L’incastellamento di Pietra di Roma, genesi di un complesso e di un toponimo a Torrenova.
di Giuseppe Ingrillì
Nell’odierna Torrenova, antica marina di San Marco d’Alunzio, esiste un complesso architettonico rilevante che sopravvive all’aggressione dell’uomo moderno. L’incuria e l’abbandono che regnano all’interno del manufatto non hanno cancellato la sua presenza, ma anzi hanno aggiunto, nel pieno di una emergenza storica, il carattere di bene da tutelare e salvaguardare come importante testimonianza del passato di queste terre.
La sua costruzione è avvolta in fitte nebbie storiche, figlia di quella perdita di memoria che molto spesso ravvisiamo in antichi complessi; s’ignora la sua genesi e si cerca nelle cronache del tempo il modo di colmarne il vuoto.
L’odierna lettura ci parla di una struttura che ha mutato nel tempo la sua funzione. Si parla di castello, per via delle sue torri, si parla di trappeto per la cannamela, di palazzo, di una risaia ed, infine, di una stazione di posta, tutte funzioni che nel tempo ne adattano la presenza, senza consentire, però, di rispondere alla domanda: quando si è sentita la necessità di edificare?
Il luogo è conosciuto e tramandato come Pietra di Roma e forse già il suo nome è un mistero da svelare, collegando queste Terre ad un periodo storico antico che fa dell’isola il granaio di Roma.
Analizzando le fonti è il Fazello, che suggerisce questa prima informazione, giustificandone l’onomastica in “una fortezza che a Roma si chiama Petra“. Su questa scia il Massa ne riporta la sua funzione come palazzo, a guardia di un trappeto di cannamela, mentre è il Meli che nella sua “Istoria antica e moderna della città di San Marco” ne approfondisce e amplia la conoscenza nell’excursus storico documentale delle fonti al periodo della stesura. Così chiarifica: “… la dimora che vi fece Levinio console romano come si cava dalla fondazione da lui fatta del castello Pietra di Roma“, salvo poi citare a pag. 76 la fonte da dove questa informazione veniva tratta, “attestando Cristoforo Scanello Cecumforbiense nella Cronica di Sicilia […] che questo castello fosse stato fondato da Levinio console romano”.
Questa informazione non è veritiera, dato che nelle nota 92 del testo è riportato che il Meli fu impreciso nella trascrizione dei nomi, trattandosi di Cristoforo Scannello detto il Cieco di Forlì, in latino Caecus forliviensis, che scrisse la Cronica di Sicilia nel 1678 a Napoli. Il soggetto in questione però di professione girava l’Italia declamando versi nelle piazze, quindi facendo il cuntastorie e la sua opera «Cronica dell’isola di Sicilia ove destintamente si ha particolar relatione della sua origine, de gli habbitatori, che prima vennero ad habitarui, et de i re, e tiranni che l’hanno dominata. Con la nominatione delle citta, terre, castelli, luoghi, fiumi, fonti, miniere, e bagni che vi sono. Et de gli huomini illustri in diuerse professioni che vi son nati, con altre cose degne di memoria. Raccolte da Cristofaro Scanello, detto il Cieco da Forli, eredi di Mattio Cancer, Napoli 1587», si poteva leggere nella Biblioteca Regionale universitaria di Messina, dove il Meli trasse le notizie, non potendone, però, verificarne la fondatezza.
Per i successivi studi questo è bastato per dare adito alla teoria che Roma, fosse legata a Torrenova attraverso il console Levinio. A questo punto per ragion storica è doveroso conoscere chi era il console romano nominato e comprendere che ipotesi potremmo formulare per giustificare la sua presenza.
Nel 210 a. C., dopo la conquista di Agrigento da parte dei Romani si completa la conquista dell’isola, nella quale il console Marco Valerio Levinio, a capo delle operazioni militari, rimane con il titolo di proconsole e con l’obbiettivo di incrementare la produzione di grano per i bisogni alimentari della nuova potenza mediterranea.
Per la sua presenza in loco ci viene in aiuto Tito Livio in “Ab urbe condita, XXVI, 40, 14”, che, per chiarezza delle fonti, trasse la notizia dal libro IX delle Storie di Polibio, riportando come alla fine delle operazioni belliche, il console, oltre a dispensare benefici a ciascuna delle città alleate di Roma e punizioni per quelle avverse, avviò nel territorio attiguo di Agatirno un rastrellamento e una deportazione nella terra dei Bruzi di circa 4.000 individui, che a vario titolo si erano macchiati di reati e che non era prudente lasciarli in un territorio appena conquistato. Con qualche probabilità l’intera operazione non si risolse nel giro di un giorno, ma durò parecchi mesi e questo implicava per l’efficiente macchina bellica romana una logistica attrezzata per le operazioni e l’acquartieramento delle truppe. Possiamo ipotizzare, facendo un mero esercizio di volontà, come luogo più idoneo per fondare un castrum romano la pianura sotto l’odierna San Marco. Luogo che vedrebbe sicuramente la presenza del proconsole Levinio unito alla necessità di costruire una residenza che potesse degnamente ospitarlo, divenendo successivamente il nucleo fondativo di Pietra di Roma. Rileviamo però che al momento mancano i riscontri archeologici che facciano luce sull’ipotesi, oltre a mancare importanti dettagli costruttivi che rimandino alle peculiari e uniche tecniche di costruzioni romane in loco, siano esse civili o militari, confinando il proconsole Levinio in un limbo romantico e che non collega il sito di Pietra di Roma al periodo romano.
Questa ipotesi non è manco accompagnata dai documenti, tanto che per avvalorare o suffragare la presenza dell’insediamento non possiamo che rivolgere lo sguardo alle mappe che l’impero romano ci ha lasciato in originale o in copia. L’Itinerarium Antonini che risale al IV secolo d. C., riporta l’indicazione delle stazioni di posta, oltre che la presenza di luoghi termali dove soffermarsi, risultando molto accurata per le informazioni descritte, ma purtroppo non vi è traccia del nostro sito.
La Tabula Peutingeriana, che è una copia derivata dall’Itinerario redatta nel XII-XIII secolo, mostra la stessa viabilità, però disegnata e del sito non se ne fa menzione e sarebbe una dimenticanza grave, visto che viene riportata l’indicazione di varie “stationes”, punti fondamentali nelle logiche di spostamento nell’ambito dell’impero. In conclusione, dobbiamo rilevare come queste mappe non qualifichino Pietra di Roma né come stazione di posta, né come mansio, né come terme, escludendo di fatto la sua presenza nel IV secolo d. C. .
Altro importante riscontro poteva risultare dalle tappe del percorso della Via Valeria, che connotandosi come via militare collegava Messina a Lilibeo e che viene realizzata dopo il 202 a. C., quasi a ridosso del periodo ipotizzato da Levinio. La mappa ha il limite di rimanere ampiamente sconosciuta nello sviluppo del tracciato intermedio, mentre risulta più dettagliata nelle distanze espresse in miglia romane tra le città del territorio. Un dato è possibile estrapolare da tutto ciò, ed è che ad oggi in essa non è riportato alcun toponimo che possa riferirsi ad un luogo, militare e non, ubicato nella marina di San Marco che possa riferirsi ad un insediamento che prende il nome di Pietra di Roma.
A questo punto la domanda che sorge spontanea è: quando compare ufficialmente nelle mappe il toponimo e la conseguente fortezza di Pietra di Roma?
Prima è utile considerare il toponimo per poi indirizzarci sulle tracce delle mappe della Sicilia. Ad oggi, è ancora possibile riscontrare come una parte del primigenio complesso militare poggi su un affioramento roccioso, caratteristica questa che nella piatta pianura fu ritenuta utile a fornire una robusta base di fondazione alla costruzione, considerandolo di fatto un piccolo promontorio.
Ferdinando Maurici nella sua importante opera I Castelli medievali in Sicilia, dai bizantini ai normanni, rileva come manchino nella Sicilia normanna anche i toponimi castellani “Pietra”, documentati nel X e XI secolo nell’Italia settentrionale: ‘Pietra’, corrisponde in alcuni casi a vere e proprie forme d’incastellamento rupestre…, più spesso soltanto a castelli costruiti su rupi isolate (‘Petra di la Margana’, ’Petra di Belici’, ’Petratagliata’). Comparirà in Sicilia solo nel XIV secolo. E ciò anche se altri toponimi di questo gruppo, relativi in verità a semplici feudi trecenteschi disabitati e privi di castelli (‘Petra di Asgottu’, ‘Petra de gayto’, ‘Petra di lu Bulimeli’), potrebbero discendere in effetti da castelli normanni. Quindi in considerazione dello studio affrontato il toponimo “Pietra”, al pari di altri in Sicilia, compare nelle marina di San Marco intorno al XIV, pur rimanendo ancora sospeso “Roma” che non sembra avere legami né con Levinio, un nobile romano, né con la capitale dell’Impero, Roma. Il vero dilemma storico è riuscire anche a comprendere quale tra “Pietra” e “Roma” sia comparsa per primo. Tentiamo una lettura tenendo conto delle vicende storiche dell’isola.
La storia di Sicilia è fatta di sovrapposizione di genie, di popoli che con ferocia si accavallano e si combattono fino all’annientamento per il controllo di una terra che agli albori del primo millennio trovava nell’agricoltura e nelle fertili pianure dell’isola la vera ricchezza e risorsa.La fine dell’impero romano aveva lasciato una campagna fortemente sviluppata e florida, ricca di ogni bene che agli occhi dei popoli del nord, assediati da inverni rigidi e scarsamente riscaldati, offriva quell’immagine di paradiso in terra, al pari degli uomini del sud, arsi da una sole implacabile e con scarsezza d’acqua, che vedevano nelle terre dove andava a morire il sole un’opportunità. Terra di confine e di scontro, prima dell’arrivo degli arabi, la Sicilia era totalmente avvinta dalla cultura di Bisanzio, che l’aveva assoggettata al proprio dominio e con Siracusa che ne era in qualche modo la città più importante, tanto da rivestirne il ruolo di capitale nel 663 d. C., con l’imperatore Costante II. All’orizzonte della storia per la Sicilia i segnali delle frequenti incursioni islamiche presagiscono dense nubi. Tra l’827 e il 902 con lo sbarco a Mazara del Vallo, anche se l’ultima città bizantina a cadere fu Rometta nel 965, l’isola fu totalmente assoggettata dagli Arabi. Ed è proprio in questo particolare momento che nella vicina San Marco, città che le fonti attestano disabitata, sul piano Grilli una comunità d’elleni che risponde al nome di Demenna, sembra resistere agli assedi arabi. Pietra di Roma si trova proprio sotto il piano e per gli arabi, gli abitanti bizantini dell’isola hanno un nome, una caratterizzazione fonetica “Rūm (al-Rūm)” ed i casali sparsi per le campagne assumo il nome di “rahl”. Il termine Rūm è evidentemente connesso con il vezzo bizantino di definirsi col termine di “Romani” (Ρωμαίοι) che seguendo la pronuncia bizantina in area italiana veniva reso col termine “Romei“*. Potrebbe configurarsi che gli arabi indicassero il luogo come pietra dei Rūm (dei bizantini) un toponimo o un luogo insediativo, assoggettato in seguito nella forma nota in queste terre, tanto da persistere anche dopo l’arrivo dei Normanni in una forma che, richiamandola “pietra” su cui si erge, diventa Pietra dei Romei e si traslittererà nel definitivo Pietra di Roma tramandatoci.
Questa è una probabile genesi del toponimo, la certezza che possiamo ancora una volta dedurre proviene dai documenti a noi pervenuti.
Dobbiamo rilevare, anche per sgomberare il campo da ogni dubbio, come nelle cronache arabe vengano solo evidenziate ben quattro assedi alla città di Demenna, in special modo quello del 901 posto da Ibrahim, che arrivato con la flotta da Palermo, prese terra sul litorale sotto il Piano Grilli, per porre l’assedio alla città. I resoconti non ci forniscono informazioni sul territorio e i suoi avamposti, limitandosi a riportarne solo incursioni e devastazioni, senza considerare che, vista la sua vicinanza al mare, Pietra di Roma poteva risultare un pericolo e quindi un caposaldo da conquistare.
Il geografo arabo Ibn El Idrisi, nel 1130 d. C., nel suo periplo dell’Isola descrisse la pianura sotto Sant Marku, ma senza menzionare il sito di Pietra di Roma:
Da qui a dieci miglia [occorre] Sant Marku, vasta rocca con avanzi d’antichità, grande numero di colti, mercati, un bagno e copie di frutti e produzioni agrarie. [Stendesi nel territorio di questo paese] una pianura con vasti campi da seminare, [lieta di varie] polle d’acque. Crescevi d’ogni banda la viola mammola che imbalsama l’aria; e vi [si produce anco] di molta seta. Quivi si costruiscono delle navi con legno [che tagliasi] nelle vicine montagne.
In questa descrizione, l’unico dato che viene fornito si riferisce al cosiddetto cantiere navale e al corrispondente approdo. Alcuni giustificano la presenza di Pietra di Roma come caposaldo a controllo di queste importanti attività. In verità altri storici ubicano l’approdo e la cantieristica navale alla foce del Rosmarino. Un dato è certo, Edrisi non descrisse alcun complesso militare nella piana.
Così il Meli nel suo studio sulla città di San Marco, così descrive il castello.:
Fu fabricato questo castello in quella vasta pianura di fertili terre, ma sopra un masso di soda pietra che la natura vi fece quasi appostamente per essere pedamento adatto a questo castello. V’erano sino ai giorni nostri (1745) due altissime torri, una rotonda e l’altra quadrata, delle quali v’esiste ancora parte di fabrica. Furono sudette già in questo secolo rovinate come stanche di stare in piedi pella loro antichità. Collaterale alla torre rotonda v’esiste una gisterna seu fossa dove passa fama che quei Gentili avessero rinserrato non pochi martiri cristiani, se pure non volessimo credere che sia stata fatta per conservarsi l’acque piovane necessarie nell’invasione de nemici per le quali non si vede in questo castello che vi fosse fabricato altro stagnone. Passa fra gl’antichi la fama, che successivamente entrata la cristianità nel Regno, sia stata padrona di questo castello la vergine S. Tecla, e che le sue ceneri fossero medemo sepolte se pure tutto ciò credito prestar vogliamo.
Possiamo ragionare su due ordini di motivi che possano inquadrare cronologicamente la costruzione del complesso militare. La prima ci porta direttamente all’editto voluto da Ruggero dopo la conquista dell’isola nel 1072 che vieta a chiunque di costruire torri o castelli. Tale editto viene confermato sia da Ruggero II che, infine, da Federico II e investe la corona come unico organo autorizzato alla costruzione “de novis aedificis… deprohibita in terra demanj constructione castrorum“. Ed è storicamente assodato come la città di San Marco, sia stata subito scelta dal Conte Ruggero come sede comitale dell’Isola, ospitando a più riprese la corte e la Regina Adelasia (1101-1112) che la preferiva come residenza. Il castello edificato sulla sommità del centro è la testimonianza di come qui la volontà edificatoria sia stata più evidente, compreso il bisogno di militarizzare e proteggere l’accesso a San Marco. La seconda sposta la probabile genesi edificatoria a quel periodo detto dei Quattro Vicari di Sicilia, in cui l’anarchia baronale dal 1377 al 1410, potrebbe aver visto la presenza dei maestri edificatori sulla Pietra di Roma, tenuto conto che, come vedremo, il primo rivelo documentario del 1398 lo cita come castrum sive fortilicium ai piedi di San Marco, oltre che menzionarlo in una successione per ribellione al re Martino con il passaggio dal barone Federico d’Aragona a Peralton de Labaur (1). Nel 1409 Guarniero Ventimiglia acquista il complesso di Pietra di Roma, e al 1423 risulta in concessione insieme “castrum et feuda Petre de Roma, nec non Casalia vocata Caprisusu, Mirti, Belmunti (Frazzanò), Mirtirio et Caprijusu cum eorum feudis“. Il 19 gennaio 1497 il Vicerè Juan de La Nuça, impartisce l’ordine da Messina di ispezionare le torri e i castelli da Milazzo fino a Palermo, tra cui anche il castello di Pietra di Roma, incluso nell’elenco (2). Questa tempistica costruttiva anticipa le licenze che a partire dal 1468 vengono rilasciate, dopo opportuna domanda detta licentia aedificandi et merguliandi, per edificare lungo i litorali torri o fortilizi (3).
In un documento dell’11 Maij, XIII Indictionis, del 1525 il luogo viene menzionato come Petra di Ruma, segno questo che più di un errore o storpiatura vede la presenza del vecchio toponimo nella sua forma primigenia. Questa informazione non è suffragata dalle mappe della Sicilia. Ma esiste tuttavia una prima localizzazione riportata nel libro di Buondelmonte, Cristoforo, Cartografo, il “Liber Insularum Arcipelagi” edito nel 1465-1475, che riporta un toponimo riferito a Petra de Roma, preceduto da altra località che prende il nome di raroma, mentre in un’anonima del 1520 rileviamo una località appellata Pietra molto più in alto, vicino Mirto e non sulla marina. Nel 1557 Giulio Filoteo degli Omodei lo descrive come “fortezza con fossato“, informazione non più riportata da alcuno, specialmente dagli architetti militari postumi (4). A metà dicembre del 1553 il Conte Federico III, cede l’antica costruzione a Nicola Barresi barone e Giovanni Sollima barone di Castania, i quali, intravedendo nel sito sia l’abbondanza d’acqua sia le potenzialità delle strutture, decidono di investire nell’arbitrio della cannamela per nove anni riaprendo la produzione del trappeto, adducendo l’acqua necessaria dal torrente Favara. Sarà questo il motivo per cui non verranno mai ritrovati stemmi nobiliari né del casato Filangeri né di altri nel palazzo? Solo nel 1587 la sua ubicazione vedrà nell’Atlas di Joan Martines una collocazione vicino alla costa, in conseguenza soprattutto della prima ricognizione fatta dall’architetto militare Tiburzio Spannocchi nel 1580, che la localizza con correttezza, avendone rilevato in un piccolo disegno la posizione e la funzione. E’ il primo disegno del complesso fatto e quello che si presenta è un massiccio fronte costiero, con un torrione “maschio” merlato e alla sua sinistra una torre quadrata d’angolo di cortina con due fronti aggettanti sulla destra, che restituiscono l’impressione di due corpi sopravanzanti e sullo sfondo l’acquedotto. Nel descriverlo lo Spannocchi menziona la sua funzione di arbitrio della Cannamela, ma nell’impressione del disegno, sembra essere un avamposto di derivazione militare abbastanza compatto e molto munito. Un forte con tre torri di cui primeggia un “torrione centrale” a cui si affianca l’antico acquedotto cinquecentesco, con la chiesetta di San Giuliano lì vicino, evidenzia che la sua funzione dal 1580 è sì commerciale, ma continua a rivestire una funzione militare. La descrive di buona fabbrica, di proprietà del Conte di San Marco e che sarà bisogno al castello di Pietra di Roma tenere guardie, segno questo che l’impegno gravoso sulle finanze del Conte non permette di fornire un presidio militare continuo. Il disegno nel complesso mostra una struttura in buono stato di manutenzione, in attività, figlia sicuramente della necessità che viene rilevata nei capitoli della Città di San Marco nel 1498 in cui oltre ad emergere il bisogno di una ristrutturazione del complesso, gli abitanti si dichiarano esentati dal contributo,
… item volino essi Universitari quanto alla fatto della conza (riparazione) et fortificari lo Castello Petra di Roma o per murammi (lavori di muratura) tanto di dentro come di foro, che non siano tenuti essi né loro eredi per nullo tempo a nessuna cosa né fortezze di esso Castello, etiam per comandamento della Maestà dello Signore Re venisse, detto Signor Conte sempre liaggia a cavari di danni spisiconzi forti alle prenominati Universitati. Item volino ditti Universitati che lo sopreditto Signor Conte digiarestituiri tutti lipigni chi ficilevari di ditti Universitati per la conza dello Castello preditto di Pietra di Roma, e che si sua Signoria non l’avissi, li digiapagaril’equivalenti che valino.
Il riporto del documento, oltre che la totale spesa della ristrutturazione a carico del Conte, afferma che l’approvvigionamento dei materiali deve essere corrisposto per l’intero valore dei bene, quindi possiamo affermare che intorno al 1500, al complesso di Pietra di Roma, furono fatti interventi importanti e sostanziali, che sicuramente interessarono la (ri) o costruzione del Palazzo con la sua prima trasformazione in duplice funzione, da avamposto a luogo commerciale.
A questa segue pochissimi anni dopo, 1584, il rilievo di Camillo Camilliani consegnato in ogni sua parte nel 1587 che, dopo lo Spannocchi, restituisce un disegno molto più accurato e realistico, segno che l’architetto si soffermò maggiormente nel rilevare una rappresentazione planimetrica essenzialmente più accurata dal punto di vista militare. Nel disegno è tenuto molto in considerazione il focus bellico, l’obbiettivo di tutto il viaggio, che mostra la torre cilindrica con la sua parte basamentale, la pietra, a fianco sulla destra una torre merlata e a sinistra quello che sembra il palazzo. La torre cilindrica è aggettante e molto alta, con una corona merlata che sembra sostenuta da bertesche costruite fra la merlatura in aggetto alle mura, espediente per poter battere gli assalitori restando al coperto. Il Camilliani restituisce anche altre strutture che si rinsaldano agli elementi disegnati con ormai il noto acquedotto. La sua duplice funzione, militare e commerciale, sembra così assodata. Il Camilliani non riporta la necessità di costruire nuove strutture, né il bisogno di lavori, limitandosi a riportare,
… Al detto fiume di Zappulla comincia il territorio della terra di San Marco et per miglia…verso Ponente, insino al fiume della Rosamarina; et nel suo ci si fanno cinque cavalli di guardi, delli quali ne manda due Mirto et due San Marco et uno il casale di Capri, ch’è casale di San Marco, et fanno guardia conforme gli altri; et due guardano dal detto fiume di Zappulla insino alla torre di Pietra di Roma verso Ponente, ch’è lontano detto fiume miglia…et gli altri tre da Pietra di Roma insino al fiume della Rosamarina, che son milgia…et si avvicendano a lor modo, purchè il detto spatio resti ben guardato et a tempo di scandalo, ogni sera, li mandano due sopraguardie et quando scuoprono vascelli nemici, avisano alle guardie di piedi, qui sottoscritte et si parton tre cavalli sonando la brogna, uno va ad avisare il casale di Capri, uno a San Marco et l’altro a Mirto et il detto San Marco è lontano di marina miglia quattro et il detto fiume della Rosamarina è finaita di San Marco, onde comincia il territorio di Militello. Nel territorio di San Marco si fanno tre corpi di guardia, per angaria, di tre huomini per posta, et la prima posta sta a una porta antica della detta terra, che riguarda la marina, che sono tre huomini che stanno fermi a detto luogo. Un’altra guardi sta alla Nontiata, detta il Piano delle Forche, ch’è lontano dalla detta porta un tiro di scopettata, per la volta della marina eta stanno fermi al detto luogo…”, oltre che descrivere come “passo et ricetto de’ viandanti, ove per esservi fundaco non è sera che non capitano et ricettino almen dieci vascelli nemici, [che] ponno essere sopragiunti, […] e possono depredarli et prenderli, massimamente di notte, […] perciochè il corsale per onde meglio gli pare, può andarsene lido lido con la pala in terra et all’improvviso assalire chi davanti lui trova.
Come si evince non ci sono suggerimenti per migliorare quanto costruito ma ci sono importanti indicazioni per ripristinare una guardia giorno e notte. Nel 1620 Jacopo Callot, restituisce una immagine dal mare che ritrae il castello e l’abitato di San Marco e la linea di costa con a sinistra la presenza di Pietra di Roma e di un altro complesso sotto l’abitato e a pochi metri dal mare che sembra essere un altro piccolo complesso fortificato, forse torre Marco?
Mentre risulta quasi inedita una mappa reperita nel fondo archivistico della Società di Gesù a Roma, allegata alla richiesta fatta dal Conte di Naso, Cibo per l’apertura di un Collegio gesuitico dipendente da quello messinese nel 1631. In tale mappa, salta subito all’occhio la presenza della rappresentazione dell’incastellamento di Pietra di Roma.
Quello che si evince dai disegni è il processo di passaggio e trasformazione che caratterizzerà l’architettura militare siciliana ad un certo punto della sua storia. Ci viene in aiuto il Piazza che così descrive questa fase nell’excursus dell’insediamento militare isolano:
… il castello siciliano non è edificato dai Normanni, ma è il frutto di una più antica evoluzione: la Sicilia Bizantina del VI secolo sviluppa le proprie fortificazioni, a volte su preesistenze del mondo classico, implementando la tipologia del castrum di età imperiale. L’Impero Musulmano, che nel IX secolo conquista l’Isola, reimpiega e modifica le fortezze bizantine. Infine i Normanni, nei secoli XI e XII, oltre a costruire nuovi manufatti, importano la tipologia che autonomamente hanno messo a punto, e la innestano nelle esperienze più antiche, generando il tipo arabo-normanno. In seguito si avviano le duecentesche sperimentazioni federiciane che concretizzano una nuova tipologia, ove l’efficienza bellica si coniuga ai criteri compositivi di ordine geometrico e simbolico. Le successive esperienze aragonesi, condotte dalla nobiltà siciliana, sono contraddistinte da un preciso rapporto di dominio e complementarietà col territorio, controllato dalle fortezze. Tali manufatti costituiscono una testimonianza architettonica significativa a vari livelli: storico, antropologico, architettonico, paesaggistico, e rappresentano, per le ragioni suddette, una singolarità dell’architettura castellana nel più ampio panorama castellologico nazionale. La Storia Moderna assiste ad una profondissima svolta: la fortificazione feudale non regge il passo con l’aggressività dell’artiglieria ed è pertanto dismessa, trasformata in residenza, impiegata come carcere o sede del potere militare.
Spiegheremo più avanti nel dettaglio perché su Pietra di Roma l’incastellamento vedrà un ampliamento con una nuova struttura civile autonoma e come risulti improprio parlare di castello.
Pietra di Roma non si evolve militarmente, anche se lo spazio non manca. Si preferisce mutare piuttosto che innovare, segno questo che non è il demanio a decidere, ma la volontà ben precisa del Conte di San Marco, che amministra e si occupa del caposaldo. Non dimentichiamoci che fino al 1600 nell’industria della cannamela siciliana s’intravvedeva un’occasione economica non indifferente, tanto da sembrare risolutiva per il futuro di un’asfittica economia siciliana. Purtroppo questa fragile industria, molto sensibile ai cambiamenti climatici accumulerà parecchi debiti e non reggerà la concorrenza della canna da zucchero caraibica e sudamericana. Quello che è certo è il punto di vista del Camilliani, che, evidenziando la torre cilindrica, ne rileva la funzione di vedetta e di controllo militare, questo torna utile per due ordini di cose, di cui il primo chiarifica la tipologia della torre, che assume quella connotazione conosciuta come modello a “torre saracena” (atta ad avvistare i legni saraceni), che è una ricorrenza nel panorama siciliano (vedansi le torri di Sant’Agata, di Sant’Elia a Malvicino e quella di Piraino, ritratte nelle ricognizione, ma che rimandano al secondo tema), mentre il secondo, che è quello dell’emergenze militari tipiche della Sicilia del XIII-XIV secoli e che vede in questa forma l’elemento più veloce da costruire. Le bertesche stesse presenti nel disegno rimandano ad una funzione che verrà superata nel XIII con strutture più resistenti in seno alle quali la torre riacquista la funzione della prima fase edificatoria. Questo non esclude la possibile preesistenza di una facies bizantina che si adatta nell’elemento militare a supporto dell’enclave di Demenna, così come proposto a suo tempo negli studi del Prof.re Camillo Filangieri, che aveva evidenziato come l’insediamento dei Rūm, Demenna, avesse sviluppato nel territorio circostante una complessa rete di vedette e avamposti militari.
Abbiamo accennato come nel disegno del Camilliani compaia quella che sembra una piccola costruzione somigliante ad una piccola chiesa di campagna. Per giusto spirito di ricostruzione storica ci rivolgiamo al Meli che ci fornisce un documento in cui si attesta che
Il 19 giugno 1585, nella marina presso la venerabile chiesa di San Giuliano sotto il castello di Pietra di Roma facevasi un’altra fera delle quali io stesso incaricato da sua eccellenza padrone non potrei rinvenire nessuna scrittura. Solamente ritrovai due nati di Longi di decrepita età, che furono Tomaso di Bartolo d’anni 103, e Silvestro Notaro d’anni 100, si ricordavano detta fera, e per gl’atti della corte di Longi deposero aver concorso a detta fera mentre erano giovanotti e recavano cofinelli di castagne bollite per venderle ….
L’informazione della presenza della chiesa è confermata anche da un altro documento che ci informa come
… esisteva questa chiesa nella piana sotto il Castello di Pietra di Roma, presso il mare dove esistono le mura; fu difabricata dall’eccellente don Giuseppe Filangeri conte nell’anno 1710 perché minacciava rovine. Era questa chiesa iure patronatus degl’eccellenti conti di questa; le rendite restano a loro eredi.
E’ interessante notare come a distanza di tanti anni è presente nella struttura adiacente al palazzo una edicola votiva vuota che si affaccia sulla strada. Il luogo sembra preservare con deferenza il ricordo della presenza di un qualche altare che possa rimandare a San Giuliano o a Santa Tecla.
Non era l’unica chiesa presente, in quanto abbiamo già riportato che, all’interno del castello vi era una chiesa in cui si venerava Santa Tecla, risultando così la patrona di Pietra di Roma. L’informazione riportata nel documento dice che, “Nell’interno del Castello e nel giuro delle stanze al ponente una mezzana se ne vedeva pitturata ma alla mosaica o si fosse alla greca, con delle molte figure e le molto iscrizioni, starei per dire simili a quelle di San Pietro di Deca”. Più avanti aggiunge, “e nel castello di Pietra di Roma non solo vi fu la chiesa degl’idoli, ma pir’anche esiste la moschea dei Saraceni come scrissi nella descrizione di questo castello”, in realtà questa notizia non è confermata, in quanto il Meli si riferisce al castello di San Marco e non a Pietra di Roma. Era sovente per quell’epoca riportare come moschee le sinagoghe ebraiche, segno della numerosa presenza giudaica a San Marco fino al 1498.
Per dare l’idea della frequentazione del palazzo di Pietra di Roma e della sua funzione abitativa, rileviamo la nascita di Don Vincenzo Filangeri, unico Conte a vedere la luce nella marina alla presenza di un ministro regio seriamente venuto per cautela dagl’altri successori e pretensori dello Stato, morto poi nel 1699.
Nella cronologia dei fatti importanti riportati dobbiamo citare quello della domenica del 10 maggio 1739 verso le sei, vi fu una scossa ben sentita da tutti, e poco doppo ve ne fu un’altra terribile, che fece grandissima danno alla marina…, nel fondaco di Pietra di Roma cadde la camera alta verso occidente.
Ritornando alle fonti, rileviamo come nella mappa di Guillaume de Delisle del 1720, Pietra di Roma è ben visibile e caratterizzato da un segno geografico ben definito, tanto che l’Amico nel descrivere il complesso nel 1750 lo elogia come ben munito d’artiglieria e con più strutture, evidenziandone anche una chiesa e un’osteria, tutto questo però cozza con le informazioni fornite dal Meli, che al 1745 danno le strutture militari principali già collassate o in cattivo stato di manutenzione, ma comunque impossibilitate a svolgere una qualsiasi funzione militare, segno forse che i cinque anni che intercorrono dalle due informazioni si siano fatti lavori di rispristino e d’adeguamento.
Questa informazione avvalora solo i racconti del Fazello, che oltre al fondaco di Pietra di Roma, conta nove osterie, mediocri casini con assai case del nutricato, giungendo a dire che di non averne trovato in questa riviera delle migliori.
Sulla conversione di parte del complesso, dopo il fallimento dell’industria della cannamela, con la tentata semina del riso, il Meli riporta:
Ad ogni maniera è di preggio in S.Marco che quest’acqua per la via delle colline che alla marina soprastano viene condotta sino al Castello di Pietra di Roma, circa un miglio e mezzo distante dalla sorgiva (Favara, nome arabo) dando all’ortaggi inferiori universali il commodo; ed arrivata in Pietra di Roma se bene al presente serva per uso d’un molino, vi fu però ne secoli andati il trappeto delle cannamele e nel secolo presente vi fu il riso seminato in quelle convicine terre; quale arbitrio del riso fu remosso per aversi conosciuti il notabile danno recava al popolo per l’infezzione dell’aria (malaria?), avendo seguito grande mortalità come appare …
L’esperienza viene annotata anche fra le più nefaste cause di morte:
… la seconda mortalità avvenne a causa che l’eccellente don Giuseppe Filangieri conte di San Marco volle nella Piana di Pietra di Roma seminarvi il riso. Quel seminario apportò danni: il primo della mortalità delle genti che continuò per più anni finchè il popolo quasi si assuefece in quell’aria pestifera e puzzolente: il secondo che le donne divennero sterili, né più producevano i figli colla precedente confluenza. Durò questo seminerio sino allo 1726, nel quale succedendo nel Stato l’eccellente don Vincenzo Filangeri, tosto per amore dei vassalli suspese detto seminerio. Con tutto ciò le genti restarono mal’affetti, e le femine non tornarono più a fare figli se non che poche.
Nella rappresentazione della mappa di Franco Arancio nel 1847 il nostro complesso scompare. Sono passati meno di cento anni dalla descrizione dell’Amico ed il sito sembra avviato verso un lento abbandono.
La sua ultima ed ennesima conversione vedrà le sue strutture funzionalizzate in stazione di Posta fin dal 1735. La corsa da Palermo a Messina per la via delle marine era in una posizione privilegiata rispetto a quella delle montagne, dato che poteva congiungere le due città poste sul litorale tirrenico della Sicilia con un percorso di circa 172 miglia, più corto di 8 miglia rispetto alle 180 sulle montagne. Grosso modo dal 1735 al 1839 la corsa “delle marine” è preminente rispetto a quella “delle montagne”, mentre dal 1839 con l’apertura della strada rotabile interna perde gran parte della sua importanza. Nel 1735 il servizio tocca le seguenti stazioni: “Termine, Cefalù, Finale, Castel di Tusa, S. Stefano di Lanza, Fundaco di Caronia, Acquedolci, S.Agata, Turrinova, Naso, Scinà, Patti, Presti Paulo, Barsalona, Puzzo di Gotto, Melazzo, Messina”.
Nel 1784 avviene un cambiamento, forse mutuato dall’emergere di nuove realtà insediative sulla costa, tanto da modificarne l’itinerario e nel nostro caso anche il nome, visto che risulta S. Marco e non Turrinova, o il suo fondaco: Termine, Roccella Cefalù, Castelbuono, Tusa, o Casteldi Tusa, Motta D’Affermo, S. Stefanodi Camastra, Caronia, S.Fratello, Sant’Agata, S.Marco, Naso etcc.
L’itinerario del 1790 viene modificato ancora, cercando di migliorarne la percorrenza, così registriamo le stazioni per la nostra zona di Fondaco di Caronia, Fondaco delle Acquedolci, Fondaco di Sant’Agata, Fondaco di Torrenova, Brolo e così via fino a Messina.La località assume diversi nomi, Turrinova e poi San Marco, mentre dal 1790 possiamo certamente affermare che Pietra di Roma è identificabile senza ombra di dubbio come una stazione di posta.
Nel novembre 1819 viene riformato profondamente tutto il servizio postale isolano. Anche i percorsi vengono modificati e i corrieri ora non si appoggiano più presso i malandati fondachi, ma presso appositi uffici postali, ma non per Torrenova che nel 1820, anno d’entrata delle nuove fermate verrà riconfermata.
Mentre nell’agosto 1838 entra in funzione in Sicilia il sistema del trasporto della corrispondenza con vettura corriera. Anche la corsa di Messina marine, seppure non interessata, viene modificata, e il percorso si appoggerà ancora a Torrenova.
Le cosiddette “corse traverse” vedranno una corsa da Torrenova verso Naso e viceversa, programmate il martedì e venerdì.
Anche questo servizio s’interromperà con l’avvento del treno dando definitivamente l’avvio nel complesso di Pietra di Roma all’abbandono e all’incuria, che si protrarrà in alterne sfortune fino ai giorni nostri. Il quadro cronologico si chiude con quest’ultima informazione, datata 6 febbraio 1867. Sul Giornale di Napoli n° 36, fu pubblicato il Decreto di Vittorio Emanuele II del 30 dicembre 1860 relativo alla dismissione delle opere fortificate ritenute ormai inutili dalla nuova nazione, tanto che molte finirono all’asta. Il complesso di Pietra di Roma non rientra in quest’elenco, in quanto risulta solo la Torre Nuova o San Marco lasciando supporre che del suo passato militare non ci fosse più memoria. Il bene allo stato attuale, per la parte che interessa il palazzo, è stato acquistato dal Comune di Torrenova che ha approntato anche un progetto di recupero che però ancora non ha ancora trovato i necessari finanziamenti, mentre niente sappiamo in merito alle strutture che insistono sulla “pietra”.
L’impianto planimetrico
L’impianto planimetrico dell’intero complesso è molto grande e sembra avere a grandi linee una forma regolare aperta verso sud, mentre a nord, il fronte è compatto e completamente occupato dalla quinta scenica del palazzo. La dimensione notevole del lotto è ricavabile dall’osservazione a volo d’uccello, grazie alle nuove tecnologie messeci a disposizione, delle strutture che restituiscono l’idea di un perimetro delimitato, anche se, da un complesso denominato “castello”, ci saremmo aspettati uno spazio delimitato da una cinta muraria. Invece la forma aperta cozza con l’idea di un complesso fortificato chiuso, come i vicini castelli di Acquedolci e di Sant’Agata raccontano. Non si ravvisano bastionamenti o cinte murarie articolate o leggibili opere di difesa passive. Niente oggi lascia intendere questo, siamo in presenza di un’estensione di ambienti che va oltre la famosa “pietra” di fondazione con funzioni diverse. I tre lati disegnano una corte interna su cui si affacciano i magazzini e le stalle che completavano la logistica del complesso. Sia il trappeto della cannamela, che la risaia, si sovrappongono nell’uso del costruito, forse ne allargano i confini, ma senza intaccare o alterare la funzione degli spazi. Il palazzo stesso lambisce la famosa pietra, appoggiandosi in realtà ad una torre quadrata che sembra nascosta nel disegno del Camilliani e che emerge in quella dello Spannocchi. Anche la stazione di posta andò a sovrapporsi lasciando per il cambio cavalli e la sosta le strutture già presenti. Una strada interna monte/mare, divide in due la corte interna e termina in corrispondenza dell’ingresso interno del palazzo. La sua giacitura ha un andamento obliquo, segno di una strada con andamento diverso da quella di riferimento odierno. Queste considerazioni personali spingono a ipotizzare che il termine “castello” fu attribuito impropriamente dal contado, che vedeva in quelle strutture un diverso approccio abitativo o una certa maestosità; ancora oggi mi viene riferito da un residente la convinzione storica che “la regina abitasse in quel palazzo”. Se di incastellamento vogliamo parlare dobbiamo volgere la nostra attenzione alla famosa “pietra”, che fu sicuramente scelta come luogo idoneo per allocarvi in principio una torre cilindrica. A questo primo nucleo generativo segue l’ampiamento delle strutture a uso militare occupando lo spazio disponibile tutt’attorno alla torre così da implementarne le funzioni. Sono d’esempio la torre quadrata e il bastione. L’analisi litica dell’apparecchiatura delle murature ci può fornire interessanti spunti, seppur con il limite dell’impossibilità d’accesso all’interno, ipotizzando varie fasi edificatorie sul fronte del palazzo e attorno alla torre. Tralasciando in blocco il palazzo, che ha una sua coerenza assestante, la nostra attenzione è rivolta a quella porzione di muratura sopravvissuta adiacente alla sinistra dell’ingresso principale del palazzo. Si ha l’impressione di essere in presenza di una definita costruzione con delle caratteristiche uniche, differenti sia dal palazzo alla sua sinistra cui si appoggia, sia da quello alla sua destra.
Tutte e due le murature non si legano alla cosiddetta torre, ma restano autonome compartimentandosi in tre blocchi distinti; solo una struttura in cemento armato, successiva, le legherà in elevato. Questo è possibile determinarlo dall’osservazione diretta del fronte prospicente la strada, rilevando come la muratura rimanga staccata, adiacente e non ammorsata al baluardo, segno che questo abbraccia due fasi edificatorie differenti e lontane nel tempo.
Alla base la torre poggia su una doppia fila di mattoni in cotto, abbastanza spessi, che servono a regolarizzare la piattaforma su cui poi si costruirà la torre. La tipologia del mattone richiama il classico mattone bizantino, molte volte rintracciato in San Filippo di Fragalà e in numero minore a Capo d’Orlando, che presenta uno spessore maggiore e una superficie molto grande. Questo è un elemento presente solo alla base della torre quadrata e non in altri contesti edificatori, fermo restando l’impossibilità di verificarlo nella torre cilindrica. La torre è chiusa tra i due cantonali d’angolo, anch’essi presenti solo qui, ma con evidenti rimaneggiature in elevato. Sono almeno tre gli interventi succedutisi sul cantonale di sinistra: il più antico è l’originario angolo formato dalle pietre in arenaria lavorate alla base, piccoli conci ammorsati; il secondo vede un rattoppo con rinzeppatura mista di mattoni ceramici a sottiletta e il reinserimento di alcuni conci di arenaria, probabilmente riutilizzati perché non danneggiati da eventi che non conosciamo; il terzo intervento, il più recente, vede la presenza di alcuni elementi misti, in tufo e in mattoni pieni che saranno cementati fino al colmo in sostituzione di elementi forse fortemente danneggiati. L’ultimo intervento, abbastanza recente serviva a preparare la struttura sottostante a reggere il peso dell’abitazione. Il baluardo d’angolo con il dente smussato presente accanto alla torre, ha subito seri rimaneggiamenti sia per la presenza dell’abitazione, sia per l’intervento esterno della scala che si aggrappa alla muratura. Alla sua base, spostata verso est, notiamo la presenza di una porta, oggi riempita con materiale litico, segno di una primaria funzione d’accesso al baluardo oltre che servire a raggiungere gli ambienti soprastanti. Ad onor del vero, l’impressione che si ricava dalla muratura del bastione è che sia costruita nello stesso momento dell’acquedotto e del palazzo, presentando notevoli congruenze.
Nell’angolo smussato lì dove un moderno muro in cemento armato si appoggia, notiamo un diverso trattamento, con la presenza di cantonali differenti in basso in arenaria, con un grande spazio tra i due elementi e con il secondo che vede appoggiarsi un terzo blocco litico abbastanza squadrato, intervallato da altro materiale di costruzione e con il quarto cantonale leggermente più lungo, tutto il blocco che sembra così assestante è racchiuso in una linea retta che sembra sagomare in una forma regolare una porzione di muratura diversa. Seguendo questa linea verso l’alto, notiamo il tentativo d’inserire un elemento che leghi le due murature, ma con la linea che prosegue oltre. Sopra il muro di cemento armato, si notano altri due cantonali che sono posti nella maniera corretta pur rilevando diversi tipi di materiali. La malta che lega la massa muraria è coerente per tutto il paramento murario e dà l’idea di un intervento di rinzeppatura successivo ad un evento o comunque a due fasi costruttive. Il palazzo è sicuramente la struttura che ampliò il complesso determinando un fronte nuovo.
Si sviluppa su tre livelli, con l’asse centrale che lo divide in due ali asimmetriche, è composto da un ingresso ad arco a tutto sesto, sormontato da un finestrone con reggi-mensole in pietra senza ballatoio. La partizione delle aperture vede a sinistra una tripla apertura in elevato composta da porta non in asse con la finestrella e la finestra, mentre l’altro lato è scandito dalla presenza di due porte, due finestrelle e due finestre. Il palazzo sembra monco, mancando di una certa simmetria tra la parte destra e sinistra dove vi è la presenza di una costruzione più bassa che vi si addossa. L’accesso immette in un atrio coperto con una volta a botte notevolmente crepata, oggi in piedi grazie ad un intervento di puntellatura di travi in acciaio a doppia “T”, che la mantiene ancora in piedi e che presenta un ulteriore portale d’ingresso in pietra arenaria, più antico e di diversa fattura rispetto a quello esterno che filtra l’accesso alla corte interna. A destra, entrando, notiamo la presenza di una porta d’ingresso ad arco, oggi occlusa da pietrame, che immetteva nel magazzino a quota di calpestio con due porte già menzionate aperte in epoca successiva. A sinistra i crolli hanno interessato le murature e i solai, collassati nel magazzino sottostante, per questo la terza porta esterna è murata insieme alle due finestre dei piani superiori così da prevenire nuovi collassi della muratura. La facciata interna mantiene uno stile sobrio, con aperture di porte a varie quote e di diversa fattura rispetto alle due finestre centrali che presentano rifasci in marmo rosso di San Marco a differenza della terza che ha subito una ricostruzione in mattoni pieni a faccia vista, con sotto una probabile porta che è collassata insieme alla muratura.
Questa facciata mostra, più di quella principale i segni del logorio del tempo, presentando un crollo alla base abbastanza ampio ma che non ha interessato la muratura sovrastante per via di ben due catene che lo tengono ancora in piedi, unitamente ad un’altra catena che insiste sull’angolo. L’angolo interno ad est, presenta un trattamento notevolmente diverso rispetto al corrispondente a nord, mentre risulta impossibile determinare l’angolo ad ovest, quello vicino alla pietra. Le facciate mostrano rimaneggiamenti vari, dettati dalle mutate necessità con aperture di porte, mentre l’arco interno che mantiene la coerenza della posizione permetteva l’accesso alla scala per raggiungere il primo piano e quello nobile.Tutte queste aperture non in asse con le finestre hanno indebolito in parte la muratura e solo il successivo tompagnamento di alcune ha ristabilito le condizioni statiche iniziali. Ci saremmo aspettati uno scalone monumentale così come si confà a un palazzo di rango, ma a oggi gli interventi operati nel corso dei secoli e l’impossibilità d’accedervi non lasciano questa impressione. La corte interna purtroppo è al momento impossibile da esplorare, presentando recinzioni che ne hanno occluso il passaggio a quanti spinti da un puro spirito di conoscenza si recano sul sito per toccare con mano la vetustà del complesso. La scala esterna si sviluppa verso un solo lato, quello ad ovest e sembra permettere, attraverso una rampa raccordata da pianerottolo, l’accesso ad un appartamento attiguo al palazzo, tanto da confermare come l’ingresso sia mutato nel tempo, ipotizzando che il Conte di San Marco potesse accedere da un diverso percorso, filtrato dalle strutture militari e mantenendolo isolato dal resto del complesso. Mentre alcune serie di foto che è stato possibile visionare presso un archivio privato, ci danno l’idea che anche dall’altra parte ci potesse essere la presenza di una scala, forse ad una rampa, che permetteva l’accesso ad una porta, non in asse con la finestra ricostruita in mattoni, ad una quota più alta rispetto al piano di campagna. L’idea è che in questa zona interna si siano manifestate più pesantemente le trasformazioni che il complesso ha subito. Questo si coglie anche dalla fattura delle porte realizzate in cemento senza alcuna lavorazione e ricavate o riadattate nel complesso. La scala si appoggia sudi una grossa porzione di muro più antico, che ne sorregge la seconda rampa ed ha un piano di posa perpendicolare alla scala e probabilmente al palazzo.
Altro elemento che spicca è il grosso relitto di muratura portante che fa da base a una struttura quadrata, che sembra impostarsi sulla “pietra”, quello che resta probabilmente della torre quadrata ripresa dal Camilliani.
Purtroppo l’osservazione è stata fatta con tutti i limiti del caso, grazie all’intercessione di un proprietario che ha permesso l’accesso a casa sua, attigua al palazzo, per poi entrare nel suo podere alle spalle del palazzo e fotografare il retro. La torre circolare rimane intuibile sul piano della pietra, nascosta dalla folta vegetazione, da cui sporge solo una parte dei relitti di muratura. La copertura con tetto a due falde è completamente crollata, compresi i solai intermedi, tranne che nella struttura a ovest attigua al palazzo, dove la copertura è presente e in ottimo stato. La struttura è completamente esposta alle intemperie e questo ne pregiudica la stabilità, tanto che le murature esterne si trovano ancora in piedi solo per l’accortezza dimostrata in passato, quando si è deciso d’intervenire con una serie di catene che unite alla gabbia posta nell’ingresso del palazzo, ne mantengono la forma. La speranza è che si dia seguito a un intervento completo di recupero del sito, con uno studio approfondito dell’impianto e con la realizzazione di un centro di culturale che sia memoria dell’antropizzazione della piana, sia nelle scoperte archeologiche fatte, che in quelle ancora da fare e che permetta nuovamente di fruire di questa importante struttura. Quest’obiettivo sarebbe decisivo per il Comune di Torrenova che potrebbe vantare una storia da mostrare, in primis, a chi in queste terre ci vive.
NOTE
1) ASPA, Protonotaro del Regno, reg. 2, c. 67v.;
2) AsPa Conservatoria, vol. 122, f.31.
3) AsPa Protonotaro del Regno, vol. 67, a. 1468, f. 79.
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