Lo sbarco dei Mille e i fatti di Alcara Li Fusi del 1860.
di Michele Manfredi-Gigliotti
Il 17 maggio 1860 cadeva di giovedì ed era festivo. Tutto il mondo cattolico era impegnato a ricordare in maniera solenne un avvenimento fondamentale, fortemente simbolico per il credo religioso fondato da Cristo, rappresentando la metamorfosi, il processo alchemico radicale, il cambiamento definitivo che dall’umano porta al divino, dall’effimero all’eterno: era l’Ascensione.
Anche in Alcara Li Fusi, ridente paese posto sui primi contrafforti dei Nebrodi, le cui pietre e la cui terra circostanti narrano una storia talmente antica da sfociare, a volte, nel mito e nella leggenda, quel giorno si respirava aria di festa.
Era la tarda mattinata di quel giovedì, che sarebbe stato ricordato come il giorno più maledetto della storia del paese, quando la gente cominciò ad uscire dalla Chiesa di San Nicolò Politi, ove era stata celebrata le messa solenne. Tutti avevano indossato l’abito buono, quello tenuto da parte per le grandi ricorrenze della vita ma che, alla fine, sarebbe anche servito per l’ultima vestizione quando sarebbe arrivata l’implacabile signora ad annunziare che il tempo era scaduto.
In quei giorni i paesi e le città dell’intera Isola erano accomunati da un unico argomento di discussione. Non si parlava d’altro se non dello sbarco a Marsala di Garibaldi e dei suoi Mille e della conseguente sconfitta dei Borboni a Calatafimi. L’argomento veniva, com’è ovvio, variamente interpretato secondo che colui che ne parlava venisse a trovarsi collocato in un ceto sociale anziché in un altro e fosse, per questo, di idee filo-borboniche oppure libertarie.
Anche nell’ambito del territorio alcarese, la sera antecedente il giorno dell’Ascensione, ossia il 16 maggio, don Di Bartolo e don Ignazio Cozzo, entrambi sacerdoti della comunità, avevano riunito un gruppo di contadini e artigiani, al fine di informarli sulla portata degli ultimi avvenimenti che avevano interessato l’Isola. La riunione sarebbe avvenuta, secondo la tradizione tramandata bocca-orecchio, nella chiesa di San Michele, mentre per lo storico locale, Giuseppe Morelli, i congiurati si sarebbero riuniti nella chiesa del Rosario.
Durante il convegno clandestino, il gruppo era stato informato dai religiosi che erano in preparazione su tutto il territorio isolano grandi avvenimenti, dei quali si erano avute forti avvisaglie nei giorni immediatamente precedenti e che avrebbero portato l’Isola all’ombra della bandiera sabauda.
Il 4 aprile, infatti, a Palermo si era verificato il tentativo della Gancia. Nello stesso tempo, Giovanni Corrao e Rosolino Pilo avevano girato la Sicilia in lungo e in largo, prediligendo i capoluoghi di provincia, con lo scopo di mobilitare quanta più gente fosse possibile, incitandola a tenersi pronta ad insorgere contro il Borbone, creando, così, tanti focolai di ribellione necessari per frazionare le forze repressive borboniche. Il manipolo di Alcaresi era stato, altresì, informato dai due sacerdoti che proprio il giorno prima, 15 maggio, Giuseppe Garibaldi e i suoi Mille, sbarcati a Marsala dai due piroscafi “Piemonte e Lombardo” della compagnia di navigazione Rubattino, supportati dall’intervento armato di numerosi picciotti isolani, avevano sconfitto l’esercito borbonico a Calatafimi, precisamente nella località detta il Pianto dei Romani (1) e dopo la vittoria avevano puntato dritti su Palermo, accingendosi, da lì, a liberare l’intera Isola.
La narrazione di tali avvenimenti da parte dei due religiosi aveva certamente infuso grandi e legittime speranze, galvanizzando gli astanti che avevano intravisto in essi la possibilità, finalmente, di un’inversione di rotta riguardo alle loro precarie e, a volte, inumane condizioni socio-economiche. Quella mattina del 17 maggio, la maggior parte degli Alcaresi, che si trovavano nella piazza San Nicolò Politi conoscevano gli ultimi avvenimenti in modo vago e impreciso, non tutti avendo potuto partecipare alla riunione tenuta da alcuni dei loro concittadini la sera prima.
Prima di riferirci agli episodi che presero origine il giorno dell’Ascensione, appare necessario, oltre che opportuno, esaminare quali fossero le condizioni socio-economiche in cui versavano l’Università comunale alcarese e la stragrande maggioranza dei cittadini che ne faceva parte.
Alcuni avvenimenti verificatisi in tempi precedenti avevano per la loro portata effettuale e la loro natura, spaccato l’elemento demografico in due anime contrapposte e antagoniste.
Era accaduto che la maggior parte degli appartenenti al ceto abbiente, cosiddetti civili o, in dialetto, cappeddi, si era appropriata di quasi tutte le terre facenti parte del demanio comunale, procedendo ad un forsennato disboscamento al fine di creare le cosiddette praterie da destinare al pascipascolo degli animali. Ciò aveva provocato nella popolazione meno abbiente, i cosiddetti coppole, che pure ab immemorabili avevano esercitato su quelle terre una serie di diritti collegati agli usi civici, un notevole malcontento nei confronti della classe dominante che aveva tolto loro la fonte del minimo vitale. Di fronte a tal evidente usurpazione della quasi totalità delle terre demaniali, il comune alcarese fu costretto, obtorto collo, a intentare causa nei confronti degli usurpatori al fine di recuperare la piena signoria su quelle terre e restituirle alla comunità (2).
E’ opportuno precisare che la situazione descritta testé non rappresentava una caratteristica peculiare di Alcara Li Fusi. Situazioni socio-economiche speculari a quella alcarese erano pressoché diffuse per la maggior parte dei paesi della Sicilia. Sicché, quando per tutte le contrade dell’Isola si sparse la voce che era arrivato Garibaldi con l’intenzione di scacciare i Borbone e unificare le terre della penisola sotto l’egida di Casa Savoia, furono parecchi i paesi che insorsero contro il regime borbonico rappresentato per ogni dove dagli appartenenti al ceto abbiente. Ricordiamo che si sollevarono: Mistretta, Caronia, Tusa, Cesarò, Cerami, Polizzi, Nicosia, Petralia, Randazzo, Tortorici, Raccuja, Mirto, Galati, Cefalù, Collesano, Regalbuto, Maletto, Bronte, Centuripe, Castiglione, Capace, Resuttano, Castelnuovo, Montemaggiore, Biancavilla, Recalmuto, Missoria.
Ad Alcara Li Fusi quella mattina, anche molti dei rappresentanti del ceto dominante si trovavano in Piazza Nicolò Politi e precisamente erano convenuti, come giornalmente erano soliti fare, nel loro circolo esclusivo, detto casino di compagnia, probabilmente per fare le solite chiacchiere e, magari, discutere proprio sugli ultimi avvenimenti che avevano interessato la Sicilia. Anche nel casino tutto appariva normale e tranquillo: nessuno sembrava preoccupato più di tanto riguardo quel terremoto politico prodotto da Garibaldi e dai suoi Mille. Era come se i civili avessero la certezza, secondo la migliore tradizione gattopardiana anche se ante litteram, che, mutatis mutandis, nulla sarebbe sostanzialmente cambiato e tutto alla fine sarebbe rimasto immutabilmente come prima. La loro filosofia era molto semplice fondandosi su un ragionamento elementare in virtù del quale rimanessero al comando i Borbone, oppure fossero soppiantati da Casa Savoia, entrambi avrebbero ugualmente riconosciuto il loro censo confermandone i privilegi: sarebbe stato per loro sufficiente cambiare bandiera.
Questo era il clima che regnava in quella giornata. Nessuno avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe accaduto da lì a poco.
Il gruppo riunitosi la sera precedente ad impulso dei due sacerdoti, iniziò, con in testa il tricolore, a percorrere in corteo le strade del paese inneggiando all’Italia, all’Eroe dei due mondi e lanciando anatemi farciti di minacce di disgrazie e di morte contro i civili.
Di ritorno dal giro propagandistico per le strade del paese, il corteo ritornò in quello che era considerato il luogo ombelicale di Alcara, la piazza San Nicolò Politi. Qui, con molta probabilità, accadde qualcosa che fece esplodere improvvisamente il rancore a lungo covato e sino a quel punto a stento arginato da parte dei rappresentanti del ceto meno abbiente. Forse uno sguardo di troppo o di sfida o, peggio ancora, di derisione da parte di coloro che si trovavano nel casino di compagnia o, anche, qualche commento su quello straccio di bandiera sotto il quale i dimostranti si erano riuniti (3), provocò l’esplosione dell’ira dei dimostranti che, come un gruppo omogeneo e compatto a guisa di testa d’ariete, prese d’assalto il casino.
Per amore della verità storica, occorre precisare che l’irruzione non poté essere causata, lì per lì, da un improvviso e incontenibile raptus, da una deflagrazione di incontrollabile crimino-impellenza, in quanto il possesso delle armi, per lo più bianche (coltelli, cesoie, roncole, scuri e bastoni, anche se occorre precisare che si trattava di strumenti di lavoro il cui possesso, però, non era giustificato il giorno dell’Ascensione), delle quali gli assalitori si servirono nell’occorso, fa naturalmente ipotizzare che si sia trattato di una azione premeditata e messa a punto durante la riunione avvenuta la sera precedente quel maledetto 17 maggio.
All’interno del circolo dei civili gli assalitori uccisero tutti quelli che vi furono rinvenuti.
Così, caddero sotto i colpi il notaio don Giuseppe Bartolo, sindaco di Alcara; il professore Ignazio Bartolo e il figlio quindicenne Salvatore; don Salvatore Lanza e il figlio sedicenne Francesco; don Luigi Lanza; don Giuseppe Lanza; Francesco Papa usciere comunale; don Vincenzo Artino, esattore comunale e il figlio tredicenne Pasqualino; il dottor Gaetano Gentile, tesoriere comunale.
Secondo i memorialisti locali e la tradizione orale, alcune delle esecuzioni ebbero modalità orrende.
I giovanetti Francesco Lanza e Salvatore Bartolo furono finiti a colpi di scure e di roncola. L’altro giovanetto, il più piccolo, Pasqualino Artino, fu tratto fuori da sotto un tavolo sotto il quale si era nascosto nel tentativo di sfuggire all’orrenda fine che aveva visto infliggere a suo padre e, quindi, venne sgozzato con una cesoia per la tosatura delle pecore, così come si sgozzano gli agnelli, trattenuto tra le gambe.
A questo punto, i rivoltosi fecero il tentativo di appiccare il fuoco ai cadaveri, come per cancellarli definitivamente dalla faccia della terra e, allo stesso tempo, rendere più difficoltosa la lettura autoptica delle modalità dell’esecuzione. Il tentativo non riuscì se non parzialmente, per cui molti cadaveri risultarono, alla fine, abbruciacchiati in modo orrendo.
Compiuta la strage, fu preso di mira e d’assalto il Municipio e gli altri uffici pubblici, nei quali i congiurati appiccarono l’incendio ai mobili, alle suppellettili e, soprattutto, alle carte, ai libri e ai documenti che si trovavano negli archivi comunali, notarili ed esattoriali.
Nelle insurrezioni popolari la distruzione delle carte risulta essere, certamente, un classico. Nelle carte la povera gente, per lo più analfabeta, vedeva la fonte e la prova, per essa incomprensibile, dei privilegi e delle soperchierie della classe dominante. Tramite la distruzione di esse, gli insorti ritenevano di distruggere le scritture debitorie, i ruoli esattoriali delle imposte, i titoli, veri o fasulli, dei diritti di proprietà allodiale, soprattutto quella terriera relativa alle terre appartenenti al demanio comunale. E’ come se gli insorti si sentissero legittimati a tale distruzione, nel presupposto (dimostratosi, invero, fondato nel tempo) che gli atti prodromici dei titoli di proprietà avessero avuto un sostrato usurpatorio.
Tramite la distruzione degli atti ufficiali, si intendeva pervenire, partendo da zero, ad una specie di plastica revirginatoria dei loro censi, dei loro averi e, in definitiva, della loro vita privata e sociale.
Naturalmente, tra i congiurati vi erano, senz’ombra di dubbio, coloro che ritenevano in assoluta buone fede di compiere un’opera di bonifica sociale e politica, supportando in tale modo l’azione bellica intrapresa da Garibaldi, come vi erano, anche, coloro che, delinquenti comuni, si erano inseriti nella protesta approfittando del momento per dare sfogo ai loro istinti primordiali crimino-impellenti.
Furono perpetrati, infatti, danneggiamenti, violenze private, percosse, lesioni personali, furti ed estorsioni, per non parlare degli omicidi aggravati dalla crudeltà e dalle sevizie.
Furono svuotate le casse comunali e, persino, le cassette delle elemosine di alcune chiese.
Quando, la situazione socio-politico-economica di tutto il territorio della penisola, unificato all’ombra del tricolore e annesso all’elemento primigenio del Regno di Sardegna, iniziò ad avere una parvenza di normalità, l’università comunale alcarese si rivolse, finalmente, alla magistratura per risolvere, in modo civile e legittimo, la questione delle usurpazioni delle terre demaniali, appartenenti agli ex feudi Scavioli, Comune e Trombetta (4).
Gli avvenimenti omicidiari, con le generalità delle vittime, vennero annotati nei Registri di morte hutriusque Ecclesiae huius Communis Alcarie, alle pagine 131 e 132, firmate e controfirmate dal Vicario Economo, sacerdote don Santo Adorno e dall’arciprete Antonio Adorno.
Dal registro delle morti si ricava che i decessi avvennero il die 17 maji 1860 per don Vincentius Artino ed eodem die 1860 per le altre dieci vittime (5).
I disordini iniziati il 17 maggio perdurarono in Alcara Li Fusi sino al 24 giugno, giorno della festa di San Giovanni Battista e, inoltre, onomastico del colonnello Interdonato, che era stato inviato dal comando militare strategicamente con appena un plotone di uomini per non creare reazioni sconsiderate da parte dei rivoltosi, con l’ordine di normalizzare la situazione nel paese.
Gli Alcaresi accolsero molto cordialmente il colonnello, il quale non perse l’occasione per convincere i rivoltosi a lasciarsi disarmare, procedendo, quindi, di sorpresa e con l’inganno, al loro arresto e al trasferimento in Sant’Agata (di Militello) per essere custoditi nei sotterranei del castello Gallego adibiti a prigione (6).
Prima di lasciare Alcara, l’Interdonato provvide a dare mandato a don Luigi Bartolo Gentile di gestire la cosa pubblica locale. Appare superfluo condurre un’indagine circa l’albero genealogico del mandatario del colonnello Giovanni Interdonato, don Luigi Bartolo Gentile: il “don” che precede il nome dice tutto. In conclusione, quanto era accaduto in paese non era servito proprio a niente se a un “don” (Giuseppe Bartolo, assassinato dagli insorti) era succeduto un altro “don” (Luigi Bartolo Gentile).
Nella sostanza delle cose, malgrado quei numerosi morti, tutto era rimasto cristallizzato com’era prima come se nulla fosse accaduto. I cappeddi comandavano prima e continuavano a comandare anche dopo: le coppole avrebbero dovuto sottostare anche per l’avvenire.
Come dimostrazione che tutto era rimasto immutato, il neo designato capo dell’amministrazione locale, don Luigi Bartolo Gentile (che aveva scelto come suoi stretti collaboratori un’equipe di suoi pari appartenenti, cioè, alla classe dei cosiddetti civili), provvide a fare arrestare i rimanenti insorti che erano sfuggiti alla cattura effettuata dall’Interdonato, con ciò debordando, in modo palese, da quelli che erano i suoi doveri istituzionali, squisitamente di natura amministrativa.
Complessivamente, in Alcara Li Fusi, a causa dei disordini verificatisi a partire dal 17 maggio, vennero fermate diciotto persone, delle quali tredici vennero ristrette nei sotterranei del castello Gallego di Sant’Agata (di Militello), due nelle carceri di Patti e tre in quelle di Alcara Li Fusi.
A seguito degli arresti per i disordini sopra descritti e per istruire i relativi processi, in data 29 giugno, la Commissione Speciale del Distretto di Patti, istituita dal Dittatore in data 9 giugno 1860, alla quale spettava la competenza di istruire e decidere i processi penali relativi alla consumazione dei reati comuni, decise di recarsi per svolgere i compiti d’istituto a Sant’Agata (di Militello) e, quindi, ad Alcara Li Fusi.
Per svolgere i suoi compiti istruttori, la Commissione si fermò nella zona per circa quindici giorni.
Concluse le indagini istruttorie, i Commissari rientrarono immediatamente nella loro sede naturale, il Distretto di Patti, al fine di fissare la data di apertura del dibattimento e procedere, quindi, al giudizio. Sembrava che la Commissione Speciale avesse fretta di concludere la vicenda nel più breve tempo possibile. Senonché, essa non riuscì neppure a fissare il dibattimento in quanto, in data 3 luglio, il dittatore diramò una specie di direttiva, tramite la quale vietava la fissazione della pubblica discussione dei processi penali, di qualunque reato si trattasse, “se prima non si fossero impetrati gli ordini convenienti su di un distinto e categorico rapporto” (7), mentre un’altra direttiva ministeriale, datata 24 luglio, impartiva alle Commissioni giudicatrici di sospendere la fissazione della pubblica discussione dei processi, in attesa di ulteriori direttive del Segretario di Stato per la Giustizia e, in ogni caso, era imperativo il precetto in base al quale “ove fossero più di tre i condannabili a morte si sospendesse per gli altri coimputati l’esecuzione della pena” (7-bis) .
Sia il primo che il secondo inciso sopra riportati appaiono di difficilissima interpretazione ed intellegibilità, anche per chi da circa cinquant’anni esercita la professione forense.
Ciò è tanto vero che dell’enigmaticità delle direttive ebbe, al postutto, ad accorgersi anche la Commissione Speciale del Distretto di Patti, la quale in riscontro non poté fare a meno dal precisare che sarebbe risultato difficile e, soprattutto, contra jus, operare una scelta, tra tanti coimputati di quelli in capo ai quali eseguire la pena di morte, scegliendone tre (si sconosce in base a quali criteri selettivi) e sospendendola, tranquillamente, per tutti gli altri.
Come si vede, erano tempi duri per il “DIRITTO” e per la “GIUSTIZIA”, i quali concetti, il più delle volte, coincidono e procedono di conserva, ma tante altre prendono vie irrimediabilmente divergenti.
La Commissione Speciale fu alquanto dura e molto schierata, nel riscontrare le direttive ad essa indirizzate, affermando che “la mancanza di un decisa azione che potesse essere d’esempio aveva fatto rialzare la testa «ai rei» (sic!) e alla gente «ignorante e cattiva» (sic!) che trovavano una «rassicurazione nel male operare»” (sic!): gli apprezzamenti sopra riportati, riferiti con ogni evidenza agli imputati, sono stati espressi prima del dibattimento, quando ancora i difensori dei prevenuti non avevano svolto i loro interventi difensivi.
Non occorre essere un Carnelutti per comprendere che la Commissione Speciale aveva già scritto la sentenza di condanna prima ancora di avere fissato il dibattimento e, dunque, aveva fretta di compiere quello che doveva essere l’atto conclusivo di tutto il procedimento, ossia la sua lettura nella pubblica udienza.
Intanto, in data 6 agosto, il facente funzione di governatore, Giambattista Sciacca, comunicava al Segretario dell’Interno di avere provveduto a nominare la Magistratura ad interim del Comune di Alcara li Fusi (8).
La Commissione Speciale, intanto, della quale, come abbiamo detto sopra, il Dittatore aveva bloccato la potestas di fissare l’udienza pubblica del dibattimento, aveva, secondo le direttive ricevute, ripreso l’istruttoria del processo raccogliendo altri elementi probatori e, per questo, aveva fatto ritorno a Sant’Agata (di Militello) e ad Alcara Li Fusi, avvalendosi, questa volta, al contrario di quando era arrivato il colonnello Interdonato, di un nutrito gruppo di armati in quanto si temevano ulteriori azioni di violenza sulle persone e sulle cose.
Le notizie, per così dire ufficiali, relative alle ulteriori attività istruttorie in vista di quelle dibattimentali, svolte dalla Commissione Speciale, a questo punto, si interrompono completamente, per cui diventa oltremodo difficoltoso ricostruirne l’iter.
Le fonti informative riprendono il loro corso, quando il Governatore del Distretto di Patti e la Commissione Speciale (quest’ultima nelle persone del presidente, dott. Crisostomo Gatto; giudici, dott. Enrico Lo Re e dott. Gaetano Bua; giudice relatore, dott. Ludovico Fulci; giudice con funzione di avvocato fiscale, dott. Basilio Milio) comunicano al Segretario di Stato per la Sicurezza Pubblica che, in data 20 agosto 1860, era stata ESEGUITA la condanna a morte portata dalla sentenza emessa il 18 agosto (9).
In base a tale comunicazione si deduce che, nei confronti di dodici imputati, riconosciuti colpevoli della commissione dei fatti loro addebitati, fu dichiarata la responsabilità per assassinio con efferatezza e, quindi, furono condannati a morte. Essi erano: don Ignazio Cozzo, Artino Martinello Guzzone Salvatore, Di Nardo Mileti Carcagnintra Antonino, Di Naso Milinciana Serafino, Fragapane Melandro Salvatore, Mileti Carcavecchia Vincenzo, Oriti Gianni Salvatore, Patroniti Michele, Parrino Tanticchia Salvatore, Santoro Quagliata Nicolò, Sirna Papa Giuseppe, Vinci Nicolò.
La sentenza di morte venne eseguita due giorni dopo quello in cui era stata emessa, mediante fucilazione, che avvenne in Patti, al Piano Sant’Antonio Abate.
Oggi, una lapide marmorea, collocata sul luogo dell’esecuzione per memoria storica per interessamento della Società Pattese di Storia Patria, in data 3 agosto 1980 così dice:
SU QUESTO PIANO
A SEGUITO DELLA RIVOLTA DI
ALCARA LI FUSI
IL 20 AGOSTO 1860
IN ESECUZIONE DELLA SENTENZA
DELLA COMMISSIONE SPECIALE DI GIUSTIZIA
FURONO FUCILATI
DODICI CITTADINI ALCARESI
COLPEVOLI DI ECCIDIO
VITTIME DI ANTICHI SOPRUSI
Sicuramente nella vicenda è stata fatta qualche forzatura sottesa a mettere le Autorità superiori e tutorie dinanzi al fatto compiuto. Da tutta la narrazione dei fatti si ricava il convincimento che la Commissione Speciale, non sappiamo per quali motivi e ragioni, aveva una certa fretta di concludere la vicenda, qualunque fosse tale conclusione, anche se riteniamo personalmente che l’ iter della Commissione fosse tutto a senso unico. Certamente, non è nostra intenzione contestare che gli omicidi vadano puniti; l’importante è che non vengano puniti tramite giudizi sommari, perché ciò equivarrebbe a punire un omicidio tramite un altro omicidio: il che nega la Giustizia civilmente intesa e la fa regredire ai tempi delle ordalie.
Sulla data di esecuzione della sentenza vi è qualche incertezza. Ciò dimostra, ove ve ne fosse ancora necessità, che qualcosa d’irregolare è certamente avvenuto.
La memoria tramandataci per tradizione orale vuole che la sentenza sia stata eseguita il medesimo giorno in cui fu emessa, ossia il 18 agosto.
Di contro esiste, però, presso l’ufficio anagrafe del Comune di Patti un certificato di morte (n. 171, calendato 29 agosto 1860), firmato nella dichiarata qualità di Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Patti, Distretto di Patti, provincia di Messina, da Giuseppe Natoli Calcagno, il quale, dietro conforme testimonianza di Giovanni Campione e Francesco Fallo, entrambi becchini del predetto Comune, certifica che in data 29 agosto 1860, con la pena della fucilazione, è morto Giuseppe Papa Sirna “di anni ventisei nato in Alcara di professione bracciale”.
Bisogna fidarsi di quanto attesta l’ufficiale dello stato civile del Comune di Patti? Per la verità, qualche dubbio, per giunta non cerebrino, ma palesemente fondato, affiora.
Intanto, l’ufficiale dello stato civile CERTIFICA la data della morte del Papa Sirna su notizia appresa de relato, dietro trasmissione solo verbale da parte della fonte informativa, fidandosi ciecamente di ciò che dichiarano i due becchini, senza neppure procedere all’ispezione cadaverica con l’assistenza di un medico, anche generico, laddove la presenza di un medico, specialista di medicina legale, sarebbe stata necessaria atteso che la causa mortis si fondava su violenze esterne. Per non sottolineare, poi, che assolutamente inverosimile e fortemente sospetta appare la circostanza che all’ufficio anagrafe del Comune sia stato reperito un solo certificato di morte, ossia quello relativo all’evento letale riguardante Giuseppe Papa Sirna.
Perché il Comune di Patti, al quale incombeva l’obbligo della redazione dei certificati di morte di tutti coloro che sono stati fucilati al Piano Sant’Antonio Abate, non assolse tale incombente?
E’ possibile che il Papa Sirna sia stato giustiziato da solo, prima (o dopo?) dei suoi coimputati anch’essi condannati a morte mediante fucilazione? Se è avvenuto così, perché mai è stata disposta tale esecuzione solitaria?
E, ancora: Giuseppe Papa Sirna è stato fucilato al Piano Sant’Antonio Abate come gli altri dodici condannati che ivi trovarono la morte per mano del plotone di esecuzione, oppure la sua esecuzione ebbe modalità diverse dalla fucilazione e avvenne altrove?
Come si vede appare impossibile trovare delle risposte plausibili alle domande che precedono.
Occorre sottolineare che era prassi oramai consolidata che questo tipo di sentenze capitali venisse eseguito immediatamente dopo la lettura della sentenza di condanna, senza neppure concedere le rituali 48 ore di cappella, necessarie per consentire al condannato di pensare alla salvezza della propria anima.
Anche per i condannati di Bronte, si stabilì che la sentenza di morte mediante fucilazione (10) venisse eseguita lo stesso giorno della sua emissione (9 agosto 1860), alle ore ventidue, ossia appena due ore dopo la sua lettura, avvenuta, quindi, alle ore venti nell’aula in cui era stata condotta quella scimmiottatura di processo penale da parte della Commissione Mista Eccezionale.
Ritornando ai moti di Alcara, dobbiamo dire che quattordici altri imputati furono riconosciuti colpevoli e ne fu, per questo, dichiarata la responsabilità penale, in ordine all’imputazione di omicidio senza efferratezza. Per costoro la Commissione Speciale emise sentenza di condanna a morte mediante fucilazione, ma, al contrario degli altri, essendo venuta meno l’aggravante della efferratezza, vennero raccomandati alla clemenza del Dittatore perché valutasse l’opportunità di una conversione della pena capitale (11) in altra comportante la sola privazione della libertà personale.
Sette altri imputati furono condannati ai ferri, in quanto imputati di estorsione e furto, aggravati e continuati (12).
I rimanenti trentatre imputati non furono giudicati in quanto l’istruttoria a loro carico non era stata conclusa per cui la Commissione Speciale dispose un rinvio per consentire l’effettuazione di un supplemento istruttorio.
Senonché, a distanza di qualche mese, le Commissioni Speciali cessarono le loro funzioni e la competenza relativa venne attribuita alla Magistratura Ordinaria e, per il caso in rassegna, alla Gran Corte Civile di Messina, alla quale, per l’occorrenza, vennero attribuite le funzioni di Gran Corte Criminale. Presso tale ufficio giudiziario svolgeva le funzioni di Procuratore Generale, il dott. Giovanni Interdonato (omonimo del colonnello che aveva catturato in Alcara Li Fusi gli insorti), il quale, motu proprio, chiese alla Gran Corte Criminale che a carico dei residuali imputati di Alcara Li Fusi venisse applicata l’amnistia politica che era stata concessa con decreto prodittatoriale del 17 ottobre 1860.
La Gran Corte, riunitasi nelle persone dei signori dott. G. Rizzotti, vice presidente della Corte Suprema e presidente della Gran Corte Civile della Valle di Messina con funzione di Gran Corte Criminale; dott. Aspa; dott. Lisi; dott. Guzzo; dott. Scoppa, tutti consiglieri della Gran Corte medesima, con l’assistenza del cancelliere Bascone e l’intervento del Procuratore Generale presso la Gran Corte, con ordinanza assunta con la maggioranza di tre voti contro due (contrari all’applicazione del beneficio dell’amnistia furono i consiglieri, Guzzo e Scoppa), dichiarò il non luogo a procedere nei confronti degli imputati (13).
Tramite il medesimo provvedimento, la Gran Corte dichiarò nulla e come non avvenuta la condanna emessa nel 18 agosto 1860 contro alcuni degli imputati (14).
Fu questa una decisione che fece molto discutere e che ancora fa discutere.
In verità, la Gran Corte di Messina dovette operare una notevole forzatura dei principi giuridici vigenti per potere sussumere il caso sotto il vigore dei Decreti Prodittatoriali del 21 agosto 1860 e del 17 ottobre dello stesso anno.
I provvedimenti di clemenza, infatti, riguardavano inderogabilmente coloro che erano stati condannati da tribunali borbonici e a causa di reati politici.
Nel caso in rassegna, è di tutta evidenza che gli insorti di Alcara Li Fusi non fossero stati condannati da tribunali borbonici, ma da una delle Commissioni Speciali istituite ad hoc dal Dittatore affinché, medio termino, si arginassero eventuali comportamenti antidoverosi posti in essere proprio da coloro che combattevano i Borbone, durante una soluzione temporale che necessariamente doveva qualificarsi come sottoposta ad una vacatio potestatis et legis (15).
Sotto altro aspetto, è pacifico che il reato politico, la cui commissione avrebbe indotto l’applicazione del provvedimento di clemenza, avrebbe dovuto essere mirato contro il governo del Borbone (tanto è vero che si ipotizza che la sentenza di condanna avrebbe dovuto essere emessa dalla magistratura borbonica) in un momento storico, quindi, in cui il Borbone esercitava i suoi poteri reali nel Regno delle Due Sicilie. Questo ulteriore elemento porta ad escludere che la clemenza usata dalla Gran Corte Criminale abbia un carattere di legalità e giuridicità (16).
Ma non sono soltanto questi i motivi di perplessità che tutto il procedimento suscita in noi ancora oggi a distanza di centocinquant’anni.
I processi intentati contro gli insorti ebbero certamente una natura sommaria, sia per quanto è stato scritto in precedenza, sia perché in molti casi, essendo i componenti le Commissioni Speciali dei militari di carriera, avevano costoro necessità di non attardarsi eccessivamente nella istruzione processuale, né nelle discussioni dibattimentali, né, infine, nella esecuzione delle condanne, in quanto dovevano seguire Garibaldi al di là dello Stretto.
Quale ulteriore elemento negativo per la realizzazione della Giustizia, fu certamente la presenza di Nino Bixio (che fungeva da vice comandante dei Mille), combattente certamente valoroso e pieno di risorse, ma di una rozzezza e ignoranza insospettabili.
Dal suo diario si ricava che all’alba del giorno 9 agosto, egli raccomandò calorosamente alla Commissione giudicatrice la maggiore celerità possibile nel concludere il processo e nell’essere molto severa. A lui non importava molto, anzi, come vedremo da qui a poco, era assolutamente indifferente se in quella giornata si sarebbero concluse le vite di tante persone, con nessuna certezza circa la loro colpevolezza. La sorte di queste persone era stata già decisa prima ancora che fosse avvenuto il dibattimento e, quindi, prima ancora che venisse emessa la sentenza. Questo si ricava con matematica certezza in quanto, fatta la raccomandazione ai Commissari di essere celeri, Bixio era partito alla volta di Regalbuto per reprimervi l’insurrezione ivi scoppiata. In tale occasione, la mattina del 9 agosto, aveva confidato al maggiore Dezza che cinque degli imputati di Bronte erano stati condannati a morte per fucilazione: cosa assolutamente sorprendente considerato che il giudizio era finito sì quel giorno 9 agosto,ma alle ore venti.
Anche dal punto di vista squisitamente tecnico, infine, le perplessità sono molteplici. Tanto per volerne enunciare qualcheduna, si evidenzia:
1) Il processo poneva grossissimi problemi di successione di leggi nel tempo (Legge penale borbonica, Decreti Dittatoriali, Decreti Prodittatoriali, Legge penale sarda), sui quali la Commissione Speciale ha assolutamente sorvolato come se il problema non esistesse. E’ nozione comune anche per i non esperti in materie giuridiche che, in ipotesi di successione di leggi nel tempo, il giudice sia tenuto all’applicazione della legge più favorevole all’imputato, in virtù del principio del favor rei tramandatoci dallo jus Romanorum.
2) La condanna emessa dalla Commissione Speciale del Distretto di Patti si fonda, sotto il profilo del diritto, sugli artt. 130 e 131 delle Leggi Penali, per cui ci si trova dinanzi all’ibrida commistione rappresentata dal fatto che i giudici componenti la Commissione Speciale istituita con Decreto 9 giugno 1860 dal Dittatore Giuseppe Garibaldi, conquistatore del Regno delle Due Sicilie e vincitore dei Borbone, per punire gli imputati che si sono schierati contro i Borbone e a favore dell’Eroe dei due Mondi, debba servirsi del Codice Criminale emanato dalle Istituzioni sconfitte e travolte, oppure del Codice Penale sardo, ufficialmente Stato diverso da quello in rassegna (Regno delle Due Sicilie), in assenza di una legge recettiva di quelle norme codicistiche nell’ambito del territorio isolano.
L’ultima perplessità si è impadronita di noi, quando, qualche anno fà, abbiamo deciso, per colmare tutte le evidenti lacune del giudizio, di consultare il fascicolo del processo penale trattato a Patti in primo grado dinanzi la Commissione Speciale e a Messina dinanzi la Gran Corte Civile in funzione di Gran Corte Criminale.
Siamo andati con il Cancelliere nell’archivio del Tribunale di Patti, dove abbiamo rinvenuto, allineati e annotati, tutti i fascicoli penali dell’anno 1860, tranne, stranamente, quello che riguarda gli imputati di Alcara Li Fusi.
Stesso risultato negativo abbiamo avuto presso l’Archivio della Corte d’Appello e dell’Archivio di Stato di Messina.
Certamente, la lettura delle carte processuali nelle quali sono stati ricostruiti i fatti posti a base delle imputazioni, non solo avrebbe consentito una maggiore chiarezza sui fatti stessi a beneficio della loro storicità, ma ci avrebbe rivelato in che modo siano state applicate le norme della procedura penale.
Non ci resta da fare che un’ultima considerazione per concludere.
Quando a Giuseppe Garibaldi venne in mente di mandare in giro i patrioti siciliani per le città dell’Isola ad avvertire i cittadini che si tenessero pronti ad insorgere al fine di dare una mano ai Mille, a nessuno venne in mente che ciò avrebbe comportato violenze, omicidi, danneggiamenti, azioni illegittime e illegali tali e quali quelle commesse da Garibaldi e dai suoi Mille?
A nessuno venne in mente di evidenziare che i paesi dell’Isola che sono insorti, come Alcara Li Fusi, non avevano fatto altro che compiere quello che era stato loro richiesto di compiere, anche se eccedendo in modo tragicamente inumano?
Ad insorgere non furono certamente i cappeddi, che erano in possesso di strumenti intellettuali capaci di distinguere il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia; ad insorgere furono le coppole, la cui maggioranza, angariata e schiavizzata da millenni, vittima di istinti primordiali, riteneva di compiere un atto di riparazione sociale.
Che nessuno si tolga il cappello! Non ci proponiamo, certo, di trasmettere principi e sentimenti che non sono nelle nostre corde.
Noi siamo più che convinti che a coloro che si rendano colpevoli della commissione di reati vadano applicate le punizioni che essi meritano, secondo le leggi in vigore al momento di tale commissione, ma siamo pronti a batterci, come abbiamo fatto sempre, perché le sanzioni edittali non vengano irrogate attraverso e per il tramite della commissione di altri reati.
(1)A riportare il toponimo, “Pianto dei Romani”, è stato Cesare Abba autore Da Quarto al Volturno, Noterelle di uno dei Mille. L’espressione ha generato molte perplessità, soprattutto tra i residenti nella zona di Calatafimi, tra i quali il toponimo, così come formulato, risulta essere sconosciuto. La verità (è il caso di dire) più probabile è che la denominazione sia derivata da una espressione intesa male dall’Autore. Sembra, infatti, che l’Abba abbia chiesto ai locali il nome della collinetta ove avvenne lo scontro tra i Mille di Garibaldi e l’esercito borbonico agli ordini del generale Ferdinando Beneventano del Bosco. La risposta sarebbe stata che la località era denominata u chiantu dì Romani, ovverosia la piantagione della (famiglia) Romani.
(2)Nel 1898, a causa delle continue usurpazioni di terreni appartenenti al demanio comunale da parte di cittadini alcaresi di estrazione borghese (molti dei quali erano amministratori comunali), il Comune di Alcara Li Fusi si rivolgeva al Tribunale Speciale, chiedendo l’emissione di un provvedimento di reintegra in possesso nei confronti degli usurpatori. Questi ultimi, convenuti in giudizio, avevano sostenuto la natura allodiale delle terre in loro possesso. La vertenza riguardava soprattutto l’appropriazione di grandi estensioni di terre dei feudi Scavioli, Comune e Trombetta. Tale situazione fraudolenta esisteva da parecchio tempo, ma fu portata all’attenzione dei singoli Alcaresi, soprattutto, allorché vennero emanate la legge 8 giugno 1807 e la successiva integrazione del dicembre 1812, le quali statuivano che quelle terre si sarebbero dovute destinare a beneficio esclusivo degli Alcaresi poveri e dei meno abbienti. La controversia si trascinò stancamente tra ordinanze del Tribunale, perizie e ordinanze intendentizie, transazioni mai osservate o malamente osservate tra l’ Università comunale alcarese (che agiva nomine proprio, ma anche nomine alieno in rappresentanza, cioè, del popolo alcarese meno abbiente) e la Mensa arcivescovile di Messina che vantava diritti reali su quelle terre in virtù del diploma emanato nel 1096 dal Granconte Ruggero d’Altavilla, successivamente confermato da suo figlio Ruggero II e dall’imperatrice Costanza.
(Per la vicenda giudiziaria sopra accennata, cfr. M.Manfredi-Gigliotti, L’usurpazione delle terre ad Alcara Li Fusi, un caso giudiziario d’un secolo fa in Siciliantica Capo d’Orlando del 13 settembre 2018, https://capodorlando.org/siciliantica).
(3)Qualche mese dopo gli avvenimenti di Alcara li Fusi (precisamente i primi di agosto 1860), si registrò l’insurrezione di Bronte, nel cui ambito amministrativo esistevano le medesime condizioni socio-economiche di quelle radicate in Alcara, con l’elemento demografico spaccato in due: da una parte sparuti elementi concentratori della ricchezza e del potere; dall’altra la moltitudine che giorno per giorno non sapeva se ce l’avrebbe fatta a sbarcare il lunario. Narra Benedetto Radice (Memorie storiche di Bronte, edito dalla Banca Mutua Popolare di Bronte) che i primi giorni di agosto del 1860, esasperati, perché non si scorgeva alcuna via d’uscita alla precarietà della loro situazione, alcuni Brontesi che avevano sperato in un cambiamento radicale, cominciarono a pensare a mettere in atto propositi di violenza. Scrive il Radice : ”…Bronte, il quale più che gli altri paesi dell’Isola, aveva cagione a insorgere per fare ammenda della servitù, in cui esso, per la favola del suo nome, era stato ridotto dal Borbone…”. Qualche tempo dopo, il console inglese, Dikinson, comincia a narrare di saccheggi e di rapine, tramite i quali il popolo di Bronte ha cercato di affermare quelli che erano i suoi sacrosanti diritti sui beni della ducea.
Anche a Bronte, come ad Alcara, i primi di agosto, le strade furono percorse da un numeroso corteo, con una bandiera tricolore in testa, che inneggiava a Garibaldi e all’Italia. La situazione divenne critica quando il notaio Ignazio Cannata, di antica fede borbonica, alla vista del tricolore, ebbe a pronunciare queste parole: “Picchì non si leva sta pezza lorda?”.
Da qui cominciò l’eccidio di Bronte.
(4)Cfr. sub n. 2.
(5)Siamo grati a don Vito Passalacqua, arciprete di Alcara Li Fusi, del quale rammentiamo ancora la cortesia e disponibilità quando gli abbiamo chiesto se poteva farci fotocopiare le due pagine del Registro di morte (Cfr. fotocopie in questo testo).
(6)Del passaggio dei rivoltosi alcaresi nei sotterranei del castello Galliego, sono rimaste alcune scritte murarie (riportate da quello che consideriamo il Licofrone santagatese, l’ indimenticato scrittore Vincenzo Consolo in Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Torino 1976), dalle quali traspare tutta la rabbia dei rivoltosi non ancora smaltita, la loro delusione senza fine per la coscienza di non avere concluso niente malgrado quell’orribile carneficina, tutta la tragica incertezza circa la loro sorte, quando non traspare, addirittura, l’ebbrezza del sangue versato e il suo odore. Per finalità esemplari, riportiamo qualcuno di quei graffiti:
Puzza di merda a noi//la sera di scesa nel paese//Stano Turuzzo//nipote del notaio//strascino fora//serro colle cosce//sforbicio il gargarozzo//notaro saria stato pure lui.
Un’altra scritta:
Proprietari di terre allodiali//pezzi grossi dentro la decuria//parrochi e civili//s’appropriaro//
di terre comunali//io fora di tutto//che pure avea diritto//come gli altri galantomini//fora tutti i poveri villani//aizzai gli alcaresi a ribellarsi//ah male per noi//nessuno fu più buono//di fermare la furia//dei lupi scatenati//addio Alcara//chiedo perdono a tutti//addio mondo.
L’ultima che riportiamo:
Viva la talia//gridò il galantomo//vinditta vinditta//giustizia//il nostro capobanda//subito contra la comarca dei civili//ladri e sfruttatori//mi capitò il giovinotto Lanza//sorridente//attassò senza lamento//occhi sbarrati//che dicono perché.
(7–7bis)Entrambi gli incisi riportati nel testo sono stati tratti dalla direttiva n. 734 del 6 agosto 1860, avente ad oggetto “Disordini nel Distretto”, a firma di Giambattista Sciacca, Il facente da Governatore e indirizzata al Segretario di Stato per la Sicurezza Pubblica-Palermo.
(8)La Magistratura nominata dallo Sciacca era composta nel modo seguente: Presidente: dott. Nicolò Mileti; Giurati: don Giuseppe Bartolo Gentile (parente di quel don Luigi Bartolo Gentile che il colonnello Interdonato aveva messo a capo dell’amministrazione alcarese) e don Biagio Bartolo; Cancelliere-Segretario:don Luigi Vincenzo Di Bartolo; Cassiere: don Luigi Artino.
(9)Questo è il testo della sentenza emessa dalla Commissione Speciale del Distretto di Patti.
IN NOME DI S. M. VITTORIO EMANUELE RE D’ITALIA.
L’anno millenovecentosessanta il giorno 18 agosto in Patti. La Commissione Speciale di Patti composta dai signori dottor Crisostomo Gatto, presidente, dottor Enrico Lo Re, dottor Gaetano Bua, giudici, dottor Lodovico Fulci giudice relatore, dottor Basilio Milio, giudice funzionante di avvocato fiscale, riunita per giudicare:
Salvatore Oriti Gianni- Antonino Di Nardo Mileti Carcagnintra-Giuseppe Sirna Papa-Salvatore Artino Martinello Guzzone-Vincenzo Mileti Carcavecchia-Salvatore Parrino Tanticchia-Salvatore Fragapane Melandro-Nicolò, Giuseppe e Gaetano Vinci-Nicolò Santoro Quagliata-Michele Patroniti-Rosario Parrino Gruppo-Nicolò Romano Mita-Salvatore Cogita Calabrese-Gaetano Casta Caco-Giuseppe Sguro Mantellina-Nicolò Zaiti Scippatesti-Antonino Artino Inferno-Nicolò e Serafino Di Naso Milinciana-Carmelo Serio-Giuseppe Tramontana-Nicolò Tomasello Formica-Nicolò Calderone Sammarcoto-don Ignazio Cozzo-don Nicolò Vincenzo Lanza-Carmelo Cottone-Giuseppe Palazzolo Capizzoto-Nicolò e Salvatore Mellino Cucchiara-Santi Oriti Misterio-Pietro Ridolfo-Gaetano Catullo-Giuseppe Imbrigiotta Zisi-Basilio Restifo Attinelli-Antonino Di Nardo di Saverio.
ACCUSATI
di aver portato la devastazione, la strage ed il saccheggio nel Comune di Alcara e contro la classe di quelle persone civili, e di avere preso parte attiva negli omicidi, nelle devastazioni e nei saccheggi, nelle persone di don Vincenzo Artino, don Pasquale Artino, don Giuseppe Bartolo, don Ignazio Bartolo, don Salvatore Bartolo, don Giuseppe Lanza, don luigi Lanza, don Salvatore Lanza, don Francesco Lanza, don Gaetano Gentile e don Francesco Papa e in danno loro nonché in danno dell’Archivio di notar Bartolo suddetto, della Comune, e di tutte le opere pie laicali e di quel Monastero delle donne, del sacerdote don Giuseppe Franchina.
Il tutto ai termini degli art. 130 e 131 LL.PP. e giusta la rubrica del giudice signor Milio funzionante di Avvocato Fiscale. Sentito il rapporto del giudice relatore signor Fulci. Letti gli atti sostanziali del processo. Uditi i testimoni tutti nelle forme di rito. Inteso il suddetto funzionante d’Avvocato Fiscale nelle sue conclusioni date all’udienza. Sentiti gli accusati con i loro rispettivi difensori in tutti i mezzi di difesa. La Commissione ne ha ritenuto in esito alla discussione pubblica i seguenti fatti:
-L’anarchia cominciata in Alcara il 17 maggio 1860 è durata in quel Comune circa 40 giorni, non fu vil risultato di circostanze casuali, sviluppatesi casualmente nella insorgenza generale avvenuta in Sicilia intenta alla rivendica dei suoi dritti; ma sibbene il prodotto di una preconcetto e scellerata congiura di taluni (dei quali la maggior parte maestri e villani) tendente all’assassinio di un numero di civili, che poi l’interesse particolare di ogni congiurato estendea, e che nel complesso veniva perciò a racchiudere (salvo l’eccezione di taluno) l’eccidio di quasi l’intera classe dei civili di Alcara.
Cause dell’iniquo concerto furono in alcuni odio esecrando e di contro parte per mendicare precedenti angarie, nella speranza poi desiderio dell’annientamento dei creditori, per ragioni creditorie dei debiti di che si era gravato; desiderio in molti, unito alla speranza di riottenere quelli stessi beni che, per vicende di fortuna comecchè fu forza di contratto o di sentenza di Magistrato, si avea precedentemente cessi o perduti: sperando infine di completarsi per furto nel preconcepito estensivo saccheggio. Risultato di tanta infame orditura, l’eccidio di dieci civili ed un usciere, tra i quali individui rispettabili per virtù civili e letterarie e giovani cui innocenti facea l’età novella; trucidati a fucilate, a colpi di scure, e legnate, scozzati come agnelli e tutti rispettivamente sia morienti, o già morti offesi con ogni specie di arma, e quindi mutilati, e pesti, e spogliati degli abiti, e poi orrendamente bruttati per incendio di carte sui visi, e poi di sepoltura cristiana per prepotente inibizione privati; distruzione, ed incendio di Archivi notarili, di ogni carta, e documenti conservati nella Cancelleria Comunale, che a tale Amministrazione o pia beneficenza si apparteneva. Furto della Cassa Comunale, contenente somme vigenti (sic!), parte in numerario, parte in fede di credito; saccheggio in diverse case civili con appropriazione di somme, fede di credito, gioje, oggetti d’oro e di argento accompagnato da incendi di libri creditori e di ogni documento appartenente a fortune private; devastazione a frutta, a ricolta, nei campi estesa e generalizzata per eserzione degli anarchismi; appropriazione di case, e di poderi precedentemente per sentenza pendente o volontariamente e per atti autentici o laicali, scrocco di somme per componende, e minacce di danno, o di vita, arresti arbitrarii, ed ogni altra abusiva escandescenza, e tutto questo iniziato al grido di Viva Vittorio Emanuele-Viva Garibaldi, e all’ombra del Vessillo della rigenerazione, che aveva servito di mezzo a disarmare preventivamente, ed agglomerare vittorie designate; come le prime ad essere immolate, e che dovevan essere seguite da altre, cui fortuite circostanze trovarono, e che dovevano formare i prodromi di un numero di reati e di scelleraggini, poscia parte consumati, parte per divina misericordia non commessi. Colti infine nei lacci della Giustizia gli attuali giudicabili. Ritenuti in cosifatto modo i fatti in genere. Il Presidente ha proposto le seguenti QUISTIONI:
1)Costa che i prevenuti (si ripetono i nomi già riportati) siano rei di aver portato la strage, la devastazione ed il saccheggio nel Comune di Alcara contro la classe di quelle persone civili, ed ai sensi della cennata rubrica dell’Avvocato Fiscale?
La Commissione dichiara che solo per i giudicabili don Ignazio Cozzo e Salvatore Oriti Gianni, COSTA mentre per i rimanenti NON COSTA.
2)Costa che tutti gli accusati suddetti siano colpevoli di avere preso parte attiva nelle stragi, devastazioni e nei saccheggi consumati In Alcara ai sensi della rubrica dell’Avvocato Fiscale?
La Commissione per Salvatore Oriti Gianni, Antonino Di Nardo Militi Carcagnintra, Giuseppe Sirna Papa, Salvatore Artino Martinello Guzzone, Vincenzo Militi Carcavecchia, Salvatore Parrino Tanticchia, Salvatore Fragapane Melandro, Nicolò Vinci, Nicolò Santoro Quagliata, Michele Patroniti, Rosario Parrino Gruppo, Nicolò Romano Mita, Salvatore Cogita Calabrese, Gaetano Casta Caco, Giuseppe Sguro Mantellina, Nicolò Zaiti Scippatesti Bellicchia, Antonino Artino Inferno Accenni, Nicolò Di Naso Milinciana, Carmelo Serio, Giuseppe Stazzone Tramontana, Nicolò Tomasello Formica, Nicolò Calderone Sammarcoto, Gaetano Vinci, dichiara COSTA.
Che Serafino Di Naso Milinciana sia colpevole di aver preso parte attiva negli omicidi suddetti, dichiara COSTA.
Che don Ignazio Cozzo sia colpevole di aver preso parte attiva nei saccheggi e nelle devastazioni di cui sopra, dichiara COSTA.
Che don Nicolò Vincenzo Lanza sia colpevole di aver preso parte attiva sul suddetto saccheggio, dichiara NON COSTA.
Che Serafino Di Naso Milinciana sia colpevole di aver preso parte attiva nella devastazione e nei saccheggi, dichiara NON COSTA.
Che don Nicolò Vincenzo Lanza sia colpevole di aver preso parte attiva nella strage e nella devastazione, dichiara NON COSTA.
Che don Ignazio Cozzo sia colpevole di avere preso parte attiva nella strage, dichiara NON COSTA.
3)Costa che Carmelo Cottone, Giuseppe Palazzolo Capizzoto, Nicolò Merlino Cocchiara, Salvatore Merlino Cocchiara, Santi Oriti Misterio, Pietro Ridolfo, Gaetano Cotullo, Giuseppe Imbriciotta, Basilio Restifo, Antonio Di Nardo fu Saverio, Giuseppe Vinci siano colpevoli di complicità per avere scientemente facilitata ed assistito gli autori nei saccheggi e nelle devastazioni, al punto che senza la loro collaborazione tali reati non sarebbero stati commessi?
La Commissione dichiara COSTA.
NON COSTA che Carmelo Cottone, Giuseppe Palazzolo Capizzoto, Nicolò Merlino Cocchiara, Salvatore Merlino Cocchiara, Santi Oriti Misterio, Pietro Ridolfo, Gaetano Cotullo, abbiano prestato la loro collaborazione per la consumazione dei saccheggi e delle devastazioni.
Decisa la sentenza sulla responsabilità dei prevenuti in ordine ai reati agli stessi contestati, la Commissione procedette alla determinazione delle pene.
(10)Questi i condannati di Bronte alla pena di morte mediante fucilazione per i medesimi crimini di Alcara Li Fusi: Lombardo Nicolò, Sampieri Nunzio, Ciraldo Fraiunco Nunzio, Longhitano Longi Nunzio, Spitaleri Nunno Nunzio.
(11)I quattordici raccomandati alla clemenza del Dittatore: Artino Inferno Accenni Antonino, Casta Caco Gaetano, Zaiti Scippatesti Bellicchia Nicolò, Di Naso Milinciana Nicolò, Lanza Nicolò Vincenzo, Cogita Calabrese Salvatore, Parrino Gruppo Rosario, Calderone Sammarcoto Nicolò, Serio Carmelo, Sguro Mantellina Giuseppe, Romano Mita Nicolò, Vinci Gaetano, Stazzone Tramontana Giuseppe, Tomasello Formica Nicolò.
(12)I sette: Ridolfo Pietro, Cutullo Gaetano, Cottone Carmelo, Oriti Misterio Santi, Merlino Nicolò, Merlino Cucchiara Salvatore, Palazzolo Giuseppe.
(13)Gli imputati beneficiari dell’amnistia: Vinci Giuseppe, Di Nardo Antonino, Restifo Antonino, Ridolfo Nunzio, Adorno don Giuseppe, Adorno don Luigi, Parrino Luigi, Costanzo Gaetano, Costanzo Ignazio, Di Marco Antonino, Vinci Antonino, Artino Carmelo, Artino Nunzio, Oriti Gaetano, Costanzo Salvatore, Oriti Antonino, Cogita Nicolò Antonio, Fragapane Michele, Cogita Alfonso, Di Nardo Carmelo, Parrino Antonino, Parrino Carmelo, Di Nardo Gaetano, Di Nardo Giuseppe, Di Naso Salvatore, Vinci Salvatore, Parrino Michele, Strologo Antonino, Bompiedi Basilio, Mileti Nicolò Antonio, Cogita Gaetano, Morelli Nicolò, Bompiedi Gaetano, Restifo Vincenzo.
(14)I beneficiari del provvedimento di annullamento della sentenza: Cutullo Gaetano, Ridolfo Pietro, Parrino Rosario, Romano Nicolò, Oriti Santo, Merlino Salvatore, Sguro Giuseppe, Costa Gaetano, Zaiti Nicolò, Cogita Salvatore, Merlino Nicolò, Cottone Carmelo, Palazzolo Giuseppe, Artino Antonino, Di Naso Nicolò, Stazzone Giuseppe, Serio Carmelo, Tomasello Nicolò, Calderone Nicolò, Vinci Gaetano, Lanza Nicolò Vincenzo.
(15)La sentenza del Gran Corte di Messina:
IN NOME DI S.M. VITTORIO EMANUELE RE D’ITALIA.
L’anno milleottocentosessanta, il giorno 24 novembre (24 novembre 1860) in Messina la Gran Corte Civile della valle di Messina, facente funzioni di G. Corte Criminale e procedendo ai termini del Codice penale Militare Sardo, riunita nella Camera del Consiglio, con l’intervento dei signori Rizzotti, vice-presidente di Corte suprema, Aspa col grado di consigliere, Guzzo vice-presidente di G. Corte Civile, Delisi e Scoppa giudici, del consigliere procuratore generale del Re signor Interdonato, e coll’assistenza del cancelliere criminale sig. Bascone.
Sul rapporto del Giudice Commissario sig. Guzzo. Visti gli atti a carico di Nunzio Ridolfo e compagni prevenuti di aver portato nel 17 maggio 1860 la devastazione, la strage ed il saccheggio nel Comune di Alcara, contro la classe delle persone civili, ed aver preso parte attiva negli omicidi, nelle devastazioni e nei saccheggi. Viste le conclusioni scritte del P.M. così compite: Messina 19 novembre 1860. Il Consiglio del Proc. Generale presso la G.C. Civile, facente funzione di G.C. Criminale di questa provincia, visti gli atti a carico dei detenuti:1)Nunzio Ridolfo, 2)Antonio Restifo,3)Antonino Nardo,4)Gaetano Costanzo,5)Luigi Parrino,6)Antonino Di Marco, 7)Carmelo Artino,8)Antonino Vinci,9)Salvatore Costanzo,10) Nunzio Artino,11)Gaetano Oriti,12)Antonino Oriti,13)Nicolò Antonino Cogito,14)Michele Fragapane,15)Alfonso Cogita,16)Antonino Parrino, 17)Carmelo Di Nardo,20)Giuseppe Di Nardo,21)Salvatore Vinci,22)Salvatore di Naso,23)Antonino Strologo,24)Basilio Bompiedi, 25)Michele Parrino,26)Nicolò Antonio Mileti,27)Nicolò Morelli, 28)Gaetano Cogita, 29)Vincenzo Restifo,30)Gaetano Bompiedi, prevenuti di avere portato nel 17 maggio 1860, la devastazione, la strage ed il saccheggio nel comune di Alcara, contro la classe delle persone civili, ed aver preso parte attiva negli omicidi, nelle devastazioni e nei saccheggi, ai termini degli articoli 130 e 131 LL.PP.-Veduta la decisione pronunciata dalla Corte Speciale di Patti nel 18 agosto 1860 colla quale pei fatti medesimi sull’appoggio dei citati articoli 130 e 131 cennate leggi condannò a morte, raccomandando però alla clemenza del Dittatore a:1)Rosario Parrino,2)Nicolò Romano,3)Salvatore Cogita,4)Giuseppe Costa,5)Giuseppe Sgurro, 6)Nicolò Zaiti,7)Antonino Artino,8)Nicolò Di Naso,9)Carmelo Serio,10)Giuseppe Stazzone, 11)Nicolò Tomasello, 12)Nicolò Calderone,13)Gaetano Vinci,14)Nicolò Vinci Lanza e condannò alla pena dei ferri:1)Carmelo Cottone,2)Giuseppe Palazzolo,3)Nicolò Merlino,4)Salvatore Merlino,5)Santi Oriti,6)Pietro Ridolfo,7)Gaetano Cutullo.
Veduta la domanda dei profughi Adorno e compagni e colla quale chiedono di essere ammessi all’indulgenza accordata con Decreto Prodittatoriale del 17 ottobre 1860.Attesocchè dall’art. 15 del citato decreto rilevasi che per i fatti considerati come reati politici sotto il Governo borbonico deve osservarsi il D.to del 21 agosto 1860.
Attesocchè pel decreto prodittatoriale del 21 agosto 1860 non vi è legge ed azione penale pei fatti che durante l’occupazione borbonica erano considerati come reati politici, e tutte le condanne emesse nei fatti medesimi, sono dichiarate nulle, come non avvenute.
Attesocchè dalla situazione degli atti ammanniti per fatti descritti prevenuti e condanne attribuite, e dalla definizione in conformità ai fatti medesimi data a quelli avvenimenti, chiaro rilevasi, che una congiura era stata precedentemente fatta in Alcara per distruggere il governo borbonico, che sino al 17 maggio 1860 tuttavia vigeva in quel Comune. Che nel detto giorno 17 maggio furono commesse le devastazioni, le stragi, ed il saccheggio: e che i fatti posteriori al giorno predetto hanno un legame di continuità alla prima insurrezione commessa, onde basarsi il novello governo che gli insorti organizzarono con Comitati, innalzando il vessillo tricolore e così è fuor di dubbio che i fatti addebitati debbono ritenersi come reati politici commessi durante l’occupazione borbonica, ed in effetto la Corte Speciale di Patti colla decisione di condanna del 18 agosto 1860, ritenendo questa verità, invoca gli articoli 130 e 131 delle LL.PP.; che van compresi nel capitolo secondo leggi medesime che tratta di reati contro la sicurezza interna dello Stato, val quanto dire, reati politici; e quindi ora debbe dichiararsi nulla e come non avvenuta la condanna emessa contro i giudicati.
Attesocchè con queste dichiarazioni punto non si incorre in contrarietà di giudicato colla cennata decisione pronunciata dalla Commissione Speciale di Patti del 18 agosto 1860 pei fatti medesimi; perciocché allora, non che comunicato, non era stato emanato il suindicato decreto del 21 del mese medesimo.
Attesocchè contro i profughi Adorno e compagni sono stati spediti mandati di deposito ed i nominati Nunzio Ridolfo, Antonino Restifo, Antonino Di Nardo e Giuseppe Vinci trovansi detenuti sotto lo stesso modo di custodia.
Visti i decreti prodittatoriali del 21 agosto e 17 ottobre 1860, chiede che la G.C. dichiari non esservi luogo a procedimento penale per fatti attribuiti ai detenuti Nunzio Ridolfo, Antonino Restifo, Antonino Di Naso ed a Giuseppe Vinci ed ai profughi Giuseppe Adorno e compagni ed in conseguenza revochi i mandati di deposito spediti contro i medesimi ed ordini la liberazione dei detenuti predetti; dichiari altresì nulla e come non avvenuta la condanna emessa nel 18 agosto 1860 contro Rosario Parrino, Nicolò Romano, Salvatore Cogita, Gaetano Costa, Giuseppe Sgurro, Nicolò Zaiti, Antonino Artino, Nicolò Di Naso, Carmelo Serio, Giuseppe Stazzone, Nicolò Tomasello, Nicolò Calderone, Gaetano Vinci, Nicolò Vincenzo Lanza, Carmelo Cottone, Giuseppe Palazzolo, Nicolò Merlino, Salvatore Merlino, Santi Oriti, Pietro Ridolfo, Gaetano Cutullo ed ordini la di loro liberazione e la conservazione degli atti in Archivio-Firmato G. Interdonato.
Inteso oralmente il detto P.M., il quale ha conchiuso in conformità delle medesime conclusioni; La Gran Corte: Deliberando in segreto, fuori la presenza del P.M. e di ogni altra persona; Ritenute le considerazioni scritte nella requisitoria del P.M. e facendo dritto alle orali;
Visti i decreti prodittatoriali del 21 agosto e 17 ottobre 1860; alla maggioranza di tre voti, dichiara di non esservi luogo a procedimento penale pei fatti attribuiti ai detenuti Nunzio Ridolfo, Antonino Restifo, Antonino Di Nardo, Giuseppe Vinci ed ai profughi Gaetano Costanzo, Luigi Parrino, Antonino Di Marco, Carmelo Artino, Antonino Vinci, Salvatore Costanzo, Nunzio Artino, Gaetano Oriti, Antonino Oriti, Nicolò Antonio Cogita, Michele Fragapane, Alfonso Cogita, Antonino Parrino, Carmelo Di Nardo, Carmelo Parrino, Gaetano Di Nardo, Giuseppe Di Nardo, Salvatore Vinci, Salvatore Di Naso, Antonino Strologo, Basilio Bompiedi, Michele Parrino, Nicolò Antonio Mileti, Nicolò Morelli, Gaetano Cogita, Vincenzo Restifo, Gaetano Bompiedi ed in conseguenza revoca i mandati di deposito spediti contro i medesimi ed ordina la liberazione dei predetti detenuti: Nunzio Ridolfo, Antonino Restifo, Antonino Di Nardo, Giuseppe Vinci.
Dichiara altresì nulla e come non avvenuta la condanna emessa nel 18 agosto 1860 contro Rosario Parrino, Nicolò Romano, Salvatore Cogita, Gaetano Costa, Giuseppe Sgurro, Nicolò Zaiti, Antonino Artino, Nicolò Di Naso, Carmelo Serio, Giuseppe Stazzone, Nicolò Tomasello, Nicolò Calderone, Gaetano Vinci, Nicolò Vincenzo Lanza, Carmelo Cottone, Giuseppe Palazzolo, Nicolò Merlino, Salvatore Merlino, Santi Oriti, Pietro Ridolfo, Gaetano Cutullo ed ordina la di loro liberazione e la conservazione degli atti in Archivio.
A cura e vigilanza del P.M. resta affidato l’adempimento della presente deliberazione.
Firmato:Interdonato- G. Rizzotti- G. Lisi- Gatto, Scoppa, Guzzo, Bascone.
(16)Le Commissioni Speciali, che esercitavano la giustizia penale, il più delle volte sono state istituite nel momento in cui quel tipo di comportamento umano penalmente rilevante si era già verificato. In questa fattispecie è molto difficile potere parlare di GIUDICE NATURALE, il quale, per essere tale, dovrebbe preesistere all’insorgenza del comportamento delittuoso, per un principio, che è giuridico, ma anche di una logicità empirica da non avere bisogno di alcuna dimostrazione, come la paternità biologica è, ovviamente, uno status che deve sempre precedere la nascita del figlio. Il principio è sacrosanto e tende ad evitare l’eventuale tentazione che il giudice possa essere dal potere politico adattato all’imputato o ad altra parte in causa. A ciò si aggiunga che la composizione delle Commissioni si basava, per lo più, su militari di carriera, nominati lì per lì, per l’occorrenza, i quali sentivano profondamente il rapporto di subordinazione con i superiori esterni, al punto che Nino Bixio era considerato il deus ex machina riguardo alle Commissioni Speciali. Era proprio lui che, dall’esterno, ne gestiva i ritmi, cercando di accelerarli in tutti modi e, con grandissima probabilità, anche di pilotarne le decisioni, come abbiamo dimostrato tramite la narrazione di qualche caso realmente accaduto.
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