Iconografia di Maria SS. di Capo d’Orlando
di Giuseppe Ingrillì e Antonino Ravì Monaca

“Madonna di Trapani” (http://www.madonnaditrapani.it)
Storicamente, l’effige di Maria SS., custodita nella chiesa sul monte di Capo d’Orlando, è considerata una piccola replica della ben più nota statua della Madonna venerata a Trapani.
Alla luce delle note vicende che hanno interessato la sacra effigie, è possibile oggi poterne riconoscere questa matrice iconografica attraverso la lettura stilistica comparata con le testimonianze artistiche riferibili a quel tempo?
Per poter dare esaustiva risposta a questa domanda, dobbiamo prima comprendere, dal punto di vista artistico, se è possibile rintracciare nel territorio limitrofo tra Capo d’Orlando e Naso opere coeve che rimandino al confronto con il modello trapanese.
Questo excursus, visto il focus trattato, non poteva che prendere avvio da dove esso si è generato, Trapani, in quella dimensione spirituale particolare e cogliendone l’aspetto religioso che ha innestato un vero e proprio fenomeno mariano, rendendo possibile alla luce della nostra comparazione, l’analisi di quegli elementi stilistici codificati che portano alla diffusione del culto della Madonna detta di Trapani e alle sue influenza in campo artistico nelle sue repliche.
La genesi del culto a Trapani, è avvolto in quella nebbia tipica delle manifestazioni mariane, circondato da un’aurea miracolosa e da un tema comune che si esprime ogni volta nella manifesta volontà divina di rimanere in uno specifico luogo.
La sua presenza artistica, a memoria, trova motivo di giustificazione nel suo passaggio a Trapani, nelle complesse dinamiche che si svolgevano in Terra Santa durante la caduta dei Regni Latini e che in conseguenza della caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291, ne segnarono il tramonto.
La conseguente necessità di salvare reliquie e materiale sacro dalla furia distruttrice musulmana, determinano il suo viaggio e arrivo in occidente.
Successivamente, si manifesta la volontà divina, attraverso eventi miracolosi, che la vuole presente a Trapani.
Questi fatti da sempre riportati, sono alla base delle incongruenze temporali che hanno disorientato per molti anni gli studiosi, tenendo per certo solo la genesi dell’opera, la bottega artistica nel quale il capolavoro era stato prodotto.
La sua datazione artistica, dopo attenti studi stilistici, porta a formulare una data prossima al 1360 circa ed una paternità attribuibile a Nino Pisano, che nella bottega del padre a Pisa ne realizza l’opera, sgomberando il campo da sovrastrutture e fatti che non trovano corrispondenza nella storia.
L’immagine della Madonna di Trapani, è scolpita in un blocco di marmo pario alto mt 1,65 e rappresenta Maria ritta con il bambino in braccio.
Questo nuovo motivo, aggiunge in campo artistico, all’iconografia mariana una nuova evoluzione di un modello che segna il passaggio artistico in scultura e in pittura tra le Madonne in trono “Theotokos Nikopoia «datrice di vittoria»”, in uno stile nuovo il gotico-fiorentino arricchito da esperienze francesi, in cui l’interazione tra la Madonna e il bambino è più intima, tipica del modello definito “Maria Glykophilousa o Eleousa «della dolcezza o della tenerezza»”, che rappresenta l’evoluzione del modello iconografico di “Maria dell’Odighitria «colei che conduce mostrando la direzione»”, in cui il bambino posto sul braccio sinistro, volge verso di lei la mano destra ricambiato.
L’artista riesce nel compito d’imprimere movimento alla materia immobile, il marmo, cristallizzando nella posa dinamica della gamba sopravanzante, oltre che a lavorare sulla doppia interazione artistica e spaziale, tra la Madonna e il bambino e la Madonna e lo spettatore.
E’ nel trattamento delle due figure, la madre e il figlio, in cui l’artista infonde e trasferisce, grazie alle sue doti realizzative e artistiche, quella immateriale espressività che si sublima nel dialogo muto del contatto visivo.
Risulta così identificabile il linguaggio, che attraverso una linea visuale intima e di tenerezza, unita alla complicità materna di espressione con il viso e con il corpo, arricchita dell’interazione anche delle mani con la madre, diventa capolavoro.
La composizione artistica è mirabilmente completata, dalla linearità geometrica dei piani d’intervento con cui il Pisano tratta il panneggio di Maria, il “Maphorion”, nella complessità delle pieghe, che con rigore imprimono quel senso di movimento e leggerezza che arricchisce e completa l’opera.
Al capo dei Maria, vi è la presenza di un velo che, oltre a coprire, annuncia allo spettatore la sacralità del luogo e si pone al visitatore con rispetto e deferenza.
L’unico vezzo concesso sono alcune ciocche di capelli, non coperti dal velo, che nel linguaggio del Pisano, rappresentano la parte volubile e terrena della Madonna.
Anche il bambino presenta nella coerenza dell’artista una tunica che lo avvolge, lasciando scoperti i piedini.
Nel corso del tempo, la statua è mutata in alcuni elementi, in quanto giunta a Trapani a capo scoperto.
Per renderle degno omaggio, nel 1428, Anna de Sibilia, decise nel suo lascito testamentario, di destinare una congrua somma per ordinare ad un argentiere “di confezionare l’immagine della Madonna una corona d’argento bella e bene lavorata dal peso di circa cinquecento grammi”.
Successivamente nel 1733, ritenendo l’argento un metallo non più nobile e quindi non all’altezza del capo di Maria, il Capitolo Vaticano, commissionò all’argentiere romano Giacomo Gardini, due corone d’oro.
Questo fatto altera e condiziona gli artigiani costretti a modificare questo nuovo elemento nelle riproduzioni della Madonna di Trapani, e segna un’evoluzione nell’iconografia delle statuine, potendole distinguere così in anteriori al 1734, se riportano quel tipo di corona, o posteriori a quella data.
Questa variazione diventa marcante nelle diverse raffigurazioni di teste coronate riprese in pittura e scultura.
Il messaggio mariano è così scritto nella pietra e affidato alla chiesa, rappresentando nella fede il culto dominante nella città di Trapani, che a lei si affida e ne chiede protezione.
La statua sarà da stimolo per una intera comunità, che darà vita ad un movimento artistico che la identificherà come “la Firenze di Sicilia” in campo artistico.
Questo sprone, permetterà lo sviluppo di una vera e propria industria artigiana, fatta di piccole botteghe, che riprodurranno in ogni dimensione e materiale la Madonna di Trapani.
Tutto sarà così legato al pathos religioso e devozionale, un realismo che attrarrà committenti, che reclameranno riproduzioni di Madonne in alabastro, avorio, corallo, legno, tanto da coniare il termine di “pietra incarnata”.
Tutti questi oggetti sacri finirono per essere utilizzati nell’evangelizzazione delle terre di Sicilia, sia dai devoti, sia dai pellegrini, che da preti o missionari.
Il culto mariano poté così diffondersi per rotte commerciali, si per terra che per mare, affacciandosi ai porti del Mediterraneo, li trasformerà in luoghi di dedicazione e di culto.
Queste cappelle, molto frequentate, si trasformeranno in chiese a protezione o per l’intercessione di Maria sui naviganti, che quest’ultimi “invocheranno come guida e stella maris nel quotidiano pericolo rappresentato dalle tempeste o, ancora più, dalle razzie barbaresche“.
Fu Messina, il primo centro ad ospitare nel 1531 i monaci Cappuccini, che vi dedicarono alla Madonna di Trapani un santuario, mentre sarà il brullo colle di Capo d’Orlando nel 1600 a veder sorgere la fabbrica della nuova chiesa.
Questo luogo in origine militare, muterà la sua funzione, diventando così faro religioso, affacciato ancora sull’infido mare e sulle sottostanti rotte commerciali.
A questo luogo i marinai volgeranno lo sguardo in cerca di sollievo e coraggio, ad essa i tanti fedeli chiederanno protezione affidandosi all’intercessione di Maria SS di Capo d’Orlando.
Anche l’arrivo di questa Madonna sul colle, al pari di quella di Trapani, assumerà i contorni di un evento miracoloso, acquisendone i canoni tipici delle manifestazione mariana.
Riportiamo il racconto del Gesuita Giacomo Muccione, membro della Compagnia di Gesù, che nel suo manoscritto per primo ci informa su questi eventi accaduti, raccogliendo le testimonianze direttamente dalla viva voce dei protagonisti:
“… l’anno della Redentione humana 1598, à dì 22 di ottobre, ad hore 22, di giovedì, rarissima in tutto; successe il fatto in questa maniera: in quella stagione tenevino il forte due fratelli: i quali ad istanza del Conte Geronimo Gioppoli, s’havivano obligati: quella sera pero due consorti vi erano: l’uno òretio di lipari l’altra di samperi, ma citadini di Naso, di cognome Raffa, di nome Antonino et Antonina donna molto d’abene, e saggia; era ella già alla fenestra della torre alla guardia; e per avventura in mirare Agatirso scorge alla fontana lungi ben 300 passi un’huomo; s’avvede parimente esser pellegrino, che andava alla volta del detto castello, non gli piacque celarne lo sposo […]
[…] Di gratia bon’animo; datti pace marito, mette giù l’ira, hor’hora verrà da te un’pellegrino solitario, chi sia non sò; tu per carità diposta ogni amaritudine, ricevilo amichevolmente e trattalo con’alcuna accoglienza et io pur’all’hora della refettione, e del riposo, non mancharò di sovvenirlo, se pur cosi ti piace, per quanto alla nostra necessità si conviene d’alcun’ristoro et é veramente degno. Qui cesso l’annuntiatrice.
[…] Vede qua o’huomo? Fantasma che sisia egli è nel’altana già; respondi si sai, dissi nell’altana, che standosene ei all’opera sudetta repentinamente si lo vide al’mal’suo grado entrare a cortile: poi andar per entro le scale sù alla torre non altrimente un’ugello stoinangustie ò no? Hora à questi avisi per non dire prodigi come da fiero tono abbatuta stupì costei nel’che pure appena credeva al’marito in sacro abito, tremava no hor’mentre cotal dialogo passa tra due consorti, la’sù l’altana eccoti insuonar il guscio; giù che cosa havrebbono da fare ad espedrisene? Cedere al nemico? Più sceglierebbono di morire che essere cosi dislebi. Io dell’uscio all’altana, un ridosso angusto adobbiato di tenebre, entro due pareti.
[…] Havea due bisaccie, di panno lino , che diciamo, vergate alternatamente d’azurro e di candide verghe. Hora che fa il Raffa, grann guardigno l’assalì in protervia e temerità troppo licenciosa agnoti gl’occhi; or di qua, monaco: che fai: chi sei? Gli dice, donde ne veni? Ove vai di un’poco, che pretendi? Che machini sotto cotesto habito: solo alla sprovista ne’che voi in mia casa? Tantoasi duri incontri si mantenne ei alla tacita, con gravita et con senno impoppa e di huomo di esquisita vertù. Tuttavia poi d’havergli ben lasciati a sua posta interrogar esparlare a bello studio alla volta del poi’artico segui asonar il guscio continuamente in un formidabile suono, come si al’hora dal’campo agatirso nemico esercito accampatosi per quei colli […] Hora qui Antonina franti tutti i legami e sostegni, della mansuetudine ben trasognata et temeraria si caccia contra al’istesso padre, e’ di subito da di mano al guscio vi fu un’gran sforzo. Cilo togli a furia da mano soverchiandonelo con intemperanza di paroli e con empito, che li sugeriva la collera; ma egli in cosi gravi incontro tacque da vero huomo sapiente: si bene pativi una aspera guardatura, senza badar si risvolta alla Croce qui posta dalli stessi Raffi e vi fa tre cose la mira, con ochi fissi, la bacia devotissimamente: et la abracia.
All’hora di più in un baleno volto all’oriente partì da quel’luogo et caciatosi per entro tutti due rientro all’uscio della sudetta altana: l’astrico, che ivi appellano: salta poi a guisa di folgore alla scala.
[…] e qui il Raffa mentre ammantese saltegia per entro le tenebre di gradi ricercando la preda, di repente da mano ad una delle bisacie l’afferra a caso e vi cava per su un’casettino di tavole lungo di un’palmo, chiuso et all’aciato di filo di spago: et presolo con quanta presteza po’il porge alla moglie la qual’poi lo tolse et posò su l’altana. Ma pero i l buon monaco senza vendicarsi, ne balbettar punto, segue giù per le stesse scale, piglia poi luscio della torre, poi i l cortile et sin qua Raffa il segui ad avventarseli ma non l’assequi, poi dalla porta va senza calar punto tra tanta posteriore […]
Di quel’, che si trovo nell’arca lasciata da Cono S.to.
Cossi l’abbate termino questa prima apparitione; hor dopo, che spari, rincorato e’rinvigorito Raffa sendo ei nel’cortile prima pose mente alla cassettino d’onde voltosi alla torre dove l’altra attendea alla guardia; Antonina dice, al ultimo se ne fugio il bon’monaco e noi siam’liberi: si era spija ò no, ne havrem la sperienza dunque per tua fe portami quotesto libro: cossi chiamava il tabernacolo il cieco della bile, e per essere tutto occupato nella imaginatione del monaco. Non tardo l’altra: dunque scesa che fu la cascietta al’cortile; ambi due postisi a sviluppare et ad islaciari i laci, sull’aprirla, e votò ivi dentro un’effigie dell’Intemerata madre di
Christo in pie col bambino Gesù assiso al bracio, di sembiante, sua vita e gratia amabilissimo; era ei intento a mirarla in facia, con li mano al’petto amorevolissimamente palpando mirando et accarezandola senza fine. Era ella di cera candida lunga men d’un palmo: ben’propozionata di onesta e di bellezza mirabile. L’arca altresì era suppatiata al’dentro di velluto verde, havea di più due mezze porte con altretante figure: era l’una di san Michele Arcangelo prencipe della Celeste militia, e l’altra del’santissimo confessor di Christo et religiosissimo francesco da Paula; e nei due lati havea parimente sul’scabello due angeli ingenochioni con due torce in mano, mirandola et onorandola; havea sul capo pari al figlio una corona deorata cinta di varee gemme. Ma tempo è di tornare la penna a’Raffi. Dono più felice et venturoso non poteva loro occorrere e, di già poi di haverla con incredibile giocondità di cuore e divotione adorata: riverentimente con segni di gioia, e voci di letitia alleij dopo idio et al s.to, su nella torre entro la stessa lor stanza l’accolgono religiosamente et a decenza. Sarrebe soverchio senza dubio, far distinta memoria de giubili delli ossequij et rengratij a’Cono s.to. Cose più maestre ne scopre la penna […]
Fino a’qui delli 22 di ottobre giorno di eterna memoria.”
Questa apparizione e le successive, unite ad una profusione continua di manifestazioni di fede miracolosa verso la cittadinanza di Naso e non solo, portarono il Clero messinese, su richiesta del Conte Girolamo Joppolo a considerare per il giubileo del 1600 la costruzione di una chiesa nel luogo dello “scippo”.
Così accade che la devozione e la riconoscenza, porta con se il tentativo di raffigurare l’effige della Madonna a motivo di protezione personale in quadri, ex-voto e statue.
La statuetta di Capo d’Orlando risulta essere riconosciuta in quei canoni stilistici che la rendono simile all’effige che si venera a Trapani, pur perdendone la monumentalità, essendo alta un “palmo siciliano” (circa 25 cm), di colore bianco, che ci permette oggi di ricondurla così a quella espressione artistica, riprodotta nelle botteghe trapanesi e che viaggiando dentro la bisaccia di un monaco, approda anche sulla sommità del colle d’Orlando.
Oggi non ci è possibile ammirare la sua espressione artistica, delegata solo a rivivere attraverso i racconti tramandati, permettendo così di tentare di tracciarne un percorso iconografico e artistico nel territorio, incerto lascito di un culto molto vissuto e drammaticamente “ri-scippato” ad un’intera comunità.
La rappresentazione più antica ad oggi, presente nella chiesa di Maria SS. di Capo d’Orlando è quella di Gaspare Camarda datata 1627, un quadro di “Madonna tra le sante Rosalia e Barbara”.
Il soggetto mariano, commissionato dal Viceré di Sicilia, Pietro Giron, Duca d’Ossuna, in riconoscenza personale per un miracolo ricevuto sul colle durante una sua visita.
L’artista, avrebbe dovuto rappresentare per logica, un soggetto raffigurante la piccola effige, ponendola al centro delle due ben più note sante.
Invece l’iconografia del quadro, ci dona una Madonna che è lontana dalla ormai nota e conosciuta Madonna di Trapani, proponendo un diverso approccio nel panneggio della veste, che risulta essere aperta a “V” sotto il collo e con la totale assenza di velo a coprire la testa, mantenendone solo lo schema compositivo delle mani e dello sguardo dei due soggetti.
Un esercizio creativo estremamente personale del Camarda, un soggetto a metà tra l’iconografia della Madonna di Trapani, da cui vuole discostarsi e allo stesso tempo, anche lontana dal soggetto che la replica, la Madonna di Capo d’Orlando.

Particolare della statuetta
Sempre all’interno della chiesa dedicata a Maria SS., sul colle, abbiamo un’ulteriore rappresentazione, entrando nell’altare di sinistra, dedicato oggi a San Cono, in cui è possibile notare il soggetto principale, che è il santo, nell’atto di ricevere direttamente dalle mani di Dio, una piccola Madonnina bianca, con dei contorni appena abbozzati, non chiara nei lineamenti, ma che sicuramente rimanda nell’idea rappresentativa a quella lasciata sul colle, anche se è troppo piccola per poter considerare simile all’originale, il particolare che spicca però sembrerebbe l’assenza della corona, nè sulla Madonna, nè sul bambino, riproducendola così come arrivata a Trapani.
Il tema del quadro anticipa, approfondendo, quell’aurea mistica di evento divino, nella volontà celeste dell’essere venerata in questo preciso luogo.
Spostandoci a Naso, nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, il pittore Giuseppe Tomasi da Tortorici, riceve la committenza di un quadro che riproduce “L’incredulità di San Tommaso”.
Il lavoro terminato nel 1641, viene commentato nello studio che racchiude tutte le opere del pittore, pubblicato da Sebastiano Franchina “Giuseppe Tomasi da Tortorici” come opera che “ritrae in alto fra degli angioletti asimmetricamente disposti, quella che comunemente è la Madonna di Capo d’Orlando, ispirata all’iconografia della Madonna di Trapani”, questa frase ha ingenerato negli anni l’idea dell’unica e sicura rappresentazione fedele del simulacro orlandino.
Se si osserva bene, detta figura non si discosta iconograficamente da quella di Trapani e potrebbe risultare coerente per la tipologia di corona indossata, al modello trapanese, oltre che per la presenza del velo e per la disposizione delle pieghe della tunica.
Si avvicina nella disposizione delle mani del bambino e della mamma, ha la giusta espressività con l’incrocio di sguardi, ha il movimento del ginocchio che traspare a sinistra dello spettatore che guarda e che dà quel senso del movimento della figura.
Unica pecca, forse per ragione di prospettiva, la si osserva nella posizione del bambino, che più che essere seduto sul braccio, sembra fluttuare nello spazio vicino alla Madonna, percependolo con maggiore attenzione nell’incoerente movimento articolare della mano. Nel viso della Madonna possiamo leggere un’affinità con la rappresentazione della Madonna con Bambino dormiente presente a Naso, attribuito alla scuola di Joos Van Cleeve.
Qui, siamo in presenza di una elaborazione o di uno studio che ha fondamento in qualcosa di reale, qualcosa che il pittore ha osservato attentamente per riportarne gli aspetti coerenti su tela, un modello di derivazione sicuramente trapanese, che non si discosta negli elementi caratterizzanti della Madonna di Trapani e che l’avvicina in presenza dell’originale a quella di Capo d’Orlando.
Il confronto pecca per la mancanza del foglio di committenza al pittore, che, riportando le specifiche d’incarico, potrebbe fornirne la conferma.
Non avendo altri quadri, che riportino direttamente alla rappresentazione diretta della Madonna di Capo d’Orlando, possiamo concentrare la nostra attenzione alla rappresentazione degli ex-voto, presenti al monte e che testimoniano le intercessioni miracolose operate.
Nello specifico, possiamo riferirci ad un modesto quadretto, conservato nella sacrestia, che raffigura il contesto del monte, con l’apparizione in alto nel quadro di una Madonna, che dovrebbe rappresentare o richiamare quella di Capo d’Orlando, che intercede sui marinai di una nave in balia di una tempesta.
Questa rappresentazione però, databile al 1700, fornisce un canone estetico della Madonna totalmente ribaltato, con una corona bombata e con un manto arricchito di decori, questi sì che rimandano alla prima colorazione del nota Madonna di Trapani oggi in parte scomparsa, ma che è lontano e non coerente per posizione, visto che risulta invertita nel braccio che sorregge il bambino.
Anche questa rappresentazione da classificare come esercizio personale, lontano da una Madonna riferibile a quella di Capo d’Orlando.
Passando alla scultura, il linguaggio muta, assume la spazialità del materiale a tutto tondo, riporta la connotazione di un esercizio coerente con i bottegai trapanesi.
La presenza di piccole statue che derivano dalla Madonna di Trapani, si può rilevare anche in alcuni paesi dei Nebrodi come Alcara Li fusi (Museo di Arte Sacra), che vede la presenza di un piccolo simulacro senza corone, bianca e di alabastro o, come quella di Tortorici, dove una piccola Madonna risulta spezzata nella parte inferiore, senza corone e realizzata in marmo bianco.
A Capo d’Orlando, presso la villa Piccolo di Calanovella, abbiamo la presenza di ben due statuette, una è realizzata in un materiale nobile per l’epoca e abbastanza costoso, la cosiddetta lacca siciliana, di presumibile forgia del XVII secolo.
Lega questo luogo alla devozione per la Madonna di Capo d’Orlando un avo dei Piccolo, Antonino, prefetto della terra d’Orlando, che beneficiò di una primissima intercessione del simulacro appena apparso, quando guarì gli ultimi figli rimasti prossimi a morire per febbre.
Risulta documentata nel 1825, presso la villa, nel salone di rappresentanza, una cappella dedicata a Maria SS. di Capo d’Orlando, ricavata nello spessore murario dell’edificio ed oggi non più esistente.
Tale statua per le dimensioni e la datazione, potrebbe essere stata coeva al simulacro di Maria SS. di Capo d’Orlando.
Ad una attenta analisi stilistica e di raffronto con quella trapanese si notano alcune incongruenze, la testa della madre risulta essere in asse con il resto del corpo, quindi lo sguardo non è rivolto verso il figliuolo, ma direttamente verso il fedele.
Coerente il bambino che guarda la madre, ma rimarca una certa distanza affettiva, lontana dell’originale trapanese, rimanendo coerente solo nel contatto tra le mani, perdendo così quella complicità tra madre e figlio.
Tutta la composizione, rimanda all’idea di una replica trapanese, di derivazione, vicina per dimensioni alla copia che si venerava a Capo d’Orlando, rimarcando solo notevoli somiglianze nella composizione delle pieghe delle vesti.
Certo, alcune differenze sono da addebitarsi all’artigiano, che non replica fedelmente, tanto che ciò rende unico ogni pezzo prodotto.
Spicca ancora come nota stonata la corona della Madonna, che sembra, visto alcune lacune nell’aderenza in testa, aver subito una sostituzione, forse in conseguenza del cambio operato dopo il 1734.
L’altra statuina presente a Villa Piccolo è in alabastro e senza corone, molto piccola, circa 12 cm, il cui uso fa propendere più verso la devozione da camera, risultando significativa solo per il materiale con cui venne fabbricata, l’alabastro, essendo totalmente trasparente alla luce.
Nella sequenza scultorea presa in considerazione e ritornando alla chiesa del monte di Capo d’Orlando, riveste una particolare importanza la statua collocata nella trifora in alto, sopra l’altare di San Cono, che alla luce delle ultime ricerche, condotte dalla nostra sede di SiciliAntica Capo d’Orlando e già pubblicate in un articolo del nostro blog, assume una nuova connotazione.
Detta statua è stata sempre ritenuta un “dono” da parte di un cittadino di Naso nei confronti della chiesa di Capo d’Orlando e considerata come opera realizzata poco dopo la scomparsa dell’originale.
In realtà, grazie ad una memoria scritta da Basilio Conforto, ritrovata durante le ricerche sulla documentazione dell’Autonomia del Comune di Capo d’Orlando, retrodata in maniera significativa la sua realizzazione.
La statua fu realizzata da Francesco Tendiglia di Domenico per suo voto particolare nel 1895, e cioè quando ancora nella chiesa del monte esisteva l’originale statuina lasciata da San Cono.
Ed è sempre il Conforto a riportare che forse “non era prudente esporla alla pubblica venerazione sotto lo stesso titolo, che sin dal 1598 si venera la Madonna di Capo d’Orlando” così, per logica, essendoci già una statua che rispondeva al detto culto, si preferì chiamarla della “Provvidenza”.
Questa informazione apre una serie di considerazioni che fanno propendere verso l’idea di trovarci di fronte all’unica copia, tratta dall’originale lasciato nel 1598 e di cui non esistono né immagini, né riproduzioni.
Potendola raffrontare con l’originale presente a Trapani, la nostra Madonna, alta oltre un metro e in legno, sembra più avvicinarsi per alcuni elementi decorativi all’Incredulità di San Tommaso a Naso, specialmente nella base, dove i piedi, come in quella ritratta, poggiano su una nuvola in cui si nota la presenza di tre teste d’angelo, i cherubini, che la sorreggono. L’elemento più importante, la testa, è rivolta verso l’asse centrale della composizione a differenza dell’originale.
Approfondendo, anche il bambino assume altra posa, volge lo sguardo verso la madre, ma non lo incrocia, mantiene solo il contatto con le mani, che si protendono verso il viso, quasi a cercare di toccarlo.
Il panneggio della veste vede altresì, lo spostamento della piega della tunica sotto il bambino in asse con la statua, mentre nella statua trapanese, la stessa è spostata più verso destra per chi guarda.
Cominciano per così dire a venir fuori incongruenze realizzative, che forniscono due soluzioni: la prima è che la cosiddetta replica della Madonna di Trapani, non fosse così fedele all’originale, la seconda, è che chi realizzò la statua in legno al monte, non tenne conto dell’originale orlandino, ma si affidò a modelli presenti in loco.
A questo punto, per chiudere la nostra panoramica, risulta doveroso confrontarla con l’attuale statuina in bronzo-argento venerata sul monte, ultimo passaggio a noi noto e che ce la consegna come probabile replica.
Dopo il dicembre del 1925, si rilevò la necessità di poter disporre di una statuetta che sostituisse l’originale.
Tale opera aveva il carattere dell’urgenza per l’approssimarsi della festa del 21-22 ottobre 1926.
Per la sua realizzazione fu interessato il prof. Antonino Ugo, noto artista e cattedratico palermitano, socio onorario dell’Accademia di Belle Arti palermitana, nella quale dal 1924 al 1936 tenne la cattedra di plastica della figura, a lui venne chiesto di replicare la statua presente al monte.
Constatato che risultò impossibile reperire foto o disegni che ritraessero la Madonnina di Capo d’Orlando, si guardò con rinnovato interesse alla statua donata dal “Tendiglia”, proponendola come unico modello per replicare nelle esatte misure del palmo siciliano la nuova statua.
Osservando infatti le due ultime opere, si nota come il professore si limitò a riportare in scala gli elementi stilistici, mutando solo la natura del materiale, passando al bronzo e limitandosi ad un bagno d’argento per impreziosire il simulacro.
Lo stesso trattamento non fu replicato nelle altre due copie realizzate, che mantennero nel bronzo la loro composizione.
L’elemento di contatto delle due statue “orlandine” e quella di Trapani, diventa il modello della corona, che replica quella post 1734, allontanandosi dall’iconografia del primo modello, rimanendo così il solo elemento di disturbo o incongruente, visto che il modello arrivato a Capo d’Orlando si data al 1598.
Per completezza d’informazione, dobbiamo dire che su nostra interlocuzione con la fondazione Antonino Ugo, l’opera risultava sconosciuta, ed è stata identificata grazie alle foto della firma, che il professore vi incise sul retro, entrando a pieno merito nell’elenco delle sue opere, unico vero valore aggiunto.
A differenza degli altri artisti, non assistiamo a cambi di stile o a personalizzazioni, ma al solo replicare qualcosa di già noto, se lo stesso modus operandi, fosse stato utilizzato da uno solo degli artisti che dal 1598 al 1925 ebbero modo di rappresentarla, avremmo avuto contezza del mirabile dono lasciatoci dall’esimio cittadino di Naso San Cono, potendo noi stessi confrontare la statuina con la sua più probabile modella, la Madonna di Trapani.
Anche a quest’ultima si ispirano quasi tutti i “santini” a cominciare dalla fine del 1800.
Nella collezione privata di Aldo Cumia, abbiamo rintracciato il primo “santino” di cui si ha contezza, del tipo conservato in un quadretto affisso al lato destro della navata che ospita l’altare principale, è chiaramente un utilizzo dell’immagine classica della Madonna di Trapani con la seguente didascalia: “Maria SS. di Capo d’Orlando che si venera nella Marina di Naso (Sicilia)“.
L’elemento che ci consente di affermare con certezza ciò è la presenza di un paio di chiavi che scendono dal braccio destro del simulacro, che non potevano già essere sulla nostra madonnina seicentesca, perchè presenti successivamente a partire dal 1718.
In quell’anno a Trapani, “a causa della cessione della Sicilia a Vittorio Amedeo II, durante la resistenza delle truppe spagnole che non volevano abbandonare la città, il comandante della piazzaforte di Trapani, Conte Campioni, invocò la protezione di Maria portandone la statua in città e sconfitte le forze nemiche, donò alla venerata icona le chiavi d’oro“.
In assenza di una immagine reale del simulacro, i tipografi basarono anche la successiva produzione di “immaginette”, sulla riproduzione di altre madonne con bambino più o meno simili a quella di Trapani, limitandosi ad inserire la didascalia “Maria SS. di Capo d’Orlando“.

(Tutte le immaginette provengono dalla collezione privata di Aldo Cumia – Naso)
Bibliografia
- Novara L. “La pietra incarnata di Valderice nella scultura trapanese” abstract;
- Scuderi V. “La Madonna di Trapani e il suo santuario” Ed. Santuario di Trapani 2011;
- Il Culto della Madonna di Trapani (tratto dal giornale “Il Faro” del 15/09/1992);
- Di Natale M. “Cammini mariani per i tesori di Sicilia” – Parte I, Parte II;
- Incudine C. “Naso Illustrata” Giuffrè Editore, ristampa anastatica;
- Jons D. “I Templari” Hoepli Editore;
- Enciclopedia dell’ Arte Medievale (1997) voce “Nino Pisano”
- AA.VV “Naso, terra grande, ricca ed antica” Alinea Editrice 2012;
- Franchina S. “Giuseppe Tomasi da Tortorici” Ediz. Spes-Milazzo 1983;
- Portale A., “La città di Naso in Sicilia e il suo illustre figlio S.Cono Abate”, Bellotti Ed., Palermo 1938;
- Muccione G., “Vita di S. Cono”, (primi del 1600), Biblioteca Regionale di Palermo, Cd-Multimediale “Enciclopedia Nasitana”, C. Calcerano – G. Maneri, 2008;
- Da Wikipedia, l’enciclopedia libera, voce “Antonino Ugo;
- Associazione Antonino Ugo, “La vita e le opere” testo consultato dalla homepage dell’associazione;
- Scultura Gotica, Enciclopedia dell’Arte, Istituto Geografico De Agostini
- Biliardo A. “Scultura, Pittura, arti decorative a Naso, dal XV al XIX secolo”, ed. Pro Loco Città di Naso 1990
- Scienza et Religio, “Studies in memory of Fr George Aquilina OFM (1939 – 2012) Scholar, Archivist and Framciscan Friar” – A Wignacourt Museum Pubblication edited by Mgr John Azzopardi – Malta 2014
- Beppino Tartaro, “Venticinque volte Maria”, Cronologia e curiosità dei trasporti storici di Maria SS. di Trapani 2007 (Notizie tratte da Mario Serraino “Trapani nella vita civile e religiosa“
Dove Non diversamente indicato, le foto sono di Antonino Ravì Monaca.