia dei propri sonetti La Fontana con la dedica: “A Francesco Trassari – che nella Poesia Siciliana – diede un ansito nuovo – di stupenda passione – con vivissimi auguri – per la sua preziosa salute”.
Sei i componimenti trassariani per l’amico catanese poeta e drammaturgo “A Nino Martoglio”- “Sintivi chi tu parti” – “A lu pueta Ninu Martogliu: Dimmi chi t’haiu fattu e chi ti fici” 1899 – “A Ninu Martogliu pirchì mi dedicò un sonettu” – “ Boni festi a Ninu Martogliu: Sta festa chi passò di capudannu”1899 – “Pi lu cunvegnu di li pueti dialettali a Roma: Parti pi Roma? e Diu mi t’accumpagna!” 1901.
Un solo sonetto è rivolto A Pascarella. A Naso era noto un altro poeta dialettale, Pippinu Monforti Buttà, con cui il Nostro dialoga per quattro sonetti diretti al compaesano “Santu puema. (liggennu Patri Franciscu)”1923 – “Tristizza” 1930 “Tristizza I e II” 1935 – “A Pippinu Monforte: Finiscila, Pippinu, cu li versi” – “Ribillioni a Pippinu Monforti: Si si’ minchiuni tu mi nni cunsolu ”.
Altri critici dell’opera trassariana sono stati S. Raciti, G. Pipitone Federico, Genovesi, S. Albertini, E. Di Marzo, G. Tamburello.
Quanto al poeta dialettale Alessio Di Giovanni, il più apprezzato dalla critica letteraria, che profonde nei sonetti compassione verso contadini e carusi sfruttati, la sua lirica trova concretezza nel pensiero religioso francescano fino al riscatto nel martirio, in assenza di spinte sociali o di aneliti al socialismo umanitario o cristiano. Di Giovanni cita il Nostro (in Saggio su Saro Platania) con un’affermazione importante: “Francesco Trassari, prima di scrivere in dialetto, fece buoni studi sulla poesia popolare. Le sue traduzioni italiane di alcuni canti popolari mostrano con quanto gusto egli si sia addentrato nei segreti della musa rusticana. Ma però se n’è avvalso poco nei sonetti in vernacolo, i quali non mostrano la possente ispirazione di quelli di Saro Platania, ma un fare modesto, semplice, ma non per questo di minor pregio”. Verso il ciancianese da Trassari c’è il solo sonetto di condoglianze “Muriu to’ matri!”. La conclusione si affida a Pasolini, la più convinta voce sull’argomento, che recentemente ha reso giustizia a Di Giovanni e ai dialettali delineando il campo letterario esteso dell’espressione in vernacolo, lui che tanto fece per il suo friulano: “Il dialetto è materiale che riceve forma da una poetica che lo trascende, che appartiene alla cultura in lingua, i cui centri non sono solo nel continente italiano, ma in Europa”.
Nota .
Come scrisse Vincenzo Consolo a distanza di un secolo nel 2007, perfino Tomasi di Lampedusa autore de “Il Gattopardo” sembra ignorare che “la mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni.” Consolo, romanziere e drammaturgo siciliano, denuncia nello stesso articolo giornalistico a proposito dell’inchiesta parlamentare del 1875 sulla mafia, pubblicata nel 1876 “…Franchetti e Sonnino, un piemontese e un toscano, nella quale si parlava della specificità siciliana della malavita organizzata, la mafia. Insorsero allora le anime belle di intellettuali, che sentirono quell’inchiesta come una offesa alla Sicilia. Luigi Capuana scrisse un pamphlet per contestare l’inchiesta dei due studiosi, servendosi della definizione che della mafia dava il grande etnologo Giuseppe Pitrè per il quale la parola “mafia” era sinonimo di bellezza, di eleganza. Bellezza ed eleganza che opprimeva, sfruttava, uccideva”.
Antologia minima
Parafrasi di una canzone popolare – 11 novembre 1905
Visti tri rosi a ‘na rama pinniri, Vidi tre rose pendere da un ramo,
nun seppi di li tri quali pigghiari, non seppi delle tre quale prendere,
allura ‘ntra me stissu misi a diri: allora mi misi a dire fra me stesso:
la granni…è la granni, mi po’ struppiari; la grande è grande, mi può ferire;
pigghiu la menzanedda a ben vuliri, prendo la mezzana a benvolere,
ma la minzana nun mi seppi amari! Ma la mezzana non ha saputo amarmi!
Ora nun pozzu diri; chista o chidda…, Ora non posso dire; questa o quella…,
e mi cuntentu di la picciridda. e mi accontento della piccolina.
Sirinata
Si fussi risignolu cantaturi Se fossi usignolo cantatore
‘nta lu me nidu ti vurria purtari, ‘nel mio nido ti vorrei portare,
dormiri ti faria ‘nta rosi e ciuri, dormire ti farei fra rose e fiori.
‘nta ciuri e rosi ti faria svigghiari. Amore fra rose e fiori ti farei svegliare. Amore
Da: Pintimentu
Nun sapiti la pena e lu lamentu Non sapete la pena e il lamento
chi partinu e si fermanu ‘ntra l’aria, che partono e si fermano per aria
comu l’aceddi quannu c’è lu ventu,… come gli uccelli quando c’è vento
Idda chianci e si strazza li capiddi, lei piange e si strappa i capelli,
vui durmiti…, la notti è sulitaria…, voi dormite…, la notte è solitaria…,
oh, ch’arristassiu sempri picciriddi! Oh se poteste rimanere sempre bambini!
Nun chianciri, Lucia, troppu chiancisti… Non piangere, Lucia, troppo hai già pianto…
Notti d’està
Muta è la notti; stancu a manu a manu Muta è la notte; stanco a poco a poco
scrusci lu vinticeddu cu li fogghi… fruscia il venticello con le foglie…
iu guardu e pensu…e sentu di luntanu io guardo e penso…e sento da lontano
lu mari chi ribumma ‘nta li scogghj. il mare che rimbomba fra gli scogli.
Tu, lanterna di Lipari, (vurcanu Tu, lanterna di Lipari, (vulcano
ch’addumi sempri!) ascuta li me’ vogghj, sempre acceso!)ascolta i miei desideri,
ascuta…tu chi comu un guardianu ascolta…tu che come un guardiano
sta’ ferma ‘ntra lu mari e ‘ntra li scogghj! stai ferma fra il mare e gli scogli!
Ascuta: iu pensu chi vurria, ‘sta vita Ascolta: io penso che vorrei, questa vita
china d’amaru chiantu e di duluri, piena d’amaro pianto e di dolore,
finiri dintra ‘ss’acqua sapurita. finire dentro quell’acqua saporita.
E tu, lanterna, cu lu to’ culuri E tu, lanterna, con il tuo colore
russu, cu la to’ vampa calamita, rosso, con la tua fiamma calamita,
tu mi jttassi l’urtimu sbrennuni. tu mi getteresti l’ultima ondata.
Da: Ntramezzi
Staju facennu comu lu surdatu, Sto facendo come il soldato,
quannu scrivi a l’amici e a li parenti: quando scrive agli amici e ai parenti:
ci scrivi s’iddu è bonu o s’è malatu, scrive se sta in salute o se è malato,
ci cunta tutti li so’ patimenti. racconta tutti i suoi patimenti.
Di li città ch’ha vistu e furriatu, Delle città che ha visto e visitato,
ci dici si si sta mali o cuntenti; dice se si vive male o ben contenti;
ci fa sapiri, a lu so beni amatu, ci fa sapere, al suo amato bene,
unni si trova cu li reggimenti. dove si trova col reggimento.
E scrivi e scrivi…; e doppu aviri scrittu E scive e scrive…; e dopo aver scritto
un fogghiu sanu, pensa a tanti cosi un intero foglio, pensa a tante cose
e ci pari chi nenti ci ‘avi dittu. e gli sembra di non aver detto nulla.
Pensa a li genti di lu so’ paisi, Pensa alle persone del suo paese,
a li campagni, a l’arburi, a li rosi… alla campagna, agli alberi, alle rose…
e cunta l’uri, li jorna e li misi. e conta le ore, i giorni e i mesi.
Bibliografia
- Trassari. Li MINZOGNI ( 2° edizioni). E. Priulla Edituri. Palermo 1921 . Ristampa da A.C.M. nella Collana “Cosi d’Oru”, Roccalumera 2013
- Zafarana. La lirica dialettale di Francesco Trassari. Ristampa da A.C.M. Roccalumera 2013
- Brignone. Francesco Lo Sardo. Biografia. Ristampa da Archivio Concetto Marchesi Roccalumera 2013
- Di Marzo. La scuola poetica dialettale siciliana. Sandron Ed. Palermo 1924
- Vecchio. “Alessio Di Giovanni poeta del popolo” in Quaderno N. 10 della “Istituzione Culurale Alessio Di Giovanni”. Cianciana 2009
- Pasolini. “Noterella su una polemica Verga-Di Giovanni. In “Galleria”, a.VI, nn.5-6, sett-dic. 1956
- Trassari. Minzogni vecchi e novi, introduzione di Salvatore Camilleri”. Edizioni Greco, Catania 1993
- Consolo. I nostri eroi di Sicilia. In “l’Unità”, domenica 22 aprile 20