La torre di Sant’Elia e il trappeto di Malvicino
di Giuseppe Ingrillì
Il tratto di costa settentrionale della Sicilia riferita al Val Demone è stato fin dall’età di Ruggero II, grazie ad una testimonianza diretta e scritta da Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs:
il luogo ideale “dove pescare grandi tonni da Caronia fino ad Oliveri (1154)”.
A questa prima attività ittica nel tempo, oltre ai commerci per mare, si affiancarono altre industrie, che sulla costa trovavano lo spazio e le riserve d’acqua dolce necessarie allo sviluppo delle strutture. Queste attività pubbliche, affidate poi a privati, esercitate sul regio demanio, sottostavano a permessi, tasse e gabelle, con concessioni di utilizzo di acque, di dazio marino e balzelli gravanti sul pescato. Il contro di queste attività era che le stesse attraevano e spingevano i “barbareschi” e non, ad atti di pirateria e proficue razzie, che restavanono il più delle volte impunite. Sulle coste del mar Mediterraneo europeo divenne preoccupante il fenomeno della pirateria dopo la caduta di Bisanzio nel 1453 e la conseguente nascita dell’espansionismo turco, grazie anche alla stipula di un trattato di alleanza con la Francia, che mirava a fiaccare con scorribande e abbordaggi gli stati egemoni, in primis Venezia, costretta così a firmare un atto di non belligeranza (pace del 1479). Ad essi, per comunanza di fede, si unirono anche gli stati nord africani di Berberia (Algeri, Tripoli, Tunisi) che costituivano quell’avamposto dell’impero turco al centro del Mediterraneo. Grande fù il danno che producerano in termini di assalti a navi commerciali, di uccisioni e sconquassi a terra, con veri e propri momenti di terrore per le popolazioni di piccoli e grandi centri, oltre alle perdite economiche per i proprietari delle attività industriali e commerciali. Le coste di tutta la Sicilia risultavano così esposte al pericolo e non tutto il litorale era coperto o battuto da servizi di avvistamento o vigilanza, tanto che i soli castelli, per riferirci alla zona che va da Caronia (passando per Pietra di Roma, Capo d’Orlando e Brolo) a Patti, non riuscivano nel compito di segnalare, con adeguato anticipo, le incursioni. Questo comportò che il più delle volte le cale, le foci dei fiumi dove rifornirsi d’acqua dolce diventarono luoghi sicuri per le galere turche, con la possibilità di dedicarsi alle attività di razzia sulla costa con proficui guadagni. Nella rivalità tra i due imperi che si vanno consolidando – il turco e lo spagnolo – la Sicilia si trova così al centro di complesse operazioni militari, epicentro di una lotta aspra e sanguinaria, che porta lutti, distruzioni e rapimenti, con la perdita di preziosa merce messa poi in vendita nei mercati musulmani oltre al proficuo mercato di uomini, siano essi importanti personalità o comuni braccianti, da riscattare in cambio di denaro. Lo stato dell’isola esposta e sguarnita, con poche fortificazioni in grado di proteggere la popolazione e con 1039 chilometri di costa manchevoli di una precisa e organica difesa militare, viene riassunto nel pensiero dell’allarmato Marcantonio Colonna, vicerè di Sicilia, che supplichevole, relaziona così alla corte di Madrid nel 1578:
… i corsari fanno grandi danni in quest’isola nelle molteplici regioni costiere dove mancano le torri …
La difesa militare dell’Isola nel tempo, era stata sempre improntata all’emergenza e mai alla programmazione, essendo imperniata sui capisaldi fortificati voluti da Federico II, ma senza che si manifestasse una vera e propria organica difesa dal pericolo proveniente dall’orizzonte marino; l’idea di fondo era che le acque che circondavano la Sicilia fossero già una prima linea di difesa. In realtà già tra il 1313 e il 1345, una monarchia siciliana debole e dei vicini pronti ad evidenziare questa carenza, favorivano scorribande tese ad indebolirne l’autorità regia, tanto da spingere i regnanti a considerare un primo embrionale apparato di torri d’avvistamento costiero come la necessaria soluzione da parte della monarchia aragonese contro le incursioni della flotta angioina che, da Napoli, assaltavano la costa e le attività industriali presenti sulla marina. A partire dal 1360 lo scenario mutò con l’inizio delle incursioni provenienti dal nord africa magrebino. La necessità di difesa portò a progettare per lo più torri circolari, le cosiddette torri “saracene”, che ingenerano nel lettore l’idea di una falsa fase edificativa saracena, ma che in realtà identificavano, sia ieri che oggi, le torri che servivano ad avvistare i legni comunemente detti “saraceni”, terrore che si riassume, a retaggio di una memoria orale, nella frase “mamma li turchi”, che esprime tutto il terrore e la disperazione che l’avvistamento di tali navi suscitava – un vero e proprio flagello proveniente dal mare.
Con il re Martino a partire dal 1405 si organizzarono e si restaurarono le torri esistenti, circa quaranta, e se ne progettarono di nuove, dando corpo ad un progetto organico di difesa costiera con torri integrate e in collegamento visivo con i castelli. Visto lo sforzo economico a cui erano sottoposti gli organi di governo (e di conseguenze il popolo), nel dover finanziare e presidiare tali punti, si preferì lasciare libera iniziativa al privato nell’edificazione di strutture militari in proprio, derogando le leggi che impedivano al signore locale di erigere torri, castelli o palazzi fortificati. Fu così che nella complessa politica isolana furono i commercianti stessi a integrare la difesa costiera, costruendo, con fondi propri, torri e bagli fortificati, lì dove l’interesse commerciale era più necessario. La costruzione però non era lasciata al libero arbitrio, ma sottostava ad una richiesta ufficiale e al pagamento di una tassa all’autorità regia per la concessione di una vera e propria “licentia aedificandi et merguliandi”.
L’unico accorgimento architettonico e militare di queste nuove costruzioni risiedeva nella geometria circolare, che era funzionale ai colpi dell’artiglieria del tempo, balestre, trabucchi, per lo più con traiettorie arcuate e paraboliche, non dirette mai alla muratura ma influenzate dalla gravità, tanto che lo spessore del paramento murario risultava sottile, motivo per cui con il progresso tecnologico delle armi da fuoco la torre risultò incapace di resistere alla forza della polvere da sparo. La tipologia della torre “saracena” su più elevazioni, non eccelleva in complessi sistemi costruttivi, ma assolveva esclusivamente al compito di vigilanza, controllo e segnalazione alle attività poste nelle immediate vicinanze, così da poter mettere in salvo con largo anticipo la popolazione impegnata nelle attività quotidiane e segnalare alle altre strutture militari nelle vicinanze l’incursione, permettendo d’intervenire in forze alle truppe di stanza a terra e sottraendosi a violenze e rapimenti. Risultavano così, economiche da costruire e veloci nel fabbricarsi, perché proprio la loro geometria, a differenza delle torri quadrate, richiedeva un minor impegno di maestranze qualificate, mancando del tutto l’impegno nella realizzazione delle lastre dei cantonali necessari per ammorsare e saldare gli angoli, fatto che velocizzava la posa in opera dell’elevato, fornendo fin da subito una protezione continua, accompagnata da una muratura con assenza di piani di posa e pietrame non lavorato, edificate su una piccola cisterna, abbastanza alte e a più elevazioni. Le loro costruzioni così, non destavano particolare preoccupazione alla corona, rispondendo solo a criteri elementari di difesa e alleggerendo l’impegno economico dell’autorità regia. Galee, galeotte, fuste e brigantini barbareschi poterono così essere avvistati prima di poter prender terra, approntando le difese per tempo.
Così, a salvaguardia della prima e vera industria sviluppata in Sicilia a partire dal XV secolo, quella della “cannamela”, i frequenti attacchi o l’esperienza acquisita con le incursioni nelle tonnare, imponsero la presenza di una torre di guardia. L’esigenza di difendere le tonnare e i trappeti da zucchero, fa così da origine ad una parte importante di torri e castelli. Il paradosso è che ad oggi solo le torri a difesa delle tonnare sono sopravvissute nel resto della Sicilia, mentre nella costa, da Acquedolci, passando da Sant’Agata di Militello, Pietra di Roma e il bastione di Malvicino, la loro presenza identifica i luoghi d’insediamento dei trappeti abbandonati dopo il 1680.
La canna da zucchero, introdotta dagli arabi a partire dal 827 d.C. come ornamento, diviene con Federico II risorsa e i Trappeti che nascono per ricavarne il prezioso cristallo, come ha rilevato Carmelo Trasselli:
… diventano la prima industria siciliana di trasformazione con l’impiego di rilevanti capitali, numerosa forza lavoro, macchine, energie e soprattutto una organizzazione e direzione tecnica di tutti i fattori della produzione.
A partire dal 1440-1450 si svilupparono molte attività collaterali che costituirono il vero fulcro economico per un intero territorio. Si differenziò nettamente dalle altre attività proto-industriali dei secoli XV, XVI e XVII, «Ogni trappeto – scrisse Trasselli – per il numero dei dipendenti, sarebbe anche oggi una piccola industria». La canna però in Sicilia si trovava ai limiti settentrionali della zona in cui la si poteva coltivare, sicché era sufficiente una piccola variazione climatica, una più lunga mancanza di piogge, una malattia della pianta, per comprometterne la produzione. Tanto che ad una prima produzione che si innesta a partire dal 1400, seguirà nel 1500 una profonda crisi per poi riprendersi per breve tempo nel 1600 e poi crollare nuovamente e in maniera definitiva.
Accade così che sotto il Conte Artale Cardona, regnante a Naso dal 1457 al 1477, si presenti richiesta di costruzione di una torre nello chiano di S. Elia per
“a vostra supplicacione concedimus et donamus vobis licentia et facultate quam possitis edificare et costruere seu costrui facere quandam turrim cum mergulis et sine accumbarbacanibus in territorio baronie vostre Nasi in maritima pro custodia et securitate et arbitrii cannamelarum quod intenditis facere de novo in plana et maritima predicte baronie et terre Nasi”,
(Palermo 11 ottobre 1468), concessa e firmata dal vicerè Lopes Ximenes de Urrea. Questo primo documento fornisce l’importante informazione della concessione della “licentia aedificandi” e certifica la presenza in quella zona di un “Trappeto per la lavorazione della Cannamela”, anche se le due cose dal documento non sembrano accomunate. E’ bene ricordare che l’organizzazione di un Trappeto era cosa complessa e l’impatto edilizio dell’industria zuccheriera necessitava di una serie di strutture: torre, baglio, magazzini, taverna, chiesetta, porticciolo, scaro o acquedotti, canalizzazioni, stazzone per fabbricare in loco forme, cantarelli e tutto il resto. Nella frammentarietà dei primi documenti, che attestano più attività sull’intera costa, il primo organico resoconto viene fatto dal senese Tiburzio Spannocchi che nella sua ricognizione del lembo di costa settentrionale della Sicilia del 1577 così descrive e rileva la presenza di Castelli, torri a presidio di tonnare e Trappeti della cannamelata a Canneto di Caronia (Furiano), Tusa, Acquedolci, Sant’Agata di Militello, nella marina di San Marco d’Alunzio e ancora nella marina di Naso, a Brolo, Oliveri, San Giorgio e Patti, tanto che si può tranquillamente parlare di una vera e propria via dello zucchero da Palermo fino a Messina, con la costa puntellata da tutte queste attività, sinonimo di una marcata vocazione imprenditoriale, capace d’attrarre manodopera anche dalla vicina Calabria.
Nella riscoperta del manoscritto originale del senese Tiburzio Spannocchi, che ad oggi sembra essere la prima restituzione grafica delle nostre coste nel 1577, in cui i disegni che accompagnano il testo a corredo e che segnalano le attività che gravano sulla costa, vengono integrati dall’identificazione precisa delle strutture fortificate presenti. Un primo lavoro propedeutico, che parte proprio dalle coste del Val Demone – lì dove era maggiore il pericolo dello sbarco turco, nella parte più vessata dai pirati e dagli sbarchi dagli assalti barbareschi – che sarebbe stato completato con la progettazione di altre strutture d’avvistamento a colmare le lacune. Spannocchi percorse la costa, redigendo un inventario delle attività e delle risorse presenti, accompagnato dal disegno degli apparati di difesa integrati con le visuali a volo d’uccello, che restituiscono l’idea della presenza umana sul tratto interessato. Avviene così che rileviamo, grazie alla rappresentazione tra l’antico castello di Pietra di Roma – posto anch’esso a guardia di un trappeto di cannamele – e il castello di Capo d’Orlando, una struttura denominata Trappeto di Malvicino con la sovrastante torre circolare “nellu chianu du Santu Elia”, luogo che fino ad oggi era sfuggito alla memoria perdendosi la sua ubicazione, mancando il ricordo di detto “chianu”. Della menzionata torre, conoscevamo l’esistenza soltanto perché descritta nella contrada di Malvicino e legata alle vicende del nuovo Bastione, voluto dal Conte Cottone, che per nuove necessità di difesa, decide di edificare ex novo, una struttura bastionata capace di assolvere oltre che il controllo, anche la funzione di una difesa moderna trasformando la torre “già ruinata” in cava.
La restituzione grafica che fa lo Spannocchi, colma adesso quel riferimento, restituendo a tutta la comunità la torre circolare di S. Elia sulla collina sovrastante l’impianto della cannamela, diventando anche riferimento visuale per la sottostante industria nella marina di Naso. La tipologia merlata, la differenzia anche dalle vicine torri di Pietra di Roma, incluse nelle fortificazioni e a pianta quadrata e quella ancor più lontana di Sant’Agata, circolare ma senza merlatura. Altro particolare è la presenza di due falde, che la ripara con una copertura, che risulta compatibile con le soluzioni di tiro del 1400 e con la presenza nelle adiacenze di strutture che sembrano appoggiarsi alla torre, integrandola, o forse per rappresentare un abitato funzionale alla vocazione del luogo. La sottostante struttura del trappeto, è rappresentata come un edificio compatto, affiancato da due corpi che sembrano cilindrici, completato da altre pertinenze non meglio identificabili. Il disegno, assume ancor più valore considerando che Camillo Camilliani, che subentrerà nell’incarico dello Spannocchi, nel suo periplo, non rappresenterà più la torre di Sant’Elia e il Trappeto, localizzandolo solo sulla mappa, ma senza farne una restituzione grafica, che ne avrebbe reso lo stato a distanza di dieci anni. Rimane così, solo la menzione dell’attività fra i castelli di Capo d’Orlando e Pietra di Roma, senza riportarne la torre, fatto alquanto strano per un attento ingegnere militare. Della stessa struttura industriale possiamo ricostruire dai documenti esistenti nell’Archivio di Stato di Palermo, la successione di concessioni, senza poter determinare una prima costruzione, che rimane legata, come informazione, al documento di richiesta della costruzione della torre. Possiamo ipotizzare la sua esistenza prima del 1468 e la conferma della sua piena attività nelle ricognizione dello Spannocchi del 1577 e nella successiva del Camilliani nel 1583. Un dato è certo, la rappresentazione fornisce allo sguardo interessato la contrada di Buonvicino/Malvicino nel 1577 e già questa è una piacevole scoperta.
Bibliografia
- M. Sgarlata “L’opera di Camillo Camilliani” 1993, Istituto Poligrafico Roma
- Tiburzio Spannocchi “Descripcion de las marinas de todo el reino de Sicilia” Biblioteca Hispanica de Barcelona
- Al Idrisi “Il libro di Ruggero”
- Carmelo Trasselli “Siciliani fra quattrocento e cinquecento” Intilla 1982
- Carmelo TRassell “Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V. L’esperianza siciliana (1475-1525) Rubbettino 1982
- Trasselli C., “Storia” estratto 1982