La Madonna nera di Tindari
di Michele Manfredi-Gigliotti
Nell’ambito della Chiesa cristiano-cattolica un’area molto importante e diffusa è occupata dal particolare culto dedicato alle Madonne Nere. Dal punto di vista strettamente topografico, i luoghi dell’intero globo terracqueo nei quali sono venerate icone di Madonne Nere, sia in modo esclusivo, sia assieme ad altre icone di Madonne Bianche sono, secondo Ean Begg, ben quattrocento. In Italia, tali icone raggiungono (salvo errori od omissioni) il numero di settantotto: nell’isola di Sicilia, ne ho censite nove. In linea di massima le chiese e i luoghi di culto dedicati alle Madonne di colore si trovano nelle vicinanze del mare. Quelli, al contrario, che si trovano collocati nell’entroterra sono sempre posti sulle grandi vie di comunicazione che dal mare conducono verso i grandi mercati europei e, allo stesso tempo, verso le più rinomate cattedrali, mete di pellegrinaggi salvifici.
V’è una causazione ben precisa e significativa se la regione italiana che annovera entro i suoi confini il maggior numero di edifici sacri di culto dedicati alla Vergine Negra, sia proprio il Lazio, che ne annovera ben quindici, seguito subito dopo dal Piemonte con dodici e dalla Puglia con nove.
I luoghi di ubicazione dei grandi culti religiosi, per una naturale legge in virtù della quale gli opposti finiscono per aggregarsi, esercitano una specie di attrazione tra di loro per cui le religioni più diffuse, anche se tra loro concorrenti e, a volte, ostili, amano collocarsi in spazi ristretti e finitimi quasi a contatto di gomiti. Esempio da indicare a supporto della tesi che precede, anche se estremo, è al-Haram al-quds al-sharif dove sono concentrate le tre più grandi religioni monoteiste della Terra, pur se è necessario sottolineare che le ragioni storiche di tale concentramento sono di natura diversa.
Tornando all’argomento delle Madonne Nere, è storicamente pacifico che il culto delle importanti divinità femminili derivi in modo diretto, oppure in modo di riferimento, dal culto della Grande Madre e della Virgo Paritura. La figura materna, nella maggior parte delle società politiche che hanno attraversato la storia, siano state esse di natura matriarcale o, anche, patriarcale, ha sempre avuto un posto di preminenza e di prestigio. Il particolare sentimento affettivo verso la figura materna ha trovato terreno fertile nel momento in cui esso è stato portato all’esterno dei confini domestici e familiari.
Non è senza una ragione ben precisa e saldamente fondata, che le apparizioni a gente di fede prevalentemente cristiano-cattolica, avvengano e riguardino quasi esclusivamente figure muliebri di divinità prevalentemente muliebri, in modo specifico mariane. Questo fenomeno non sembra essere altro che una vera e propria proiezione causata dall’inconscio umano attraversato dal desiderio di potere contare su alcune certezze e, prima tra tutte, su una situazione di protezione dal mondo per cui si ama tornare quasi a regredire nel rifugio primordiale e ancestrale della vita intrauterina.

Inanna
La venerazione di divinità femminili non ha subito soluzioni di continuità storiche. Ha preso l’abbrivo dalla venerazione della Magna Mater, riconosciuta come la divinità antropogonica e sostenitrice della vita umana, che pur avendo assunto denominazioni diverse presso i popoli della terra (Cibele, Rea, Inanna, Astarthe, Gaia, Proserpina, Persefone, Afrodite, Demetra, Mater Matuta, Bona Dea, Venere o Magna Mater: queste le denominazioni più diffuse) era, in sostanza, sempre la medesima divinità, interpretata seguendo particolari esigenze di natura topografica e intesa come fonte di vita universale, in definitiva, come Virgo Paritura.
Quando nel mondo nacque e cominciò a diffondersi il credo cristiano, la nuova fede religiosa trovò presso i popoli, per così dire, i posti occupati da una vera e propria legione di divinità pagane, tutte ben accette e congeniali riguardo una venerazione politeista. Tale situazione imponeva l’adozione o di uno scontro frontale basato sulla forza (strada affatto percorribile, essendo la situazione
storica dei primordi assolutamente ribaltata in quanto erano proprio i proto cristiani a subire persecuzioni da parte dei poteri costituiti delle comunità politeiste), oppure una lenta e capillare penetrazione nel tessuto demografico-religioso cercando di sovrapporsi, ma senza traumi, e di innestarsi sul credo religioso preesistente (fenomeno, questo, conosciuto come skeuomorfismo di Albrigth). Decisamente (e, aggiungerei, intelligentemente) la seconda strada fu praticata con maggiore frequenza, dando risultati del tutto positivi per la fede neonata, la quale fu in grado di fagocitare e metabolizzare le religioni preesistenti assorbendone, il più delle volte, la ritualità. La maggior parte delle tradizioni pagane, alle quali i popoli si erano oramai assuefatti da secoli, furono mantenute, con gli opportuni adattamenti, s’intende. Moltissime ritualità, soprattutto di natura demotica e corale, restarono tali e quali nella nuova religione monoteistica. La guerra, invece, venne fatta alle testimonianze in pietra della religiosità: infatti, alla maggior parte degli edifici templari pagani fu negato il diritto di cittadinanza, sicché essi o furono demoliti dalle fondamenta, oppure, nelle migliori delle ipotesi, inglobati nelle cattedrali del nuovo culto, distruggendo, così, un importante patrimonio artistico testimone, attraverso i millenni, del cammino dei popoli.
L’appropriazione e il riutilizzo dei siti religiosi frequentati in precedenza erano stati determinati da un ragionamento utilitaristico, in quanto, in definitiva, essi offrivano al nuovo credo una forza energetica lungamente sperimentata nei secoli attraverso l’estasi causata dall’anima loci, al punto che esistono vere e proprie mappe della cosiddetta geografia sacra, secondo la definizione di Paul Deveroux. E proprio da uno di questi siti, da annoverarsi tra i più magici della terra, Chartres, il culto mariano subisce, in tutta l’area del bacino del Mediterraneo, una decisiva spinta in avanti e diffusione, le quali vanno intese alla stregua di una naturale proiezione della venerazione della Vergine che a Chartres era ed è venerata. Occorre precisare, però, a proposito della Vergine di Chartres, che il culto locale non è successivo all’avvento del cristianesimo, ma, in verità, lo precede di parecchi secoli.
A Chartres preesisteva, infatti, a far tempo dai tempi più remoti, una sentita e intensa venerazione di una divinità femminile pagana riferibile al più comprensivo e diffuso culto della Dea Madre, che aveva trovato terreno fertile in tutta l’area del Mediterraneo, ma anche presso popoli più antichi, quali Assiri, Mesopotamici ed Egizi sino a quelli introdotti nell’area della Mezzaluna Fertile (M.Manfredi-Gigliotti, Il culto delle Madonne Nere, Sophia Arcanorum, nn. 3 e 4).
La divinità di Chartres, preesistente al culto cristiano, era una divinità femminile di colore, della quale il nuovo culto fu costretto a mantenere la venerazione, a causa, soprattutto, del suo forte radicamento presso la popolazione indigena. Ciò comportò, evidentemente, la necessità della risoluzione del problema dell’esistenza di una Madonna Nera e di una Madonna Bianca, problema che incontrava una maggiore urgenza di risoluzione in quanto le due icone erano destinate a coabitare sotto il medesimo tetto, circostanza, questa, che veniva a sottolineare, evidenziandola, l’incongruenza delle due rappresentazioni iconografiche.
Il problema venne risolto, come suol dirsi, sic et simpliciter, anzi, per essere precisi, in modo molto semplicistico: l’icona della Madonna Bianca trovò collocazione a piano terra della cattedrale, in un punto architettonico degno e in evidenza (Notre-Dame du Pilier); quella della Madonna Nera, trovò invece collocazione nel piano interrato, nella cripta della cattedrale (che, per la verità, è molto bella e suggestiva e nella quale le forze telluriche vengono avvertite con una intensità maggiore che non sul livello superiore), in uno dei punti più recedenti, oscuri e nascosti (Notre-Dame de Sous Terre).
Come si può ben vedere, la Chiesa cattolica ha preferito adottare un criterio discriminatorio e, certamente, razzista rendendo, così, facilmente avvertibile il suo grande imbarazzo derivante dall’ aver dovuto accogliere, obtorto collo, mantenendolo o, meglio, non avendolo potuto impedire, il culto della Madonna Nera, preesistente, come si diceva, a quello della Madonna Bianca. Ognuno può facilmente rendersi conto da se stesso come non possa esistere una Madonna (intesa come la Madre di Gesù) dalla pelle bianca e un’altra di colore: quest’ultima deve, per forza di cose, avere un DNA religioso di diversa origine, consistenza e provenienza. La volontà di volere attuare una politica di sincretismo religioso da parte del cristianesimo cattolico, riesce a malapena a celare lo sforzo compiuto nel tentativo di avere cercato di fagocitare, metabolizzandole per annichilirne la matrice pagana, alcune divinità del mondo politeista dell’antichità, rivelatesi, alla fine, indigeste per una religione asseritamente monoteista.
Tale tolleranza necessitata del cristianesimo, alla fine, finì per contaminarlo al punto che ne venne fuori una serie infinita di angeli, arcangeli, beati, santi, da fare impallidire l’intero Parnaso politeista. E come gli omologhi Dei del paganesimo, tale stuolo viene, singolarmente e nominativamente, preposto alla protezione dei settori della vita nei quali opera l’umanità, al punto che si annoverano il protettore dei maniscalchi, quello dei calzolai, quello dei muratori e, poi, quello dei medici, avvocati, ingegneri, militari e così via.
La tesi maggiormente accreditata tra gli studiosi, da noi pienamente condivisa, si fonda sull’opinione che il culto della Madonna Nera altro non sia che una residuale sopravvivenza dell’antichissimo culto di Iside. La stessa icona della Madonna con il Bambino in braccio ricorda in modo impressionante quella di Iside che tiene in grembo Horus, a volte, allattandolo.
Lo stesso racconto mitologico che aleggia attorno alla Madonna di Tindari non fa che confermare l’esistenza di un forte cordone ombelicale intersoggettivo che unisce la Madonna cristiana alla dea egizia.
Figlia di Nut (la dea cielo) e Geb (il dio terra), che a loro volta erano stati creati da Shu e Tefnut, Iside andò sposa al dio Osiride (che, assieme a Nefti e Seth, era suo fratello), da cui ebbe un figlio Horus. Avendo come esempio autorevole l’unione matrimoniale tra fratelli germani, Iside e Osiride, normalmente ritenuta di natura incestuosa, nelle famiglie reali egizie venne adottato un modello matrimoniale che, secondo quello divino, favoriva le unioni tra fratelli e sorelle.
Sotto l’aspetto iconografico, la Dea è rappresentata come un falco e come una figura muliebre alata. La raffigurazione più comune e diffusa è, però, quella che la rappresenta stante su un trono con in braccio il figlioletto Horus.
Fu una Dea alquanto versatile: in quanto istitutrice del matrimonio fu ritenuta protettrice degli sposi; sicuramente, fu protettrice delle casalinghe avendo loro insegnato la professione dell’arte domestica; essendo riuscita a riunire i resti anatomici del fratello-sposo Osiride (che era stato ucciso, smembrato e i resti sparsi sulla terra per opera del fratello Seth), venne anche ritenuta divinità della magia e dell’oltretomba.
La sua specificità, tuttavia, più importante era la sua elezione da parte degli uomini di mare quale loro protettrice. Iside proviene da Behbet el-Hagar, che si trova nel delta del Nilo. Per questa sua origine, ella era ritenuta figura divina doppiamente legata al mondo acquatico, sia a quello fluviale, che a quello marino. Da questo ad essere eletta come protettrice dei marinai, e dei naviganti in genere, il passo fu breve. Non v’era naviglio, sia mercantile che da combattimento che, partendo per terre lontane, non recasse con sé un’icona della Dea o, il più delle volte, una sua effige non fosse collocata come polena sulla prua.
E’ consequenziale che la fitta ragnatela di natanti che prendevano il mare dall’Egitto per tutti i porti del Mediterraneo, favorì il diffondersi del culto isiaco che si sparse per tutto il bacino del mare nostrum, dimostrando di prediligere per la sosta le contrade bagnate dal mare e per quelle poste nelle sue immediate vicinanze, luoghi nei quali i marinai posavano per la prima volta dalla partenza i piedi a terra.
Tuttavia, il culto era sentito anche nell’entroterra: ricordiamo la presenza delle Madonne Nere ad Oropa, Biella, Trana, Groscavallo, Sampeyre, Nizza Monferrato, tutte in Piemonte; ma, anche a Fara in Sabina, Tarquinia, Anguillara Sabbazia, Settefrati, nonché nella stessa Roma, tutte nel Lazio. L’ubicazione degli edifici religiosi dedicati a Iside dipendeva, nella sostanza, dalle finalità che il contingente marinaro si proponeva arrivando nelle terre di approdo. In sostanza il sito veniva scelto secondo che le finalità fossero di natura commerciale, oppure lavorativa, come la fondazione di empori, ma anche di lavoro subordinato o autonomo, finalità militari, oppure di fondazione di colonie. I nuovi arrivati portavano con sé le cose da cui non si potevano o non volevano separarsi, come erano le icone degli Dei appartenenti al pantheon delle loro origini.
Così come narra la leggenda cristiana, anche la Madonna Nera di Tindari si lega indissolubilmente alle acque del mare Mediterraneo, del Tirreno, per la precisione, in quel punto dove questo mare si insinua nell’ampio golfo di Milazzo.
Secondo la narrazione tràdita, una nave, che stava evidentemente provenendo dall’Oriente, per evitare le conseguenze di una tremenda tempesta, cercò riparo nel golfo, nella sua parte occidentale, proprio in quel punto, dominato dalla rocca di Tindari, in cui il mare, attraverso il filtro dell’arenile, era penetrato all’interno della spiaggia, formando i cosiddetti laghetti di Marinello. Passata la tempesta, il naviglio mollò gli ormeggi con l’intento di riprendere la navigazione, ma, senza alcun motivo o spiegazione logica, il natante sembrava incollato al fondale marino. Allora, l’equipaggio tentò di alleggerire il naviglio scaricando sulla riva parte del carico. Tra le cose scaricate, v’era anche una cassa che, una volta aperta dagli indigeni, rivelò il suo carico a dir poco stupefacente: una divinità bruna che teneva in grembo un bambino. Intanto, la nave, liberatasi del carico apparentemente in eccesso e, dunque, anche della cassa, abbandonati sulla spiaggia, prese il largo molto agevolmente.
Le spiegazioni postume riguardo la circostanza per cui l’icona risultasse ancora imballata, furono che la statua fosse stata sottratta alla furia iconoclasta del Medio Oriente, sicché, in mancanza di altri elementi riferibili al tempo, il racconto fantastico sopra accennato, dovrebbe essere ambientato, grosso modo, tra la fine del secolo VIII e l’inizio del IX. Non conosciamo, però, quale ne fosse la destinazione.
I dati certi sui quali potere argomentare, sono quelli che seguono: l’icona è stata scolpita in legno del Libano e presenta dei tratti somatici assolutamente orientaleggianti. Basta mettere su un piano comparativo (senza, quindi, pregiudizi o acquisizioni dogmatiche) l’icona della Madonna Nera di Tindari, così come ella appare nel Santuario omonimo, con quella di Iside, così come raffigurata nelle tavole iconografiche, per concludere che la rassomiglianza è addirittura impressionante. La stessa scuola scultorea (dal cui laboratorio l’icona è uscita) non appartiene, certamente, all’Occidente: ne sono indiscutibili testimonianze: il colore bruno del legno (il cromatismo epidermico non può essere elemento di contorno o accidentale); il viso oblungo, sul quale è stampata una espressione stranissima, sembra incapace di assumere un atteggiamento di materno sorriso, così come avviene con le icone della Madonna Bianca. Se fosse il prodotto di una scuola scultorea occidentale, dovremmo concludere che si tratta di un personaggio naif, ante litteram.
L’ulteriore incongruenza del logos che è stato posto ai piedi dell’icona, “NIGRA SUM, SED FORMOSA”, finisce con intorbidire ulteriormente le acque. Sconosciamo chi sia stato l’autore della scritta. Certo non doveva trattarsi di un analfabeta o di persona di scarsa cultura. Il riferimento al Cantico dei Cantici, da cui il versetto è stato tratto (1,5), la dice lunga sull’inquadramento e definizione della statura intellettuale dell’autore: si trattava di persona erudita che, con ogni probabilità, operava nell’ambito dell’ambiente religioso ufficiale. Tuttavia, il logo appare, per un verso, ovvio, per altro verso, razzista e, per ultimo, anche mendaci.
1.Ribadire che il personaggio scolpito è di etnia negra non aggiunge alcunché di nuovo a quanto sia ricavabile, de plano, dalla semplice visione di esso;
2. Aggiungere, in prosieguo, il “ma bella” ha tutta l’aria di volere presentare le scuse per quella dichiarata e ribadita negritudine;
3. Concludere, infine, con un giudizio estetico di bellezza (la quale non può che riferirsi all’unico distretto anatomico scoperto del personaggio, ossia il viso) significa che l’autore del logo non ha mai visto o ha avuto un momento di amnesia, le MADONNE BIANCHE di scuola occidentale e, in particolare, di scuola italica, come, tanto per ricordarne qualcuna (scusate se è poco) la Pietà Rondanini di Michelangelo. Il giudizio estetico contenuto nel logo, altro non appare se non una espressione da imbonitore: nulla di più.
A conclusione di questo breve viaggio esegetico e ad ulteriore supporto della tesi che sostiene come le Madonne Nere di culto attuale provengano da culti pagani di remota religione egizia, riferentisi al culto isiaco, ricordiamo come Paul Olivier racconti un episodio verificatosi in Francia, nella città di Grasse in Linguadoca, nel 1794 durante la rivoluzione francese, che annoverò molteplici episodi di iconoclastia.
L’inciso che segue, tratto dalla testimonianza storica dell’Olivier, è stato escerpito da Michele Manfredi-Gigliotti (Il culto delle Madonne Nere, Sophia Arcanorum, nn. 3 e 4).
La folla di rivoltosi inferociti ebbe ad assalire la cattedrale di Notre-Dame de Puy. Irruppe nella chiesa e si impadronì di quadri, arredi e simboli sacri, libri liturgici e non, portandoli all’esterno, sul sagrato ove fu acceso un grande falò, nel quale finirono tutti gli oggetti trafugati. Annota lo studioso che tra gli altri oggetti sacri finì tra le fiamme anche una bella statua della Madonna Nera che proprio in quella cattedrale aveva la sede del suo culto. La cosa più curiosa fu che, allorché l’icona fu gettata tra le fiamme, dalla folla inferocita si levò spontaneamente il grido: “Morte all’Egitto!”.
L’episodio è sintomatico e sta a dimostrare un dato di fatto incontrovertibile e, cioè che, anche a livello popolare, quale doveva essere quello al quale appartenevano i piromani di Grasse, era ben noto il collegamento tra le Madonne Nere e il culto egizio di Iside.
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