Livari: la sua storia e il culto della Madonna di Loreto
di Giuseppe Ingrillì
Oggi la memoria storica di un territorio è custodita nelle campagne, lì dove persistono cristallizzate, a differenze della città, insediamenti umani rurali legati al ciclo della terra, che ci raccontano un mondo contadino lontano nel tempo, costruito su fatiche e speranze, che arrivano a noi offese dall’incedere del tempo e dall’abbandono degli uomini, ma pregne di storia.
La contrada Livari è una di queste, un’amena località al confine tra i Comuni di Naso e Capo d’Orlando, immersa in un contesto quasi immutato nel tempo e affacciata sulle isole Eolie; un luogo alquanto riflessivo e silenzioso in cui cercare un po’ di quiete e poter udire i suoni genuini della natura e gli odori degli alberi da frutto in fiore, oltre che custodire una storia raccontata e una memoria architettonica visibile.
Il suo nome è particolare e unico, dai racconti dei cronisti, già dal 1500, la zona era caratterizzata dagli alberi di ulivo, in siciliano “i liveri” e da questo deriverebbe, per contrazione fonetica, l’attuale Livari.
Il primo a scriverne e a dare inizio alla nomea del luogo è Girolamo Lanza nel 1630 nella sua opera “Fioretti di Naso, cose notabili ed antiche consuetudini della Università di Naso“, il testo di riferimento per chi si approccia alla storia dei luoghi di quelle terre. Nel suo dettagliato resoconto di chiese e i santi a cui esse erano dedicate, lo storico prelato, così la descrive:
… Di Santa Maria del Arco siva a menzo miglio di via nella contrada Levara dentro lu loco al presenti di Francisco Lanza, lu quali loco era di Artali Cardona et esso feci la chesia et la titulau di Santa Maria lo Lito. Si fa la festa alli quindici di settembri l’ottava della Madonna et ci concorre la maior parti della terra et ci è gran devotioni.
Considerando oggi il contesto più riservato della contrada, appare quasi idilliaco il pensiero di un luogo ideale dove rifugiarsi per rilassarsi e riposarsi, lontani dai suoni della modernità, mentre al tempo del Lanza, questa piccola chiesa e la concomitante festa, erano motivo per attrarre i numerosi contadini residenti nelle vicinanze, che riempivano di suoni e odori festosi queste colline.
Sempre da Girolamo Lanza, apprendiamo che questa terra al 1630 apparteneva a Francesco Lanza e in passato era appartenuta ad Artale Cardona, la cui famiglia resse le terre di Naso come baronia dal 1444 al 1545. In tale lasso di tempo nella successione dei Cardona, si alternano membri onorati della famiglia che avranno a cuore le sorti di Naso, rendendo possibile una commistione culturale che getterà le fondamenta per la futura affermazione del centro urbano in campo artistico e sociale. Significativa presenza è il monumento di Pietro da Bonate ad Artale Cardona del 1477, posto nella chiesa di Santa Maria di Gesù, che rompe un isolamento culturale, anticipando in campo artistico quella corrente che ha già al suo interno le codifiche del rinascimento. Questo sarcofago e questa famiglia, farà da base per l’avvio di rinnovamento in campo artistico, che culminerà con l’arrivo dei Gesuiti a Naso e l’apertura di una scuola, che accentrerà su quel territorio la formazione di una nuova classe umanistica. I nobili di Naso, vogliosi di replicare il gusto del bello e in competizione tra loro, investiranno risorse nella richiesta di opere di qualità alle botteghe d’arte siciliane.
A Livari, si sviluppa così una presenza e una committenza conosciuta, quella dei Cardona, che realizzarono uno dei primi esempi di chiese costruite vicino e al servizio delle attività economiche della zona, oltre che posta sotto il controllo di un piccolo complesso turrito, che assolveva anche la funzione di presidio verso gli interessi economici della famiglia.
Precisa è la sua genesi edificatoria, che viene riportata dai cronisti e legata a due eventi, la figura centrale è il milite Artale Cardona, che al 1524, attraverso una cronologia riferita dal Portale recita:
… era in quell’anno una torre nella contrada denominata Livario più propriamente Olivari, perché coperta, in massima parte, da piantagione di ulivi, sorgeva, in tempi remoti, su d’un bel poggio, una casina signorile con torre dai bruni merli ed dal ponte elevatoio, in cui veniva a deliziarsi la state, con la moglie beatrice e coi figli, Artale Cardona, cadetto.
Ad essa segue il racconto di Girolamo Lanza che così precisa:
Artali Cardona era sordato dello imperatore Carlo quinto (Carlo V d’Asburgo, 1500-1558) et quando lo inperatore trasio dentro Roma per coronarsi li soldati sacchigiarono Roma (il sacco è storicizzato all’anno 1527) et Artali Cardona fu // scomunicato con li altri soldati per haver sachigiato Roma di Papa Paulo tertio di questo nome. Artale Cardona andau allo Reto e si abutau dentro il suo loco far la chiesa sotto titulo di Santa Maria lo Rito si havese venuto a salvamento in Sicilia et arrivato si scordau del voto et esso stava di casa a Livari dove ci feci la torre con altri casamenti a torno et si scordau di fari la chesia.
Le ricognizioni che riguardarono la Sicilia a partire dal 1570, da parte di Tiburzio Spannocchi e Camillo Camilliani, non hanno mai fatto cenno all’esistenza di detta torre, forse perché, non prospiciente la costa, ma posta in posizione più elevata e arretrata. Non sappiamo a quale tipologia appartenesse, viene solo specificata la sua presenza arricchita da un ponte levatoio, oltre che informarci che la sua funzione fosse quella di “casina” da svago in estate, ma che forse visti i tempi, ricalca quella necessità tipologica e abitativa dei complessi fortificati a baglio, come l’esempio di Piano Croce a Sant’Angelo di Brolo, figlia della necessità di sicurezza e da deterrente alle incursioni saracene. Sono lontani i tempi della minaccia angioina e attuali quelli della minaccia del temuto pirata Barbarossa.
La funzione della torre e il perché dell’elevazione di una chiesa dedicata alla Madonna di Loreto, da parte dei Cardona, ci vengono chiarite dal Lanza:
… successi che una matina a bona hora sbarcaro li turchi di Ligeri (Algeri) et achianaro a questa torre, il quali signor Artali apriu la porta et li turchi lo presero et esso si lassau andari a ruzuluni sotto la torri et dui turchi appreso et assai lo maltrattaro. Alfine per l’intercessione della Madonna di Loreto dent(ro) certi scari e galluni. La moglieri la signora Beatrici Cardona di subito che intesi li turchi si tirau il ponte et tuti si // salvaro. Tra questo menzo che si combattia la torre era venuta la nova alla terra et li soldati calarono a basso et li turchi sentero il tamburo et sindi andaro et non ficiro danno. Detto Artali stetti ammalato dui misi, in livarsi fabricau la chesia dove ci è tanta divitioni et allo spesso si dice la messa et la sua festa si guarda come comandata per antica consuetudini.
A questa versione segue un’ulteriore variante che è figlia di racconti riportati dal Lanza in calce alle pagine del testo come ulteriore sviluppo e che vengono vergati a margine:
… altri dicono che questo gentiluomo fu pigliato quando pigliaro a Lipari (30 giugno 1544) li turchi et fu di questo modo dicono che nel piano dove son li vigni erano tutti olivi et per questo si chiama Livari et li turchi si amuchiaro dentro li olivi et la matina don Artali nixio e lo pigliaro et pigliaro ancora la mogli et figli et si ricattaro.
Un’inedita versione che si aggiunge al racconto tramandato, viene riportata nel libro, “Meraviglie di Dio in onor della Madre, riverita nelle sue Immagini in Sicilia”, scritto da P. Domenico Stanislao Alberti, della Compagnia di Gesù, edito nel 1718. Il capitolo che riguarda questo racconto è “Nostra Signora di Loreto, nel territorio di Naso“:
Un gentiluomo in pena de’ suoi misfatti ha in penitenza di fabbricare una Chiesa alla Madonna di Loreto. Non si cura di farlo, e vien preso da’ Turchi. Ricorre alla Vergine, e n’è liberato in prometterle di fabbricar quella Chiesa, che poi divenne un’arsenale di grazie.
Capo XIX
Nel territorio di Naso in una contrada detta Livàri, cioè a dire, Olivàri, un buon miglio lontana dal mare, vi si vede una Chiesa dedicata alla Madonna di Loreto, in cui per essersi consumata dal tempo l’antico sua immagine in tela, se ne rifece un’altra anche in tela, e in tutto simile all’antica, e dipinta parimente in Roma, col ritratto della Madre Santissima, e del Santo Bambino sù la destra,e la Santissima Casa al di sotto. L’Istorio di questa Chiesa cavasi da un manoscritto antico delle antichità di Naso, e dall’Antica Tradizione, e dalla lettera del Dottor D. Pietro Drago, di cui si è fatta menzione nel capo VII, ed è la seguente.
Artale Cardòna, ricco gentiluomo di Naso, militò un tempo sotto la condotta di quel Borbone, il cui esercito nel 1527, diede sacco alla città di Roma; ed egli vi fu a parte de’ sacrilegi, che vi si commisero. Di poi se ne pentì, e tal dolore ne concepì, che ricorse alla Santa Casa di Loreto, dove fatta un’intera confessione delle sue gravissime colpe, ne fu assoluto, dopo d’essergli ingiunta la penitenza d’avere a fabbricare una Chiesa in onore della Madre di Dio. Artàle per allora disegnò di fare ritorno alla patria, e ivi fabbricare quella Chiesa: ma a poco a poco mancatogli quel fervore, non si dava veruno pensiero d’adempiere quella salutifera penitenza. Adunque lo spensierato Artale si ritirò a diporto nella campagna, mentre se ne stava dormendo in una sua torre, fu assaltato dà Turchi e corsali, e incantenato fu condotto in Algeri Città di Barberìa. Allora l’infelice aprì gli occhi, e considerando quanto ei meritamente patisse quella cattività per li suoi gravi delitti, venivagli al cuore un’impulso di raccomandarsi alla Madre di Dio, e tutto insieme vergognavasi di se medesimo, stato così disleale per l’addietro in fabbricarle la Chiesa, giusta ogni suo dovere. Così contrastando in se medesimo con què contraj affetti, vinse alla fine l’amore della perduta libertà, e la speranza conceputa sù l’intercessione della Madre della misericordia. A lei dunque rivolto, le domanda perdono della troppa sua trascuraggine in effettuare la penitenza impostagli in Loreto, che dovea ridondare in lei; e la si obbliga di fabbricarle la Chiesa, giunto che sia nella patria, quando ella si degnasse di scioglierli quelle catene, e di liberarlo da quella miserabile schiavitudine. Era egli così ben guardato dai Turchi, che non poteva per allora sperare la libertà: ma la SS. Vergine pur’allora gli diè una pronta occasion di fuggirsene, sicché in breve tempo si tornò libero alla sua patria.
Non fu negligente questa volta, Artàle ad effettuare la sua penitenza e la promessa già fatta alla Madonna di Loreto. La prima cosa, che fece, fu di presso alla sua torre nella contrada Livàri fabbricarle la Chiesa, ed egli ricordevole della grazia ricevutane, visse devotissimo alla Madonna di Loreto, sua liberatrice. Ma non fu solo Artàle a ricevere quì nuovi benefici dalla SS. Vergine. Ella vi aprì così largamente la mano della sua beneficenza, che ad ogni parte veniva la gente a visitarla, chi a chiederle qualche grazia, chi a ringraziarla delle già ottenute: e tanto venne crescendo la divozione, che vi andava anche il clero in processione in alcuni tempi. Tra le tavole votive, che pendono presso al suo altare, una ven’ha, che rappresenta in pittura un fanciullo già morto, e riposto alla sua dolente madre su quell’altare, dove si compiacque la Vergine di restituirglielo vivo: il qual miracolo viene ancora confermato da’ Terrazzani piu antichi. Non ha molti anni, che infermatosi a morte un figlioletto, era già ridotto all’estremo, perché per più mesi era peggiorato in sì gran modo, che niuno de’ medici gli dava speranza di vità. Un suo zio n’ebbe dolore, e pietà, e ravvivata la fede nella Madonna di Loreto, a cui non manca di certo il poter dare la salute a un fanciullo malvivo, se poté dare la vita a un fanciullo orto; recatoselo in braccio, presentollo sù l’altare di quella Chiesa, e ben tosto si avvide, che il fanciullo era ben vivo, e affatto sano. Altre grazie di simile riuscimento si lasciano per amor della brevità. La festa, che si celebra in questa Chiesa, alla Madonna di Loreto con solennità maggiore, da’ Nasitani, è a 15 di Settembre.
Oggi l’unica testimonianza di questo racconto è la chiesa, ne mantiene l’ubicazione, avulsa però dalla presenza di una torre o di una cascina, che potrebbe ritornare nei prospicienti ruderi, che forse rimangano a memoria di una costruzione più antica.
L’edificio si presenta nella sua essenzialità costruttiva, senza lasciare spazio a vezzi o decori, mantenendo un rigore formale, arcaico nella linearità delle forme, anche se parzialmente appesantito nell’elevato dal restauro. L’unico elemento che salta all’occhio e la distingue da altre esperienze rurali è la presenza dell’abside, quasi una sorpresa alla vista. La pianta è regolare, un rettangolo, a cui si unisce il piccolo catino absidale semicircolare; la facciata presenta lo schema classico del quadrato con al centro una porta e sopra il timpano triangolare evidenziato in maniera pesante. Unico elemento artistico è lo stemma nobiliare, posto in asse con la porta e che media lo spazio vuoto tra lo stipite e il timpano, con a completare l’asse principale un piccolo campanile sommitale al colmo del timpano ove è ancora presente la campana.
L’interno è semplice e spartano, mostra la canonica aula, che qui viene amplificata dalla presenza del catino absidale e che divide due spazi con funzioni ben definiti, una che accoglie i fedeli e il secondo che accoglie il clero. L’altare completa questo spazio ed è addossato al muro, creando un nàos esclusivo. L’unico elemento filtrante all’interno dello spazio che lo inquadra e lo separa dai fedeli è un arco a tutto sesto, che poggia su due cubi aggettanti, su cui s’imposta l’arco.
Le due finestre abbinate, presenti nei muri esterni, hanno differente forme e sono composti con materiali diversi, i classici conci di pietra per le due più grandi, in cemento le due più piccole.
Andando a leggere l’orditura del paramento murario, possiamo rintracciare due stacchi abbastanza visibili e identificabili. Una linea orizzontale che corre tutta alla stessa quota ad un metro circa da terra, come di una sezione netta, che prosegue anche nell’abside, segno questo che l’elemento è tutt’uno con la chiesa e non una aggiunta successiva, ne stacca e configura la parte basse come la più antica, probabilmente quella del 1524. Su questa s’imposta una nuova linea ri-edificatoria, successiva, che non ne altera la forma e che s’interrompe in una nuova linea più alta, che potrebbe riferirsi all’ultima ristrutturazione e al cordolo di cemento posto nell’intervento moderno e che la traghetta fino a noi. Il tetto in legno a doppia falda, all’interno mostra l’orditura di supporto in travi e il classico incannucciato, una soluzione che ormai è molto difficile da ritrovare.
Discorso a parte merita lo stemma nobiliare posto in facciata. Purtroppo l’amenità dei luoghi ha permesso che qualcuno, approfittandone, lo abbia sottratto ai legittimi proprietari prima e alla collettività poi.
Lo stemma era ricavato da un blocco di marmo bianco che inquadra in un tondo due leoni rampanti che con le zampe sostengono un catino da cui fuoriescono delle spighe di grano. Il bordo è contornato da una fascia in cui è presente una scritta in latino che così recita “Saciat te ex adipe frumenti“.
La lettura di questo stemma dovrebbe rimandare alla famiglia proprietaria del fondo e ci viene naturale attribuirla alla famiglia Cardona, ma facendo riferimento allo stemma presente nel summenzionato sarcofago della chiesa di Santa Maria del Gesù, che appartiene alla famiglia Cardona, quello di Livari se ne discosta totalmente. L’attenta analisi e la ricerca puntuale nell’araldica della nobiltà nasense permette di avvicinarci stilisticamente a quello della famiglia Cuffari, da cui è possibile comparare la coppia di leoni rampanti che reggono un catino in cui però non sono presenti le spighe di grano e la scritta. Da quello che sappiamo nella lunga storia di questo complesso i Cuffari ne hanno detenuto la proprietà in un arco di tempo che arriva fino al 1825. E’ Giacomo Cuffari l’ultimo proprietario, prima che il fondo fosse ceduto agli attuali proprietari. Sembra che siamo proprio i Cuffari a riedificare il complesso rurale e a curare il restauro della chiesa, con conseguente inserimento in facciata dello stemma. Resta l’idea che sia presente il rimando ad un blasone nobiliare, ma che più che uno stemma vero e proprio, lo possiamo connotare come uno scudo votivo o propiziatorio, vista la presenza della spiga, con rimandi all’auspicio di un buon raccolto, abbondante e capace di generare speranza e quindi legato ai cicli della terra, posti però sotto la benefica influenza della santa Romana Chiesa.
Bibliografia
- Girolamo Lanza, “Fioretti di Naso”, ristampa Giuffrè Editore
- (*,**) Immagini tratte da e con il consenso di Katia Rifici, “Le chiese rurali nel territorio di Naso dal XVI al XIX secolo”, Pro Loco Città di Naso 2000
- Carlo Incudine, “Naso Illustrata”, ristampa
- C. Calcerano- F. Lenzo, “Naso dal XIII al XXI secolo, raccolta di Libri” Cd multimediale Città di Naso, Archivio Storico
- AA.VV, “Naso, Guida alla visita della città”, Collana diretta da Fauzia Farneti, 2009 Alinea Editrice
- P. Domenico Stanislao Alberti, “Maraviglie di Dio in onore della sua Santissima Madre, riverita nelle sue celebri Immagini in Sicilia e nelle isole circostanti” Parte I, 1718
- (***) Giuseppe Librizzi – Rino Vinci, “Ciaramite di Capo d’Orlando”, Archeoclub d’Italia 1994 (Foto di Pag. 72)