La torre di Santa-Gata sulla costa della marina di Sant’Agata Militello da Spannocchi al Camilliani.
di Giuseppe Ingrillì
La costa centrale del nord della Sicilia, compresa oggi tra la città di Patti e quella di Santo Stefano di Camastra, ha vissuto la sua storia legandosi a quel grande bacino d’acqua che si chiama mar Mediterraneo e che ha rappresentato per lunghi secoli il confine dal quale difendersi.
Dopo la caduta dell’Impero Romano, le incertezze legate ai flussi delle invasioni barbariche, fecero sì che tutti gli agglomerati urbani si spostassero per necessità difensive nell’entroterra, determinando un nuovo assetto del territorio.
In epoca Bizantina prima e Araba poi, la situazione di apparente stabilità, prima dei grandi stravolgimenti, non riesce ad incentivare nuovi aggregati urbani sulla costa se non strettamente necessari al commercio.
Tutto rimane immutato, anzi si dilata il distacco, configurando lo spazio costiero come una terra di confine: adesso il mare è il nemico.
Con la riconquista Normanna, lo scenario sopra descritto muta lentamente; la marina viene inglobata nei possedimenti del regio demanio pur rimanendo sempre un limes con poche attività.
Si rioccupano o si fortificano solo i promontori vicino al mare, perlopiù piccoli presidi e torri (un esempio è il caricatore posto ai piedi della rupe di Brolo che funge da sbocco naturale al mare del centro urbano di Ficarra e che vedrà la costruzione di una torre prima e di un complesso fortificato poi), che offrono solo un timido controllo finanziario ai commerci e che sfruttano l’orografia dei luoghi, privilegiando perlopiù cale riparate, o commerciando in improvvisati caricatori su lunghe spiagge (ulteriori esempi sono la spiaggia della marina di San Marco, oggi Torrenova, e quella di Acquedolci, sbocco naturale di San Fratello).
Tutte queste attività sono il frutto, però, di una opportunistica e disorganica pianificazione territoriale. Così, lentamente queste terre, giocoforza, ricche come sono di vegetazione, floride per via della tanta acqua dolce, oltre che sbocco naturale per i commerci dell’entroterra, entrano nel gioco delle assegnazioni feudali.
La sicurezza conquistata e progredita in Sicilia con la dinastia Sveva, entra in crisi dopo la morte dell’Imperatore Federico II nel 1250. Il regno non riuscì più a mantenere le coste come un luogo sicuro e le turbolenze, le frizioni, le macchinazioni politiche spingono nell’incertezza la successione al trono, attirando le brame d’espansione di stati confinanti, in particolare quello angioino, che muovendosi dalla vicina Napoli su rotte conosciute, non disdegnava d’accelerare la caduta del regno con frequenti incursioni.
Tutte quelle attività che si erano, con il tempo, timidamente posizionate a ridosso della battigia, furono così esposte a incursioni e danneggiamenti, con importanti ripercussioni sulle finanze del regno. Da ogni parte dell’isola si levò forte il grido d’aiuto alla corona; si invocarono provvedimenti e soluzioni per scongiurare ulteriori disastri.
La soluzione scelta con l’apparente stabilità dell’isola dopo il Trecento, fu quella di dotare questi luoghi di presidi militari costieri. Le spiagge si animarono di cantieri per elevare in tutta fretta torri d’osservazione e per comunicare con congruo anticipo l’arrivo di pericoli dal mare, oltre che intervenire con una forza armata per scongiurare o limitare i danni.
Questo programma nascondeva e palesava un limite: l’impossibilità di reperire l’imponente massa finanziaria necessaria all’attuazione del piano. La soluzione adottata, che deresponsabilizzava la corona, fu il rilascio di licentiae aedificandi et merguliandi, una concessione a pagamento, a totale carico di chi la richiedeva. Alla nobiltà non restava che pianificare finanziariamente il rilascio delle licenze e il costo della costruzione.
Nasce così il primo embrionale programma di costruzione di torri e piccoli forti, per la verità, disorganico, mal coordinato e nella totalità poco efficace.
La costa Sant’Agatese, che è quella che attenzioneremo più da vicino in questa nostra digressione, segue l’andamento antropizzato sopra descritto. Le tracce umane labili, ci parlano di una stratificazione archeologica incerta, figlia di ritrovamenti fortuiti, in anni in cui vi era poca sensibilità e una attenzione marginale nell’indagare in maniera rigorosa gli strati storici.
Questo ha prodotto una esiguità di reperti classificati come tracce di sepolture riferibili al periodo tardo imperiale romano, per quanto attiene alle vicinanze della zona presa in esame, concentrando in altri luoghi della costa e dell’entroterra degli interessanti manufatti unici per la tutta la Sicilia.
Quello che sappiamo con assoluta certezza oggi è che tutta la costa sarà assoggettata, a partire dall’epoca di Federico II, all’area d’influenza del centro urbano di Militello Valdemone (oggi Militello Rosmarino). La comprovata necessità di arginare le turbolenze d’età medievale attraverso la distribuzione capillare di luoghi forti, ci spinge a ricercare quale possa essere la data certa sulla necessità di elevare strutture strettamente collegate alla difesa di interessi insistenti su questa porzione di litorale.
Sull’argomento, ci viene in aiuto la ricerca d’Archivio, che restituisce la testimonianza di una richiesta presentata alla segreteria del Protonotaro del Regno da parte del Barone Pietro Ponzio Rosso di Cerami, signore anche di Militello Valdemone (Rosmarino) e delle terre della marina, nel 1481. Questo primo atto registrato al vol. 101, f. 85v nell’Archivio di Stato di Palermo, costituisce ad oggi il primo documento fondativo del complesso fortificato per proteggere gli interessi sulla costa.
Volendone trovare oggi una giustificazione, possiamo considerare questo tratto, totalmente scoperto e, quindi, un possibile luogo di sbarco per improvvise razzie nell’entroterra, da dove poter penetrare militarmente anche in profondità. A questo fattore aggiungiamo anche la vicinanza del trappeto della cannamela di Acquedolci, che può essere fatto oggetto d’aggressione, anche se ad oggi nulla in proposito si legge nelle resocontazioni dirette.
Affidandoci alle informazioni del tempo, che si trasformano in paure e preoccupazioni, dobbiamo anche tener conto dell’eco tremenda di una delle prime aggressioni turche alle coste italiane da parte del famoso comandante Ahmet Pascià, consumatasi il 14 agosto del 1480. L’assedio posto alla città portuale di Otranto, finito con la decapitazione di 800 otrantini, che non abiurarono la fede cristiana per aver salva la vita, ebbe un grosso impatto sui regnanti europei e da questo momento si palesa un nuovo pericolo sulle coste del Mediterraneo occidentale.
Su questo mare solcano i legni di forze potenti, catalani, genovesi, pirati turchi e barbareschi, ogni vela un potenziale pericolo.
Con la concessione avuta sulla marina di Militello Valdemone, si progetta e si realizza una torre circolare, tipica e già vista in altre strutture vicine (ricordiamo le torri di Pietra di Roma a Torrenova, la torre di Malvicino a Capo d’Orlando e quella cosiddetta “saracena” di Piraino). Nulla, invece, sappiamo del trappeto di Acquedolci se non dalla successiva richiesta del 1498 per la costruzione in realtà di un baglio con una torre. Queste nuove edificazioni, rappresentano un primitivo, disarticolato e embrionale sistema difensivo costiero, poco raccordato e molto territoriale.
Il materiale utilizzato per la costruzione della torre è già presente in loco. Si fa ampio uso delle risorse della spiaggia, prediligendo grossi ciottoli legati con malta, che permettono di elevare in tempi molto rapidi. La torre si sviluppa su tre livelli nei quali quello più in basso assolve la funzione di cisterna, garantendo una riserva d’acqua dolce, a seguire si accedeva ai due livelli superiori attraverso una apertura esterna lato monte, oggi cortile interno del castello Gallego. Una volta dentro, attraverso una scala ricavata nello spessore murario, si accede al piano superiore, che è anche il piano più eminente da dove poter osservare l’orizzonte marino: cuore del sistema difensivo e di segnalazione.
Dalle informazioni del tempo non sappiamo se la caratteristica cupoletta fosse destinata a proteggere dalle intemperie l’ultima stanza fosse già presente, ma vista la presenza di una soluzione difensiva, possiamo affermare sia una aggiunta posteriore. Esternamente, sul fronte mare, sporgono oggi due bracci, due conci di pietra, resti di una caditoia, che sembra l’unica contromisura esistente oggi, adottata a difesa della torre. La guardia era affidata a gente del luogo al soldo del barone, che prediligerà, come presidio, solo i periodi dell’anno più pericolosi, da maggio a novembre, lasciando sguarnita la torre nei restanti mesi dell’anno per alleviare l’impegno economico.
Cento anni dopo (è il 1578) Tiburzio Spannocchi, architetto senese, viene incaricato di redigere un dettagliato resoconto delle difese attive sulla costa siciliana.
Il suo studio ci restituisce l’istantanea di una torre posizionata su uno sperone di roccia, eminente ed elevata dalla spiaggia, affiancata da una piccola costruzione a tetto che sembra appoggiarsi alla struttura.
La resa è quella di un massiccio cilindro di pietra, che domina senza andare oltre l’essenziale funzione d’avvistamento; non sono riportate merlature; nessun tetto a protezione della piattaforma dell’ultimo piano; nessuna finestra che illumini l’interno; nessuna porta che sveli l’accesso; niente, insomma, che alteri l’orditura continua della struttura; più sotto, solo una modesta casa e niente più.
Così riporta lo Spannocchi:
Melitello, incomincia la marina di Melitello a lo fiume dell’inganno fino alo fiume di Rosamarina che sono quattro miglia marina tutta spiaggia scoperta la quale suol guardare la strada sola et due cavallay quandoda S. E. vien comandato, et sono pagati ad 3 al mese…et non guardano niente più che il loro territorio, alla torre non tengono guardia alcuna, et dicono essersi sempre costumato così. Tutta questa marina sono signali di diversi …
concludendo che sarebbe appropriato che si facesse la guardia e che la stessa si interfacciasse con il trappeto di Acquedolci, lontano tre miglia.
L’impressione che restituisce la tavola è quella di essere in un luogo ancora poco antropizzato, una marina in cui l’unica indicazione importante e significativa è l’annotazione in calce, Torre di S.ta Gata lontana dal trappeto tre miglia e giustifica la sua presenza solo in funzione del trappeto di Acquedolci, anche se esso appartiene ai Baroni della terra di San Filadelfio (San Fratello), i Larcan, a cui i Rosso si legheranno in matrimonio nel 1508, quando Girolamo Rosso, sposerà Teodora Larcan .
Nel 1492 mutano gli scenari e si rileva una nuova necessità di controllo e difesa nella marina di Sant’Agata. Negli archivi di Palermo, risulterebbe un nuovo documento, presentato al Cancelliere del Regno dal Barone Enrico II Rosso, figlio di Pietro Ponzio, con la richiesta di elevare una nuova torre da raccordare a quella già esistente del 1481.
A questa prima ricognizione siciliana, fa seguito a pochi anni di distanza quella di Camillo Camilliani, anche lui architetto militare e ingegnere, che, ricevuto l’incarico, si adopera per ripercorrere le coste dell’isola e verificare lo stato dei luoghi con la differenza, rispetto allo Spannocchi, della progettazione di nuove opere di difesa lì dove vi era più necessità.
Le prospettive del tempo squarciano la costa della marina di Sant’Agata in una nuova visuale, una diversa presenza rispetto al primo disegno dello Spannocchi, fornendo un apparato difensivo mutato, integrato in un ampliamento che a tratti stupisce, visti i pochi anni trascorsi tra il 1578 e il 1583.
Nel disegno dello Spannocchi, però, non vi è traccia di lavori in corso per un ampliamento, mentre il Camilliani restituisce il disegno di un complesso finito e già utile ad assolvere la sua funzione.
Il Camilliani è coerente con lo stato dei luoghi?
Intanto, quest’ultimo restituisce un rilievo diverso, più ricco di informazioni, con vedute, paesaggi e piante che danno vita al territorio, con una profondità d’orizzonte che immerge lo spettatore nelle coste e nelle cale del tempo.
Leggiamo la descrizione del territorio che fa il Camilliani:
Territorio di San Filadelfio (San Fratello), in mezo di questo et del fiume Rosamarina ci è una torre detta Santa Agata, alla quale v’è un artificio d’acqua, che s’adopera a segar legnami.
Qui viene fornita una prima informazione sulle attività che insistono vicino alla torre, una falegnameria per il taglio della legna. Tale attività è sicuramente strategica per il vicino trappeto, che aveva bisogno di legna da ardere per il processo di cottura delle canne per l’estrazione dello zucchero. Tale attività non era certo gratuita e, quindi, giustifica, in parte, il probabile investimento economico del barone di Militello per un ampliamento della torre di guardia.
Proseguendo, dobbiamo sempre tenere a mente la rappresentazione del Camilliani, andiamo a leggere cosa descrive:
Partendosi da Pietra di Roma verso ponente si trova un’arbitrio d’una serra d’acqua lontano da Pietra di Roma miglia tre et due terzi; et questo luogo si domanda Santa Agata; et sì come nel suo disegno si vede, è fabrica incomplita, et per il continuo trafico che v’è, et per essere ridotto di barche, tengo esser necessariissimo, ch’ella s’alzi et finiscano i due corpi con le sue difese, che vi bisognano a talché vi si possa far la guardia tanto necessaria sì per la rispondenza de’ segnali, come per la sicurtà di detto traffico, et de’ vascelli, che vi si riducono per essere principalissimo passo, tanto più che non molta spesa si può fare et ridurlo in fortezza. Et questo intorno a ciò basti.
Confrontiamola con la descrizione del litorale sempre del Camilliani:
La detta fiumara della Rosamarina è finaita di San Marco, onde comincia il territorio di Militello et dura verso ponente…nel detto spatio si fanno due guardie, una di piedi et un’altra da cavallo et le guardie di cavallo son due, che fanno guardia dal detto fiume della Rosamarina insino alla foggia dell’Inganno, et fanno guardia dalli 15 d’aèrile per tutto settembre, et secondo l’ordine di S. E. et quando scoprono vascelli nemici, va uno subito ad avisar la detta terre di Militelli et quando c’è scandalo de’ vascelli, la detta torre suol raddoppiare le guardi…
Queste righe sono accompagnate dal foglio numero 183 che riporta il bel disegno della costa santagatese e sul margine destro in basso il complesso fortificato già completo, con la torre del 1481 e l’ampliamento della seconda torre circolare con il bastione di raccordo ad unirle.
A tutti gli effetti, siamo in presenza di un contesto totalmente differente tra la descrizione e le rappresentazione fatta, visto che anche nell’ortografia della costa vi è già la rappresentazione delle due torri unite. Questo è possibile spiegarlo solo conoscendo il modus operandi di Camilliani, che avvia la sua ricognizione nel 1583 dal porto di Palermo seguendo il ponente e si conclude diciotto mesi dopo nel 1584, ma cronologicamente i suoi elaborati non sono coevi, vengono solo abbozzati e delineati durante il viaggio, ma sono completati successivamente e tengono conto anche di ulteriori sopralluoghi che il Camilliani ebbe modo di fare, in una sorta di stato di avanzamento dei lavori.
Basta tenere anche conto della nomina di architetto del Regno ricevuta a Messina nel 1586, oltre che l’incarico per la progettazione e in parte l’esecuzione di alcune opere di fortificazione nel castello di Milazzo per renderci conto della sua vicinanza al territorio nebrodense. Questo fa sì che leggendo i suoi resoconti, ci si ritrova in contesti differenti: è il caso della torre di Sant’Agata.
I disegni hanno una data indeterminata, assai tardiva. Questo gli permette di allegare al volume il bel disegno definitivo, pur mantenendo la descrizione vincolata alla sua prima ricognizione, potendo ipotizzare così una data di consegna quasi a ridosso del 1600. Prova ne è che, nella sua descrizione, non ipotizza nuove costruzioni, in quanto già in corso d’opera e lascia a margine del foglio la scritta “incomplita di Santa Agata“.
La lettura del disegno del Camilliani ci porta a tenere in conto un ulteriore approccio che l’architetto usa applicare ai suoi rilievi; le prospettive sono tutte sopraelevate rispetto alla spiaggia, viste dal mare e rivolte tutte forzatamente verso il mare: è come se a comandare fosse non cosa vede il suo occhio, ma una mediazione tra lo stato dei luoghi e da dove vengono osservati.
Questo è rilevatore di alcune anomalie che si riscontrano nei disegni, che si evidenziano quando guardiamo contesti a noi noti, riuscendo a cogliere alcune incongruenze. E’ il caso del castello di Capo d’Orlando, dove è possibile riconoscere la direzione da dove l’autore si posiziona per disegnare, ma che risulta non compatibile con il reale ingresso del castello, che è forzatamente orientato in sua funzione, pur mantenendo sempre la coerenza di quanto rilevato.
Questo avviene anche per la fortificazione di Sant’Agata?
Osserviamo nuovamente i disegni, lo Spannocchi dal suo punto di vista non offre idea dell’ingresso, non lo rappresenta; il Camilliani, invece sì, lo colloca in mezzo alle torri, nel bastione di raccordo con un declivio che dalla rupe porta alla spiaggia, mentre al di sopra rappresenta una finestra in facciata.
Oggi i luoghi sono notevolmente mutati, alla base della rupe passa la ferrovia e le case hanno cinto la base della scarpata celando un possibile percorso diretto alla spiaggia.
Tecnicamente, posizionare il portone in maniera così agevole è un errore, anche se il progetto nasce nel 1492 e difficilmente crediamo si sconoscessero le informazioni basilari di difesa.
Possiamo ipotizzare che anche qui il Camilliani abbia potuto ruotare il prospetto, piegandolo alla sua rappresentazione, in quanto sembra improbabile che la porta d’accesso sia orientata in posizione così facilmente aggredibile da una incursione diretta dal mare. Avrebbe più senso se la stessa fosse posizionata sul fronte opposto, sempre al centro e ben protetta dalle due torri.
Ci torna utile effettuare un confronto con il castello del Bastione di Malvicino a Capo d’Orlando, che offre al mare il suo lato più munito, lasciando l’ingresso alle spalle, nel prospetto principale e al centro della costruzione. L’eventuale assediante avrebbe dovuto percorrere almeno due lati di bastione prima d’approssimarsi alla porta, rimanendo esposto al fuoco nemico. Ebbene, ritornando a Sant’Agata e spostandoci all’interno del complesso e osservando l’imponente palinsesto murario di raccordo tra le due torri, si ha l’impressione della presenza di una possibile traccia, di un vuoto che con le mutate funzioni è stato riempito.
Appare leggibile un grande arco, apparentemente di scarico, successivamente tampognato, con in alto un vuoto in parte colmato da una pietra, posta quasi a chiave di volta. Un’impronta che sembra richiamare i contorni e i volumi di un portale in posizione corretta nel probabile o ipotizzato ingresso. Al centro oggi vi è una finestra con gli stipiti in marmo, ricavata per illuminare l’ambiente retrostante che è sicuramente successiva a tutto il muro. In più, oggi si pone un dilemma riferito alla corretta interpretazione del percorso che permetteva ai cavalli di raggiungere la scuderia, localizzata a sinistra della seconda torre, nell’ampliamento successivo.
Se teniamo ferma l’immagine proposta dal Camilliani e ragioniamo sul prospetto, come oggi ci appare, sul fronte mare, notiamo al centro delle due torri, la presenza di una piccola porta nel fronte sopravanzante, di taglio più moderno, con al piano superiore una finestra posta in affaccio su un terrazzino postumo e in alto ancora una ulteriore finestra-balcone che ha subito rimaneggiamenti nel tempo.
Questo accesso posizionato alla base del bastione non ha un percorso certo, né dall’esterno, né dall’interno e non è compatibile con un ingresso principale, non presentando segni di risagomatura o di rimpicciolimento.
Questo anche in considerazione del sopralluogo effettuato in loco e della richiesta specifica di essere accompagnato internamente verso la porta. In conclusione, non è possibile ipotizzare che questa apertura sia quella rappresentata dal Camilliani.
Se volgiamo la nostra attenzione al portone esterno nella facciata principale del castello, quello che attualmente immette nell’androne del corpo di guardia, si ha come l’impressione di un riadattamento, presentando incongruenze compositive, tanto che lo stesso sembra non aver una parte basamentale coerente su cui innestare gli stipiti.
Appare come sospeso, con degli inserti di marmo nel muro di riutilizzo a destra, che testimoniano una riconformazione in facciata. Infine sarebbe interessante rilevarlo per capire se è possibile sagomarlo nel vuoto riempito.
Quali sono quindi i tempi in cui si evolve il complesso?
Abbiamo lasciato volutamente in sospeso questo passaggio, trattandolo in un ambito più specifico, a se stante, ripercorrendo i passi amministrativi fatti.
Quello che identifica l’inizio dei lavori è la prima concessione del 1481, dopo di che passano appena undici anni e viene richiesto nel 1492 un ampliamento che comprenderà la seconda torre e il bastione di raccordo. Lo Spannocchi nel 1573 disegna e raffigura solo la prima torre, quella del 1481, non riportando ulteriori indicazioni.
Il Camilliani, invece, ci racconta, con assoluta certezza, che al suo primo passaggio tra il 1583 e il 1584, sono in corso dei lavori d’ampliamento e alla prima torre si affianca il cantiere di costruzione, riportando la necessità:
ch’ella s’alzi et finiscano i due corpi con le sue difese, che vi bisognano a talché vi si possa far la guardia tanto necessaria sì per la rispondenza de’ segnali… tanto più che non molta spesa si può fare et ridurlo in fortezza.
Sono passati ben 91 anni per dare avvio all’ampliamento, ed è Girolamo Gallego il nuovo proprietario delle terre di Militello dal 1573. Ed è subito dopo che per risollevare le finanze di famiglia, Juan Gallego, sfiancato dal diritto di riacquisto dopo la cessione in affitto delle terre a Filippo La Rocca, contratto da Vincenzo Girolamo Rosso, cede alle lusinghe economiche di tale Girolamo Gender, commerciante affermato.
Sarà quest’ultimo a finanziare i lavori di costruzione della seconda torre e del corpo di raccordo, per giusta necessità di protezione dei suoi interessi commerciali sulla costa.
E’ evidente come i due progetti, anche visivamente, non sembrino discostarsi troppo, segno di una tipologica vicinanza nel tempo e replicando la stessa matrice di progettazione con l’impiego degli stessi materiali, con una tecnica che non prevede ponteggi, ma con una costruzione dall’interno.
Del resto, lo stacco con cui il bastione di raccordo che si appoggia esternamente al cilindro della prima torre che la copre e la ingloba senza alterarne la forma, è il segno evidente che i due progetti vengono pensati e sviluppati separatamente.
L’insieme è armonico e la funzionalizzazione del percorso interno risulta perfettamente in asse; solo la traccia di un arco di scarico sopra la porta interna di raccordo alla prima torre, induce ad ipotizzare una probabile apertura riconfigurata con il nuovo assetto.
Anche le nuove ali che si affiancheranno dopo il 1628 manterranno l’allineamento su quest’asse.
Una ulteriore considerazione è che il progetto dell’ampliamento ancora in itinere dopo il 1583 sia per forma e concezione alquanto desueto, superato per i canoni di difesa del XVI secolo: un retaggio d’altri tempi.
Questo anche in ragione del tempo che intercorre tra la licenza del 1492 e l’effettiva realizzazione dell’opera nel 1583, che si può giustificare solo da un punto di vista prettamente economico, con le già citate difficoltà da parte del Barone Gallego nel reperire i fondi per l’ampliamento, che non si limitano più alla costruzione di una semplice torre, ma ad un vero e proprio fortino e a tutte quelle opere che raccordino e rifunzionalizzino l’intero sistema.
L’assenza stessa nell’ampliamento di quegli accorgimenti militari importati e codificati già a partire dalla fine del 1400 (marcapiani bombati, mura scarpate, merlature per le nuove bocche di fuoco o bertesche), rimandano ad una ingegneria datata nel tempo e ancora poco sollecitata dalle armi da fuoco, tanto che ci sarà la necessità di munire le due torri di contro bastionature nei secoli seguenti, capaci di resistere al fuoco diretto dei cannoni, oltre che fornire una solida base dove poter approntare pezzi d’artiglieria.
Ritorniamo a considerare per un momento il bastione di Malvicino, finanziata da Girolamo Cottone, Conte di Naso nel 1630, dove si demolisce la prima torre circolare del 1467 e si progetta un bastione fortificato a difesa del sottostante trappeto, che presenta tutte le soluzioni per una difesa attiva.
Qual è il fattore che porta all’ampliamento del sito?
Si può trovare giustificazione in un manoscritto, postumo alla data, redatto dall’Arciprete Zappalà che riporta la notizia di una incursione pirata in questa marina nel 1580.
Tale racconto è poco noto e resoconta come otto galere corsare presero spiaggia e assaltarono, avendone ragione, sia le difese della torre, che gli edifici abitativi, catturando un buon numero di abitanti e deportandoli in schiavitù. I pochi superstiti rimasti, scioccati si rivolsero al Barone chiedendo un rapido intervento per il riscatto e la protezione della costa.
Si ripropone, così, il tema della sorveglianza sollevato dallo Spannocchi due anni prima e si riscontra così la necessità di dare risposta solerte alle richieste, approntando e rispolverando quella concessione del 1492 per meglio difendersi.
Così non è più procrastinabile l’inizio dei lavori ed è urgente avviare il cantiere che era stato accantonato nel tempo. Tornerà utile il commerciante Girolamo Gender che si farà carico dell’impegno.
E’ interessante notare come in facciata potrebbe essere rimasta traccia di questa incursione in un colpo ricevuto dalla torre sopra l’attuale cornice della porta che affaccia sul mare, sotto la catidoia, che è stato suturato con un nuovo riempimento.
Al passaggio del Camilliani nel 1583-84, fervono i lavori e lui si limita a riportare la presenza del cantiere senza specificare o senza sapere che lo stesso è il frutto di un progetto nato quasi novant’anni prima, aggiungendo solo qualche consiglio tecnico.
Accade anche in altri luoghi, come al castello di Capo d’Orlando, per esempio, dove egli si limita a consigliare la necessità di una seconda cisterna e di munire di nuovi pezzi d’artiglieria la torre.
Se fosse toccata a lui la progettazione, avremmo avuto un diverso approccio all’opera di difesa, presentando e integrando quelle soluzioni e quegli accorgimenti dell’epoca che tanto hanno reso famoso il modello di torre camilliana.
Nel 1573 la marina di Sant’Agata passa di proprietà: è la famiglia Gallego a governare.
Nel 1614, nel sito viene impiantata una tonnara a titolo d’affitto e questo rende ancor di più necessaria e urgente una protezione adeguata. Il piccolo forte sulla costa non risponde più alle rinnovate esigenze di difesa.
Così nel 1628, è Luigi Gallego a richiedere una licenza per costruire un castello alla marina, oltreché ottenere il titolo di Marchese prima e di Principe di S. Agata poi.
L’idea d’incastellamento ruoterà sempre sulla persistenza del forte, inglobato e affiancato dalle nuove ali del palazzo, ma che non vedrà alterata la sua funzione originale di baluardo a fronteggiare gli attacchi dal mare.
Si opereranno alcune modifiche in facciata per adeguarlo alle nuove esigenze, ma senza stravolgerlo nel suo assetto.
Il resto è un nuovo capitolo di una storia quasi recente.
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