Il simbolismo ermetico della sirena bicaudata sui Nebrodi.
Dalla via dell’acqua alle parole di pietra
di Giuseppe Ingrillì
Nelle terre del Val Demone, popolate nell’immaginario da sileni e satiri danzanti pervasi dalla magia del Nébros, si aggira una figura mitologica, signora delle acque marine, avulsa dall’ambiente che la circonda.
Una creatura che ammalia e ghermisce e che in questi luoghi ha trovato dimora come letale tentatrice e muta minaccia sulle vie sicure degli uomini, pronta a spalancare i mondi dannati e tormentati dell’invisibile.
In letteratura il primo a scrivere di queste creature è stato Omero, che nel canto XII dell’Odissea, con le parole della maga Circe che mette in guardia Ulisse sul loro suadente e mortifero canto, così le presenta:
“Per prima cosa incontrerai le Sirene, che incantano tutti gli uomini che si avvicinano a loro.
Chiunque, senza saperlo, approda alla terra delle Sirene e ascolta la loro voce non tornerà più a casa: la moglie e i piccoli figli non potranno stargli accanto, perché le Sirene lo incantano con la loro voce melodiosa.
Sono appostate su un prato, accanto a loro c’è un mucchio di ossa di uomini in putrefazione; intorno alle ossa, la pelle si decompone.
Tu tieniti lontano, riempi di morbida cera le orecchie dei tuoi compagni, perché nessuno possa ascoltare la loro voce.
Se tu, invece, vorrai ascoltarle fatti legare le mani e i piedi sulla nave veloce: fermo e legato da corde alla base dell’albero potrai ascoltare il canto delle Sirene e goderne; se tu ordinerai ai tuoi compagni di scioglierti, quelli dovranno stringerti con nodi ancora più forti.”
Ulisse di ritorno dalla guerra di Troia, nonostante il monito di Circe, era bramoso di saggiare la sua forza di volontà con la potenza incantatrice di queste creature e decise di sfidarle facendosi legare all’albero della nave e sigillando con la cera le orecchie dei suoi compagni.
Omero non descriverà le sirene, non si soffermerà sulla loro bellezza fisica, non le assocerà all’attrazione sessuale ingannatrice, ma ne esalterà il potere più letale, la capacità d’incantare.
Questa è l’arma per allucinare l’uomo, per spingerlo tra le loro braccia, con una tessitura melodica, ipnotica e attrattiva, che avvinghia come corda invisibile, questa è l’arte dell’inganno, perché sfrutta il grande potere della parola.
La strategia delle sirene sta nel tessere la tela nell’invisibile, celarsi alla vista e ottenebrare nell’uomo le sue facoltà cognitive, tanto da renderlo in-cosciente e in-capace di comprendere la fine imminente a cui è destinato, non percependo per tempo la minaccia.
(fig. 1) Le sirene non si trovano su uno scoglio in mezzo al mare come si crede, ma su un’isola e nell’immaginario del tempo sono notevolmente diverse da come ce le aspettiamo, simili ad uccelli, hanno ali e zampe artigliate, stanno in cima alle rupi pronte a piombare dall’alto per tendere agguati mortali.
Nella mitologia greca erano le figlie nate dall’unione tra Acheloo divinità dei fiumi e della musa Tersicore o Melpomene, in un’altra versione nacquero dalle gocce di sangue scaturite da una ferita durante un combattimento con Eracle e quindi chiamate Acheloides.
Simili alle Arpie, più vicine al mondo dell’aria che a quello dell’acqua, utilizzato solo come territorio di caccia, la caratteristica che accomuna la donna-uccello e la donna-pesce è il canto: ammaliatore, seducente e ipnotico.
In realtà a questa forma i greci (fig. 2) vi erano arrivati dopo aver assimilato dalla religione egizia il modo di rappresentare l’anima nel momento del trapasso dopo la morte, conferendo queste fattezze all’essere etereo che si libra dal corpo materiale.
In realtà anche la cultura egizia, da cui sembra derivare, era in qualche modo giunta a una sintesi, dopo essere entrata in contatto con una ritualità complessa come quella assiro-babilonese che, a sua volta, nelle raffigurazioni rimandava ad un culto ancora più antico, quello della Grande Madre.
Il simbolo della sirena diverrà così una sintesi mutuata in un grande archetipo dell’immaginario occidentale, che si evolverà e adatterà di pari passo al succedersi della varie epoche storiche.
Agli occhi dei greci la sirena raggiunge una morfosi ben definita, tanto che in una sua rappresentazione, giunta a noi attraverso un frammento pittorico di un vaso greco del VI secolo. a. C., si legge (fig.3), “Io sono sirena”.
Tutta la letteratura successiva sarà attraversata dal mito delle sirene, tutti si confronteranno con l’argomento, Aristotele, Plinio, Ovidio, Igino.
Attraverso il Fisiologo, manuale redatto tra il I – II sec. d. C., ad Alessandria d’Egitto, espressione dello gnosticismo alessandrino, l’ignoto autore cercherà di definire quest’ambiente deviato nell’abominio, includendola nella descrizione simbolica di animali e piante, sia reali che immaginari, presentati in chiave allegorica attraverso alcune citazioni delle Sacre scritture. Questo testo sarà fonte d’ispirazione per i successivi bestiari medievali.
Con l’avvento del cristianesimo assistiamo ad una riscoperta e ad una nuova lettura, in chiave teologica e morale, dei passi dell’Odissea.
Non muterà tutto l’immaginario sulle sirene, resteranno ammaliatrici e mortifere, un monito per il cristiano non abbastanza sostenuto dalla sua fede.
Nel V secolo d. C., Sant’Ambrogio vescovo di Milano, si serve delle sirene d’Ulisse come simbolo di adulazione e lussuria, codificando in chiave teologica il tentativo di ostacolare il ritorno a casa di Odisseo, come una manovra delle sirene d’impedire all’anima di elevarsi al mondo spirituale, intrappolandola nella materia, un ostacolo al raggiungere il Regno dei Cieli.
Si fa strada nei Bestiari medievali, che raccolgono la varietà delle creature demoniache, un nuovo modo di rappresentarle che è un’evoluzione stilistica di quello greco.
Diventano portatrici di un messaggio teologico più complesso, dove l’ambiente acquatico è la rappresentazione di un mondo ignoto e inaccessibile, dimora di un male che inghiotte la luce, popolato da creature invisibili, intriso di suoni acuti e melliflui.
Il mare alimenta gli incubi di chi lo solca, l’ignoranza non riconosce quello che vede, la costrizione del credo spinge l’uomo del medioevo a definire male ciò che non si conosce.
Parallelamente a questo contesto, emergono dalle sabbie del tempo, nell’arte greca, etrusca e romana, figure complesse raffiguranti sirene, fauni e centauri, esseri per metà umani e per metà animali, che popolano sarcofagi, bui ipogei o amene località e sono figli di un paganesimo dimenticato che definiscono il pantheon demoniaco, un monito per spiegare di cosa è capace il male e cosa spetta a chi si allontana dalla parola di Dio.
L’uomo che si avvicina tra incertezze, violenza e paure all’anno mille è avvisato, la fine è vicina: memento mori.
Così, a suggellare questo percorso nella paura, nell’VIII secolo d. C., per la prima volta, in un bestiario (fig. 3 bis), il Liber monstrorum, si sublima potente un’immagine, l’autore muta il modo di rappresentare una sirena, la sviluppa complessa nel binomio della donna-pesce e così la descrive:
«Le sirene sono fanciulle marine che ingannano i naviganti con il loro bellissimo aspetto ed allettandoli col canto; e dal capo fino all’ombelico hanno corpo di vergine e sono in tutto simili alla specie umana; ma hanno squamose code di pesce che celano sempre nei gorghi» (I, VI).
Per l’autore le marinae puellae seducevano e ingannavano i marinai grazie alla loro bellezza e alla dolcezza del loro canto.
Mutando il messaggio partito da Omero, ora nel mare una malefica figura è capace di condurre alla perdizione, il suo corpo conturbante è un chiaro monito: diffida da tali creature.
A tale composizione l’autore sembra addivenire attraverso la lettura di Virgilio (fig. 4) e la sua descrizione di Scilla, mostro marino dalla coda di delfino.
Questo accostamento prende più corpo nel prosieguo del libro, quando, in un capitolo dedicato a Scilla, mette i due mostri a confronto.
La giustificazione è troppo semplicistica e non si può non considerare l’incredibile mole di raffigurazioni nelle varie epoche precedenti.
Con che promessa le sirene attirano Ulisse?
Qual è l’irresistibile dono che lo spinge ad abbandonare tutto e correre incontro alla morte.
Per Omero le sirene offrono ad Ulisse il dono più prezioso, la conoscenza di tutte le cose del mondo, incluso il proprio destino.
Ad Ulisse viene offerta la stessa cosa che ha spinto Eva a farsi tentare dal serpente, assaggiare la mela dall’albero della conoscenza.
Tutto il passo ha una lettura teologica comparabile alla cacciata dall’Eden, ancora una volta l’uomo dovrà resistere alle lusinghe della donna tentatrice e ingannatrice che, con un’azione spinta dal male, porterà entrambi a essere scacciati dal Paradiso, a vivere lontano dalla misericordia Dio e a vagare sulla terra.
Non c’è peggior peccato dell’ambire all’onniscienza di Dio, la sua cupidigia è manifesta agli occhi dei teologi e per quell’anima che vuole ergersi a dio le porte dell’infermo sono spalancate.
Nella sirena, la mezza nudità che rimanda all’Eden, serve ad attirare l’uomo, è l’immaginaria disponibilità a concedersi, la voluttà, mentre l’altra metà, la coda di pesce che rimane celata nell’acqua, è l’inganno.
Ora il “mostro” dispone della più potente arma, la sessualità, che Satana ha messo in campo per impadronirsi delle anime degli uomini medievali.
Questa cruda rappresentazione, rimanda alla presunta inferiorità della donna, che a sua volta rimanda all’inferiorità degli impulsi animaleschi, agli strati primordiali della vita.
Appagamento di un desiderio impossibile da realizzarsi, profonda causa di dolore per l’uomo, nel momento in cui prende coscienza della natura asessuata di queste creature.
Prima del X secolo si materializza, (fig. 5) nel timpano della chiesa di Saint Michelle d’Aiguilhe, una coppia di sirene armate e su quella di Saint-Beoit-sur-Loire viene rappresentata una sirena-uccello.
Anche nel (fig. 6-7) Bestiaire de Gervaise della fine del XII – inizi XIII secolo, la sirena ha già sviluppato fattezze demoniache e viene così descritta:
“La sirena è un pericolo del mare, è femmina al di sopra dell’ombelico e pesce al di sotto della vita. Canta tanto bene che nessuno si potrebbe mai saziare di udire quel dolce canto”.
Nell’iconografia dell’XI-XII secolo trova spazio la più brutale figura femminile che la mente umana medievale abbia potuto concepire.
Capitelli, portali, stipiti, lunette e formelle rappresentano la deviazione indotta dal male, riproducono le fattezze di una donna/pesce, con un’unica coda prima, per poi, con la degenerazione nel messaggio, arrivare alla doppia coda, offrendosi all’osservatore in tutta la sua potenza sessuale.
La sirena bicaudata si lega così all’arte romanica, la si coglie in quel linguaggio simbolico di mostri che popolano le facciate e l’interno delle chiese, perché il male bisogna conoscerlo, altrimenti si può cadere nel tranello.
Accanto alle rappresentazioni del nuovo e del vecchio testamento, trova posto anche l’immagine ammonitrice della sirena, che non danna ma previene.
Un simbolo che nella psicologia della chiesa, involve verso il basso, la doppia coda è un’adorazione rivolta agli inferi e non al cielo.
Improvvisamente al Cristo pescatore di uomini, il male contrappone una letale figura femminile, la sirena, che al contrario pesca anime da sottrarre alla luce di Dio, condannandole all’oscurità e all’Inferno.
La visione fantastica e allo stesso tempo mostruosa della sirena che minaccia gli uomini, la ritroviamo in Dante che la inserisce nel XIX canto del Purgatorio e non all’Inferno, quasi a voler mitigare la mezza natura umana, mantenendone la simbologia:
“‘Io son’, cantava, ‘io son dolce serena
che’ marinai in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’aùsa,
rado sen parte; sì tutto l’appago”
Questa metamorfosi che segue l’evoluzione del pensiero, ci rimanda a concetti simbolici oggi in parte persi e difficili da interpretare, linguaggi che mutano e perdono, nella rappresentazione, l’originale carico di negatività.
I Colonna nel XVI secolo la porranno in alto sul loro blasone, regina e “nume tutelare” che veglia sul casato, i Laviano al centro dello stemma e addirittura la famiglia De Sirono o De Sirenis, a metà del 1600 ad Asti, la evidenzia con orgoglio nell’araldica di famiglia.
Nella (fig. 8) Sirenetta di Anderson del 1837, il personaggio conserva ancora intatta la sua carica malefica, il racconto ha un finale oscuro e inquietante, diversamente da quello più fiabesco e rassicurante dell’adattamento Disney del 1989.
Ai giorni nostri, (fig. 9) la figura della sirena, diventa testimonial di Starbucks, con il suo logo impresso sui bicchieri.
Oggi è possibile ritrovare nelle nostre zone questo affascinante e enigmatico simbolo? Se sì, che cosa ci racconta, quale messaggio porta?
La Sicilia è terra pregna di mitologia greca, con una vasta stratificazione cultuale, ad esempio Omero fa toccare diverse località isolane al suo Ulisse di ritorno a Itaca, invece le tracce riconducibili a questa immaginifica creatura medievale, sono veramente poche.
La prima testimonianza in Sicilia è dell’arte Romanica (fig. 10) e la troviamo nel duomo di Monreale costruito tra il 1174 e il 1189.
All’interno del chiostro, sulle coppie di colonnine, sono presenti dei capitelli istoriati con scene bibliche e si trova anche la prima rappresentazione di sirena bicaudata.
L’intero complesso era amministrato dall’ordine benedettino, che non aveva nessun problema a ingaggiare maestranze provenienti al di fuori della Sicilia, per questo motivo la composizione artistica dei capitelli presenta motivi stilistici di derivazione provenzale.
Un’altra rappresentazione si trova nella Sicilia Orientale, precisamente a Randazzo, in provincia di Catania, confinante con il territorio nebroideo.
Nel campanile della chiesa di San Martino (fig. 11), precisamente nella bifora ad est, si trova quasi nascosta, una raffigurazione di sirena.
La composizione della cella campanaria è in stile arabo normanno, la rappresentazione è semplificata, non siamo davanti ad una sirena ben definita e complessa, ma piuttosto ad una raffigurazione primitiva ed essenziale, in linea con quelle presenti nel nord Italia.
Non sappiamo se la poca definizione del soggetto è per la sua posizione, un capitello d’angolo della bifora, o perché collocata in un luogo poco trafficato con il solo scopo decorativo, ma la sua presenza è significativa.
In questa versione non è presente la seconda coda, ma è rappresentata insieme ad un pesce.
Poi, improvvisamente, in questa ricognizione di sirene medievali, accade che dopo un lungo e attento restauro si restituisce a tutta la collettività di San Salvatore di Fitalia una chiesa dedicata al Salvador Mundi (fig. 12).
La basilica maggiore, ampiamente rimaneggiata nel tardo Settecento, nasconde sotto una struttura ad archi a tutto sesto, un elegante colonnato di archi a sesto acuto.
Le possenti colonne in pietra sono sormontate da capitelli scolpiti, realizzati non solo a scopo decorativo ma con la chiara volontà di veicolare un messaggio, che per la simbologia utilizzata riporta all’ambito teologico (fig. 13).
La chiesa, che sorge all’ingresso del centro abitato su una delle vie di penetrazione, ha una stratificazione architettonica notevole, che oggi è possibile cogliere grazie alla sapiente ripulitura dalle sovrastrutture, consentendoci di poterne ricostruire la sua evoluzione nei vari periodi storici.
Colpisce la chiara sensazione di essere di fronte ad un unicum architettonico, un monumento d’estremo interesse per tutta l’architettura nebroidea e siciliana.
C’è una relazione spirituale con il territorio che la circonda, dal sagrato esterno con uno sguardo attento oltre la vallata formata dal Fitalia, questa struttura si lega alle absidi della prospiciente abbazia di San Filippo di Fragalà.
La presenza dei monaci benedettini ebbe un ruolo importante nel gestire e preservare, nella certezza di come tutta la sapienza scritta abbia fornito sapere agli uomini di questa terra.
All’interno della chiesa a tre navate del Salvador Mundi, si evolve un pensiero archetipale, che parla attraverso lo sviluppo di un linguaggio semplice, ispirato alla natura, senza tralasciare attraverso elementi sapientemente inseriti, un rimando a un simbolismo ermetico agli occhi dell’uomo moderno, una teologia di pietra si dipana in un percorso sensiale.
Non è più necessario istoriare capitelli con scene del vecchio e del nuovo testamento, il messaggio da veicolare ai fedeli si semplifica, consiste nella volontà di far diventare essenziale il segno, il logos si forma attraverso il simbolo.
La parola è il signum scolpito nella pietra, la chiesa ci si affida per svelare il cammino della redenzione sulla via che porta alla salvezza.
Dell’interno colpisce l’essenzialità delle forme, metafora della vita semplice, la materia dura del colonnato trasmette solidità a una chiesa che ne riverbera il potere, rafforzando ancor di più il messaggio biblico d’essere ben salda sulla roccia.
Nella cadenza dei dodici pilastri e dei relativi capitelli si sviluppa il messaggio di redenzione, dodici come gli apostoli, i mesi dell’anno o le coppie di costole di un uomo.
Il dodici nasconde l’unione della trinità, l’uno è Dio, che si somma al due, la dualità che costruisce il tre a sottintende la presenza del corpo, dello spirito e dell’anima.
Qui l’uomo nel suo addivenire ripercorre metaforicamente il giardino dell’eden, grazie alla presenza degli elementi floreali, il colonnato si sviluppa apparentemente in due vie.
Una prende avvio da sinistra, (fig. 14) simbolicamente con il primo capitello sul quale è rappresentata una palma, un glifo carico di significato per i cristiani.
C’è la volontà di rappresentare quello che nell’Antico testamento è il trionfo della fede in Cristo sulla morte e sui pagani, simboleggia l’entrata di Gesù in Gerusalemme.
Il primo punto è un’α che dà l’inizio a tutte le cose e nel suo sviluppo dirime una trama fatta di elementi vegetali e figure.
Nella seconda via che si origina nella navata destra, i motivi cambiano, il messaggio aumenta di complessità, compaiono scritte come “Hic arcs fieri fecerut pauperes” (fig. 15) o “Huc arcs fecit magister ioaes de patteri” (fig. 16) dalle quali si apprezza lo sforzo organizzativo e costruttivo di un cantiere medievale a cui partecipa tutta la comunità.
Nel suo sviluppo, questo colonnato rappresenta la via dell’acqua (fig. 17) perché popolato da creature marine.
Sono presenti due pesci che saltano all’unisono, forse per sfuggire a due tritoni squamosi (fig. 18), e due creature, forse delfini, (fig. 19) che saltano.
Su questa via, in un crescendo simbolico, arriviamo al penultimo pilastro, l’undicesimo, che presenta rivolto verso la navata centrale, una stella a otto punte, orientata verso un preciso punto con un forellino al centro (fig. 20), e sul capitello è scolpito il volto di un uomo con barba e turbante, che sembra rappresentare uno dei Re magi.
La rappresentazione della stella Polare o stella ad otto cuspidi, inscritta in otto segmenti che apparentemente non danno vita ad un ottagono, definisce un glifo la cui simbologia in ambito cristiano indica la via per raggiungere e adorare il Signore appena nato, è la cometa.
Questo segno ha accompagnato la storia dell’uomo caricandosi di molteplici significati, l’otto rappresenta la resurrezione di Gesù ma è anche un simbolo mariano.
Nell’incedere si arriva all’ultimo capitello e, finalmente, ad una maestosa, superba e provocante sirena bicaudata, con il seno prosperoso, il ventre rotondo tipico della gravidanza e due code magistralmente realizzate. (fig. 21).
Una rappresentazione plastica di forte impatto emotivo, un richiamo al visitatore che percorre le navate, una distrazione dalla via maestra, nessuna simbologia è più provocante, asfissiante, catalizzatrice di una lussuria che attraverso gli occhi riconduce alla materialità della donna.
E’ il pilastro che chiude la via, l’ω che pone l’uomo di fronte ad un bivio: scegliere prima dell’esaurirsi del suo ultimo alito di vita, tra il Paradiso guadagnato con la preghiera e le buone azioni, o cadere nell’abbraccio della tentazione lussuriosa, ultima apparente gioia ma che porta alla dannazione eterna dell’anima.
Niente è espresso con questa forza in tutta l’area dei Nebrodi, quella che riappare dopo un lungo oblio costituisce un unicum artistico, mitologico ed esoterico, che arriva a noi pregno del suo significato più profondo.
Per dare il senso dell’importanza di questa figura, dobbiamo rivolgere lo sguardo anche alle altre sirene presenti in Italia con caratteristiche simili.
Ad Ancona una coppia è presente dal 1210 sulla facciata della chiesa di Santa Maria della Piazza (fig. 22).
Le due sirene bicaudate sono poste in simmetria sul prospetto principale, l’unica differenza con il modello fitalese sta nel trattamento delle pance, che qui sono ricoperte di squame.
Un’iscrizione rimanda al Maestro Filippo, per alcuni un membro iniziato dei “Maestri Comacini” che percorrevano l’Europa per decorare chiese, per altri un abile artigiano al soldo dell’Ordine Templare.
A Brindisi la ritroviamo, rappresentata con il ventre gravido e la corona, su un palazzo nobiliare e ad Acerenza in provincia di Potenza, su una colonna della cripta nella cattedrale di Santa Maria Assunta.
Ritornando in chiesa, sembra di percepire una differenza nella pietra in cui è scolpita la figura, diversa dalle altre, (fig. 21) più scura e trattata rispetto all’arenaria chiara degli altri capitelli.
La figura è tridimensionale, esce dal piano d’imposta, le due code sono divaricate e trattate anche con colore, sono rappresentate le pinne dorsali e mancano purtroppo quelle caudali.
Le braccia tese, accoglienti, sembrano oggi un invito ad abbracciarla, ad avvicinarsi e a ricambiare la profusione d’affetto.
Le mani mancanti non compongono più il gesto tipico di sostenere le due code, perdendo così quell’equilibrio perfetto che la sirena simboleggia nell’attirare a se gli opposti, la via materiale e la via spirituale e mantenerli in tensione.
Il suo viso è dolce, la sua bellezza genuina, composta nell’armonia complessiva di uno sguardo con occhi ben bilanciati, zigomi pronunciati, due piccole labbra definite e serrate, un sorriso appena accennato, compiaciuto nel sapere d’aver attirato l’attenzione dell’uomo, segno che il provocante corpo abbia già fatto da catalizzatore sessuale.
I lineamenti sereni e rilassati, armonizzano una composizione che esprime fiducia in chi la guarda, sulla bella fronte spaziosa i capelli corti, a simboleggiare lo stato verginale, sono lisci, puliti e ordinati, le accarezzano la fronte e sulla testa ha una corona.
Si acquisisce consapevolezza di essere di fronte a una regina delle acque, la sua nobiltà è espressa in quella corona che la eleva tra tutte le altre, dal punto di vista spirituale è un simbolo d’illuminazione ed, al pari dell’aureola, esprime la capacità di comunicare con il mondo divino.
I gigli posti sulla corona sono i simboli ingannevoli della sua natura verginale per celare quella maligna.
Il volume del ventre si presta a diverse interpretazioni: non è mai sazia di uomini o insoddisfatta anche dopo essersi appena sfamata o gravida per chissà quale incesto demoniaco.
In un crescendo sensuale i suoi seni simmetrici sono sodi, turgidi, si distinguono capezzoli e areole, tutta la sua provocazione è esposta.
L’invito a dissetarsi con il latte materno, (fig. 23) ripresenta in chiave blasfema l’esperienza di San Bernardo da Chiaravalle, che fu nutrito con tre gocce del latte della Madonna, formandosi come Gesù nel corpo e nello spirito e manifestando in seguito il suo dono più acclamato il “saper palare bene”.
L’ombelico insieme ai capezzoli appartengono alla sua natura umana e congiungendosi rappresentano un triangolo con il vertice basso, simbolo dell’acqua.
Questa composizione ne rivela tutta la sua voluttà, differenziandosi dalle rappresentazioni romaniche che ne nascondono con squame e foglie il sesso, qui è la lussuria dell’uomo a generare un’immagine erotica.
Il committente palesa il suo messaggio: la sirena non è una donna completa, non può congiungersi carnalmente con l’uomo che la brama e questa insoddisfazione può portarlo all’autodistruzione.
La morale risultante espressa da questo simbolismo è che non bisogna fermarsi alle apparenze, la bellezza della metà umana è falsa, marcia, cela la sua natura demoniaca, condannando chi non indaga con gli occhi della fede ad essere vittima dell’inganno del male.
Non conosciamo l’autore del capitello e nemmeno se sia coevo agli altri, (fig. 24) la scritta “fuit inceptum hoc templum” e la data “1515”, scolpite nella pietra, sono riferibili ad interventi sulla chiesa.
Questo capitello è l’unico a presentare sulle foglie disegnate tracce di pittura, si distinguono i colori rosso e nero.
Da questa sirena muta il messaggio, perde tutte quelle peculiarità demoniache che l’avevano fino ad allora caratterizzata.
Adesso è depositaria di conoscenze più materiali, riconosciuta dagli uomini come guida fidata per ricondurli alle ricchezze perdute in fondo al mare, oppure rivelargli i segreti passaggi, tra i diversi mondi, che conducono a fonti capaci di garantirgli l’eterna giovinezza.
La filosofia che sottintende il simbolo si ammansisce e si inizia a cerca le tracce materiali della sua presenza, anche per i racconti dei marinai che con frequenti viaggi si spostano tra le due sponde dell’Atlantico, lo stesso Cristoforo Colombo riporta d’averla vista nel 1493 e così annota: “non sono belle nemmeno la metà di come le dipingono. I loro volti hanno tratti mascolini”.
I tratti iconografici del tipo di sirena raffigurata a San Salvatore di Fitalia, (fig. 25) sono simili a quella rappresentata nella marca tipografica di un libro stampato a Venezia nel 1549.
Il simbolo ha ribaltato la sua natura, tanto che a partire dal XVI secolo anche le navi cominciano ad arricchirsi di polene (fig. 26) che ritraggono una sirena, come nume protettrice dei viaggi in mari infidi e perigliosi.
Sul nostro territorio ora la ritroviamo non più all’interno delle chiese, ma anche all’esterno e sugli ingressi dei palazzi.
Un esempio è il complesso di Piano Croce nel Comune di Sant’Angelo di Brolo, dove sul portale del palazzo (fig. 27-28), due sirene bicaudate su due paraste fanno la guardia all’ingresso del portone.
Hanno fattezze demoniache, i capelli scompigliati, la bocca spalancata da un ghigno, le braccia afferrano le due code squamate, il seno appena accennato, la vita piccola, segno di magrezza e di fame, due sentinelle che assolvono il compito di “ingoiare” e allontanare il male.
Come sulle polene delle navi il messaggio che porta la sirena è lo specchio di una società superstiziosa, l’arma della preghiera non è più sufficiente e l’uomo si serve del mostro per allontanare gli altri mostri.
La figura di Piano Croce è arcaica, tratta direttamente dai bestiari medievali e utilizzata già a partire dal XVI secolo in chiave apotropaica.
Nel nostro excursus, (fig. 29) la ritroviamo sul portale d’ingresso a guardia del varco sacro della chiesa di San Sebastiano a Raccuja, edificata nel XVI secolo ed oggi ridotta a rudere, dove un essere per metà umano e dalla cintola in giù caratterizzato con una foglia di quercia, nelle volute laterali sembra riprendere il motivo dominante delle due code e tra le mani stringe due rami come armi per incastrare gli impuri che tentano d’entrare.
Il motivo comincia sempre più ad evolversi, si sviluppa dalla mente dei teologi passando per le penne d’oca degli scrivani, ed arriva stravolto alle menti ignoranti e plagiate dalla stregoneria del medioevo siciliano.
Così a Ficarra sulla “Fontana Gebbia” del XVII secolo (fig. 30), una sirena scolpita nella pietra, è messa al centro del suo elemento naturale, l’acqua, che rappresenta, associata alla luna, la via umida.
L’acqua è vita ed è vitale, per i campi e per l’uomo, i viandanti e le greggi che percorrono queste vie.
Qui è a guardia delle acque, che non sgorgano da lei, non incute timore in chi si ferma per dissetarsi, ma veglia sull’abbondanza e sulla limpidezza.
La sirena ha capelli fluenti che le scendono sulle spalle, i seni scoperti, un copricapo appena accennato e la corona è posta più in alto sullo scudo a riprende il motivo del giglio.
Sotto la cintola presenta un motivo a foglia di quercia a rappresentare il corpo e le due code, perdendo definitivamente, come a Raccuja, l’immagine sensuale.
Il simbolismo dell’acqua si affianca a quello della quercia, che nella mitologia greca rappresenta le divinità Rea e Diana, ed è dimora di oracoli, ninfe dei boschi e fate.
Le querce hanno radici profondissime e chiome altissime, che sfiorano il cielo, rappresentando l’axis mundi e sono i luoghi prediletti per riunirsi nelle culture druidiche e sciamaniche.
La quercia era un simbolo solstiziale, portale di collegamento tra le due metà dell’anno, è habitat per le sirene, il fogliamo simboleggia le nozze sacre con il dio della foresta.
Sempre a Ficarra (fig. 31) spostandoci sulla facciata della chiesa dell’Annunziata, sulle colonne del portale d’ingresso ci accolgono due figure per metà donna immerse in motivi fitomorfi.
Hanno capigliatura settecentesca, le gote piene, i seni in evidenza e una bella pancia rotonda, con due enormi ali al posto delle braccia.
Qui la sirena sembra tornare alla sua natura primordiale, nell’elemento dell’aria, non ha più le braccia per afferrare ma ali per volare e trasportare anime verso il Paradiso.
La ritroviamo con una variante anche a Mistretta, (fig. 32) nella chiesa Madre, dove in facciata viene rappresentata con grandi ali, con due braccia che richiamano la forma della doppia coda i seni ben definiti e nella parte inferiore le foglie di quercia.
Abbiamo così avuto risposta alla ricerca del simbolismo riscoperto anche sui Nebrodi, (fig. 33) un piccolo contributo riconducibile ad un altro linguaggio, ancor più misterioso, scritto nella pietra che è la triplice cinta rinvenuta nel vecchio centro di Castania.
Da questa sophia, passa la riscoperta del nostro territorio per far riemergere dall’oblio le nostre unicità e divulgarle all’esterno anche utilizzando i moderni media.
Bibliografia
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Omero “Iliade-Odissea”, Mondadori 2012, coll. i Meridiani
A. Dante, “La Divina Commedia”, Mondadori coll. i Meridiani 2021
Articolo “Sul cristiano e pagano simbolo della sirena bicaudata” autore non specificato