Il rito del “Muzzuni” ad Alcara Li Fusi, omaggio alla Grande Madre nel Solstizio d’Estate
di Giuseppe Ingrillì
Non è dato sapere quando ad Alcara Li Fusi le donne incominciano a preparare l’occorrente per il rito del “muzzuni”. E’ certo però che tutto deve essere pronto segretamente per le ore notturne del 24 giugno, mentre per le ore di luce della stessa giornata, l’attenzione degli altri abitanti del centro sarà rivolta alla chiesa e alla celebrazione del S. Giovanni Battista.
Il rito segreto che si manifesterà di notte è scandito da momenti precisi: si incomincerà parecchi giorni prima con la scelta delle donne del quartiere che si dedicheranno al “muzzuni”, poi si passerà alla semina del grano nei “lavuri” (solo le donne al riparo da occhi indiscreti lo faranno), poi verrà scelto il luogo più adatto all’interno del quartiere, il recinto sacro, dove allestire l’altarino per esporre il simbolo del “muzzuni” e così propiziare il rito e infine, pochi momenti prima dell’imbrunire, verrà scelto il “lavuri” che diventerà “muzzuni”.
La celebrazione di S. Giovanni Battista, che avrà nel pomeriggio del 24 giugno il suo punto massimo di devozione, con la processione per le vie del paese, passerà vicino agli altari addobbati di bianco, a devozione verso il santo – ma la processione non interferirà né si farà interferire dall’altro rituale che ha già preso forma nei segreti ambiti alcaresi.
La fine della rappresentazione cristiana sancisce così l’inizio del rito, quello pagano, già prefigurato nella duale sacralità della giornata. Gli altarini saranno riaddobbati, i veli bianchi sostituiti con le “pizzare” (tappeti tessuti con antichi telai a piedi) i “laureddi” posti ai piedi dell’altarino con le spighe germogliate al buio e quindi ci si approssimerà al momento più solenne in cui le donne rientreranno in casa per preparare il “muzzuni”.
Rito antico che viene scandito da tempo immemore in sequenze precise e tramandate da madre in figlia: il collo della brocca mozzata ospiterà gli steli di grano e di orzo con i fiori di garofano, poi la seta avvolgerà la brocca, gli ori l’abbelliranno e, infine, a perpetuare il passaggio del rito alla generazione successiva, una giovinetta avrà il compito di collocare al centro dell’altarino il “muzzuni”.
Per tutta la notte un pellegrinaggio continuo, una moltitudine di persone compirà il rito della ricerca e visita dei sacri recinti, intercettando qua e là piccole orchestre di cantori, che suoneranno musiche tradizionali accompagnati da quanti vorranno ballare o da chi si soffermerà ad ascoltare le nenie e i canti: non è inconsueto ascoltare donne anziane che intoneranno canti mentre controlleranno il recinto sacro. Il visitatore renderà così omaggio all’anima pagana della notte di Alcara Li Fusi alle donne sciamane, vere regine della notte.
E’ possibile, oggi, sulla base delle informazioni che abbiamo, andare alla radice del rito del “muzzuni” di Alcara Li Fusi per comprenderne il suo ambito generativo?
E’ possibile, oggi, ripercorrerne la ritualità e comprendere in chiave antropologica la sua genesi?
Sono queste le domande che ogni anno, nell’approssimarsi della ritualità del 24 giugno si sentono ripetere da chi affronta e si confronta con la cosiddetta “festa del muzzuni”, riconosciuta come la più antica festa pagana d’Italia che si svolge nel messinese, ad Alcara Li Fusi.
Il 24 giugno nelle balze del Val Demone si assiste alla rappresentazione più misterica, che sia sopravvissuta all’incedere delle epoche in queste terre.
Alcara Li Fusi compare nella storia della Sicilia con questa identità rituale, che nasconde all’uomo parte della sua genesi e provenienza, essendosi formata in epoche remote, figlia di una civiltà protostorica che affonda le sue radici nella tradizione umana di questo lembo di terra.
Quel che ci arriva oggi è l’immagine rituale di una gens agricola, cresciuta nell’alternarsi del ciclo delle stagioni e che da esse traeva quella religiosità che ritroviamo oggi, tale e quale, nell’essenza del rito del “muzzuni”. Percorso spirituale che si contamina nel corso dei secoli solo nell’aspetto esteriore della mutazione del simbolo, mantenendo celato nel profondo la maternità della generazione.
Una dualità leggibile, una simbologica arcaicità nebrodense e che grazie al solo sovrapporsi di continue nuove religiosità arriverà fino a noi, tanto da considerarla mutata solo nell’esteriorità (essoterismo), ma immutata nel suo significato intrinseco (esoterismo). Chi ne ha tentato l’interpretazione, ha mantenuto lo status quo della tradizione, approfondendone la teologia attraverso una semplice compartimentazione in sicure camere stagne, ed evidenziandone nelle singole parti contaminanti i passaggi nella storia, mantenendo un aspetto superficiale e tralasciando l’approfondimento sino al cuore del rito.
Il rischio in cui si incorre oggi, è che la “festa”, nel tentativo di recuperarne la memoria perduta o i vuoti interpretativi, venga saturata con la presenza di riproduzioni di moderne vestali o di emule Diane, coreografate da olimpiche rappresentazioni a guisa di richiami ad influssi magici o di una mistica da sabba notturno, proponendo un’alterazione in chiave commerciale per la collettività, confondendo e perdendo così l’antico evento.
Ad Alcara Li Fusi il 24 giugno prende vita la rappresentazione di una tradizione di un territorio, il Val Demone, che si è sempre riconosciuto per essere un luogo ameno, selvaggio, introverso, boscoso e popolato da gente con una spiccata anima rurale e radicata nell’idea onirica di benevole presenze ancestrali, che diventano viva spiritualità attraversante boschi e valli inaccessibili. Percorsi che diventano strade di transumanza, canali di pellegrinaggio, vie d’interazione, dove incanalare l’anima mundi di questi luoghi. Il bosco diventa la Madre che accoglie e sostenta i suoi figli; tutto questo però dà vita ad una religiosità marcatamente femminile, preponderante, matrifocale.
Nell’interpretazione del rito possiamo pensare, sulla scorta dell’esperienza storico-archeologica dell’Isola, che il culto potrebbe essersi originato nella Sicilia eneolitica, nella cosiddetta cultura di San Cono-Piano Notaro, metà del IV millennio a. C., in quella società semplice di cacciatori-raccoglitori, in cui l’organizzazione dei ruoli attribuisce alla donna il ruolo focale e di sovrintendente alla religiosità, identificandola nell’elemento generativo di Grande Madre. Ritorna utile ricordare le famose “Veneri” di Busoné, due ciottoli, modellati nella forma di corpo femminile nudo e ritrovate in tombe a grotticelle a Raffadali (Ag) e che ancor oggi, all’occhio dell’uomo moderno, appaiono come antiche rappresentazioni falliche, appannaggio di quell’interpretazione maschilista successiva alla cultura greca.
Si assiste così ad un monoteismo femminile che vede nella figura della donna la forza cosmica generativa e misteriosa della continuità naturale. Ad un livello interpretativo più permeante, possiamo considerare il “muzzuni” come l’elemento che genera e rappresenta, nel triplice percorso vitale scandito nel ciclo di morte e resurrezione, la Grande Madre, che nella simbologia abbraccia il ciclo del grano nel suo nascere e germogliare, nell’essere cibo e sostentamento attraverso l’atto del nutrire e nell’aspetto della rinascita quando viene riconsegnato alle profondità della terra.
Il “muzzuni” diventa così la presenza della dea, che assume la caratteristica di lume tutelare del focolare, ponendo sotto la sua influenza l’intera buona riuscita della vita. Questo è il motivo per cui assistiamo ad Alcara Li Fusi ad un proliferare e moltiplicarsi in diverse zone dell’abitato di più “muzzuni”, senso questo di un rito allora personale e oggi diventato collettivo. Il suo manifestarlo durante la notte, sotto il dominio lunare, che simboleggia il rito naturale delle messi, con la morte e la rinascita del seme, da sempre appannaggio di un rito tipicamente femminile, connota ancor di più l’arcaicità di una cultura antica votata alla Grande Madre. Altra traccia è l’ambito in cui si esprime il culto, sulle rupi, nei boschi e con la fondamentale presenza di corsi d’acqua, luoghi tellurici dove si avvertiva e manifestava la presenza della Grande Madre nel suo santuario naturale.
La mutazione nello spirito dell’elemento del rito, nel corso dell’incedere della storia, pone un sovrapporsi di religiosità all’antico culto da parte di quello nuovo ad opera di popolazioni greche, facendo sì che si assista ad una prima mutazione esteriore, con l’assimilazione totemica della funzione del “muzzuni”, mantenendo nascosto solo il ruolo della donna. Nessun Ierofante, inteso come figura maschile, invocherà dei o offrirà sacrifici agli spiriti dei luoghi – qui l’elemento essenziale del rito resterà sempre la presenza della donna “demiurgo”. La sua capacità ieratica resterà immutata e centrale, permettendo la manifestazione del sacro nella rappresentazione della brocca mozzata, generandosi nell’anima del rito. Lo spirito simbolico dell’elemento “muzzuni” si sdoppia, mutando da rappresentazione della Dea a rappresentazione del bètilo-fallico, elevato nel suo turgore e tagliato in forza, per trarne il seme fertilizzante che ingraviderà la Madre Terra.
Questo sovrapporsi, trasforma la considerazione dell’aspetto “muzzuni”, che rappresenta l’elemento centrale fatto e finito, epifania del sacro, che ha il suo culmine nel rito con la sua esteriorizzazione a prova manifesta e tangibile dell’avvenuta magia.
Il vero rito, rimane però sempre nel cuore segreto del focolare, nella ideale caverna, il luogo conosciuto solo dalle donne, che esprime l’ “imago mundi” per diventare “imago hominis” il suo centro generativo, dove tutto prende avvio e che trasforma la donna in Grande Madre ricettiva e creatrice. Sarà solo lei a plasmare con le sue mani il “muzzuni”, permettendo nel segreto l’atto fecondante. Cambia il linguaggio simbolico nel tempo: adesso l’esposizione al pubblico sancisce l’avvenuta trasformazione del “muzzuni” da simbolo della Dea a forza manifesta, fallica garanzia dell’avvenuta sacra unione che porterà prosperità al raccolto e prosecuzione della vita.
Si legge quindi una dualità spirituale nel rito, una parte attribuibile al “muzzuni” a vista e una non manifesta, la Madre, che qui diventa segreta Virgo paritura, rappresentando la terra scura prima della sua fecondazione, mascherandone così l’elemento segreto e lasciando solo l’esteriorità dell’oggetto.
Il compagno della Grande Dea, diventa ora il protagonista delle nozze sacre. Acclarato che la prima assume il ruolo di coppa della vita naturale, gli antichi rappresentavano nell’elemento fallo/muzzuni, il simbolo della società agricola, il toro. Questi diveniva il cuneo che permetteva all’uomo contadino di poter arare il terreno creando le condizioni per l’ingravidamento e generare continuità. Il corno stesso o le corna, assumono il ruolo di ierofania della Grande Madre, con il toro simboleggiante l’unica potenza terrestre conosciuta dall’uomo primitivo, l’unica potenza in grado di entrare in comunione con il divino, nella successione corno-fallo- muzzuni.
L’oggetto diventa elemento essenziale nel rito, da attenzionare ed abbellire, amplificandone la funzione apotropaica e curandone sempre più gli aspetti esteriori, divenendo la figura dominante, riconoscibile e centrale, in quanto il fallo è l’unico elemento universalmente riconosciuto da tutte le culture che si sovrappongono e ne preservano la continuità.
Questo accade anche quando l’elemento grano muta la sua funzione simbolica e viene assimilato alla triade Demetra-Kore-Dioniso, che trasforma il rapporto del rito e del suo simbolismo. Demetra assume il ruolo prosecutivo di Grande Madre o Madre dispensatrice, per poi diventare sorella di Zeus e dea del grano e dell’agricoltura, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte. Questo culto è transitato da una cultura neolitica verso il culto degli dei olimpici, dove avviene ancor di più approfondita e configurata la sua mitologia e la sua caratterizzazione in culto misterico.
La presenza della spiga di grano, in un territorio prevalentemente boscoso e poco propenso alla cerealicoltura, trova la sua espressione come elemento caratteristico a simbolo di Demetra, rappresentandone la rinascita e il ritorno alla vita dopo il torpore invernale e comparandolo così al primitivo messaggio. Avviene anche nell’assimilazione a Dioniso, che riconosce al “muzzuni” la sua funzione sessuale, a rappresentazione della potenza generativa, quasi a rappresentare un “tirso” (bastone usato dai baccanti e dalle baccanti, ornato di edera e pampini, recante in cima una pigna, come la bacchetta magica che rimanda al sacerdote-1). Ma nulla di più è comparabile alla parte più manifesta riferibile al culto dionisiaco: ad Alcara non si palesa alcuna processione rituale, nessun riferimento all’elemento principe del rito, il vino e la carne, che completano la teofagia di Dioniso, nessuna pelle di cerbiatto, nessuno strumento musicale. In piena epoca romana tale manifestazione, avrebbe comunque infranto il famoso editto del “Senatus consultum de Bacchanalibus” (provvedimento legislativo che vietava i riti orgiastici), con conseguenze pesanti e con la necessità quindi di mitigazione con l’esclusione di ritualità sfrenate e con una trasformazione in funzione di questo. La presenza dell’oro, come simbolo di regalità, illusoria rappresentazione di un culto solare vicino ad Apollo, distrae e confonde, perché in esso si legge oggi il solo simbolismo solare, maschile, esposto alle influenze celesti dei raggi lunari femminili, che nella notte del Solstizio equilibra e favorisce l’accoppiamento divino.
In questo suo configurarsi non possiamo considerare Apollo come l’elemento sacrale sempre presente nel rito, tanto più che il colore della spiga di grano e l’orzo, manifestano già l’oro della terra a cui verrà sovrapposto in tempi non tanto antichi il simbolismo dell’oro, la ricchezza e l’abbondanza rituale postuma, ulteriore contaminazione o stratificazione del rito.
L’aver posto tutta la ritualità, quale rappresentazione del momento più magico dell’anno, sotto il Solstizio d’Estate, la dice lunga sulla profonda interazione delle popolazioni nebrodensi con la volontà di festeggiare un atto che si compie nella ciclicità delle stagioni. Questo avvicina i popoli abitanti delle balze alcaresi ad una dimensione rurale, connessa alla natura, diventando facile preda in tutte le successive espressioni religiose e terminando agli albori della cristianità il percorso, con il corrispondente San Giovanni Battista. Il “muzzuni” decollato adesso muta il suo essere, e trova ragione nelle ore diurne come rappresentazione del martirio del santo, tanto che, per armonizzarne la data sul calendario cristiano viene pospota al 24 giugno, completandone l’evoluzione e giungendo così fino a noi.
Appare logico, leggere nei singoli elementi che arricchiscono il “muzzuni” quella stratificazione storica che ne permette di determinare le matrici evolutive, gli aggiustamenti, grazie soprattutto alle stratificazioni rituali e agli influssi di popolazioni successive che l’hanno arricchito, contaminato, ma, allo stesso tempo, distratto dalla sua originale ritualità.
Nessun reperto archeologico è mai stato trovato, nessuna traccia che avvalori un percorso umano stanziale in questa valle. Tutto lascia in noi la sensazione di essere in presenza di un bosco sacro, dove riunire quelle popolazioni che in periodi dell’anno altamente significativi, come quello del Solstizio d’Estate, frequentavano questi luoghi. Nessun centro come Eleusi, purtroppo, influenzerà la storia di Alcara Li Fusi, nessun Telesterion, o naòs sacro farà da sfondo rituale agli iniziati al culto di Demetra. Tutto questo è la conferma che, spogliato il rito dalle sovrastrutture storiche, rimane solo lei la Grande Madre-muzzuni, l’uno in tutto, da cui tutto si origina, la monade femminile, a rappresentare quello che nella storia antica dei luoghi ha rappresentato la ritualità intesa come momento sacrale e simbolico, necessario a proseguire il ciclo della natura, unica garanzia di vita.
Ancora oggi ad Alcara Li Fusi, nel Solstizio d’Estate si rende omaggio e si venera la Grande Madre nell’ultima dimora sacra di Sicilia.
Note
1-Vedi brano già pubblicato in storie di Manfredi-Gigliotti Michele, “Il culto Dionisiaco”
Bibliografia
M. Agostini- “Nel nome della Dea” Tipheret
F. Ingrillì- “Mangiare e bere Dioniso” Chora Nebròdes
B. Parodi- “Architetture, miti e misteri” Erasmo Editore
I. Buttitta-“Il Fuoco, simbolismo e pratiche rituali” Sellerio Editore
J. Evola-“La Tradizione Ermetica” Edizioni Mediterranee
Fulcanelli-“Il mistero delle cattedrali”
(Le foto sono di Nino Ravì)