L’usurpazione delle terre ad Alcara Li Fusi, un caso giudiziario d’un secolo fa*
di Michele Manfredi-Gigliotti
Alcara Li Fusi, nella circoscrizione amministrativa della Città Metropolitana di Messina, ridente paese sito nel settore centro-settentrionale della Sicilia a 400 metri di altitudine, gradi 38,5 di latitudine nord e 38,20 di longitudine est, è inquadrato in una cornice di paesaggio quanto mai pittoresco…circondato dal monte Crasto (m. 1300), dalla rupe del Calanna…dal bacino del fiume Rosmarino (il Chidas di Tolomeo), dai monti Gazzana, col Pizzo di Moele (Mueli), Mangalaviti, Scafi, i boschi degli ex feudi Scavioli, Comune e Trombetta, oltre i quali lo sguardo abbraccia l’altipiano della Miraglia e la vetta del monte Sori (Soro)[i].
Il suo territorio confina a Nord-Ovest con San Marco d’Alunzio, a Nord-Est con Longi, a Sud-Est con Cesarò, a Sud con San Fratello, ad Ovest con Militello Rosmarino,mentre verso il mare tocca anche il territorio di Sant’Agata Militello [ii].
Le origini dell’insediamento si perdono nella nebbia del mito senza che siano stati reperiti puntelli di natura storica. Più volte abbiamo affermato che il mito non rappresenta mai una affabulazione improntata ad esclusiva invenzione, ma piuttosto una costruzione-cornice fantastica, di origine demotica che poggia, però, le sue fondamenta su fatti storici e, quindi, realmente accaduti.
E’ molto probabile che, come sostenuto da Domenico Ryolo [iii], “nell’età del bronzo esistevano lungo le coste della Sicilia popolazioni sparse a piccoli gruppi capannicoli del ceppo e della civiltà allora dominanti nell’Isola (per la precisione, l’Autore allude al ceppo e alla civiltà sicani), come per esempio Milazzo, San Biagio, Tindari e tanti altri (a cui aggiungiamo, di nostro, Scodonì in Torrenova, Monte Scurzi in Militello Rosmarino, San Teodoro in Acquedolci e l’insediamento ai piedi del Monte della Madonna a Capo d’Orlando). Tra il finire dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro e, precisamente, tra il 1200 e il 1000 a.C., si verificò l’invasione della tradizione diodorea, per cui gli elementi antropici indigeni preesistenti, insofferenti di accettare di adattarsi ad un regime di servaggio nei confronti dei popoli invasori, preferirono ritirarsi nell’immediato entroterra, su posizioni più facilmente difendibili e, soprattutto, avendo capito che l’unione conferiva loro maggiore forza, tramutarono i nuclei antropici sparsi lungo le coste, in vere e proprie etnie associate e residenti, fondando numerosi centri urbani.
Non v’è motivo per escludere che il fenomeno sopra descritto abbia interessato anche l’insediamento alcarese.
Precisato quanto sopra, riteniamo che non sia per un caso fortuito e sporadico (ma per una ragione ben più precisa e importante), che la città di Alcara Li Fusi condivida, secondo il racconto mitologico, lo stesso fondatore (evocandone nella denominazione la patria, questa volta) che avrebbe fondato la vicinissima città di San Marco d’Alunzio.
Affermiamo quanto precede perché, secondo il mito, sia San Marco d’Alunzio che Alcara Li Fusi riferiscono le loro rispettive fondazioni a Patron, nativo di Thurios, del quale purtroppo si conoscono solo quelle sparute notizie tràdite da Dionigi d’Alicarnasso, ripreso, successivamente, da Virgilio nell’Eneide.
L’affermazione più ricorrente è quella secondo la quale, quando la flottiglia dell’anchiseide si trovò a navigare nello specchio di mare tra le isole di Eolo e il sacro monte di ‘Aλοντιον sui Nebrodi, Patron, compagno di viaggio di Enea fuggiasco assieme a lui dopo la distruzione di Troia, rimase talmente affascinato dalla bellezza dei luoghi che decise di fermarvisi assieme a qualche altro conterraneo.
L’asserzione risulta vera solo parzialmente.
Infatti, secondo il racconto virgiliano, le cose stanno nel modo che segue:
“A Butroto (oggi, Butrinto), Enea si separò da suo padre, Anchise, per avventurarsi all’interno del territorio sino a Dodòna (città dell’Epiro celebre per l’oracolo di Giove che rispondeva alle interrogazioni per mezzo del murmure dello stormire delle foglie), ove si prometteva di interrogare l’oracolo. Tornato indietro e ricongiuntosi con il padre, partì con le navi alla volta di Onchesmo. In tale ultima località, i Troiani arruolarono il nocchiero-pilota Patron la cui perizia di navigatore consentì loro di attraversare indenni e celermente il canale di Otranto”.
Virgilio aggiunge un’ulteriore notizia, precisando che Patron era di nazionalità acarnana (ossia dell’Acarnania [‘Akαρνανια], regione storica della Grecia che, con l’Etolia, ne costituiva un νομοs molto importante): ciò stesso esclude che Patron potesse essere un compagno di viaggio di Enea scampato all’incendio di Troia.
In Alcara, il mito della fondazione da parte di Patron è stato preso sul serio, tanto è vero che da più parti si sostiene, con il supporto di molteplici fonti letterarie, che la prima denominazione onomastica dell’insediamento fu Castel Turiano adottata con il palese intento di rendere omaggio alla patria del suo fondatore, Patron, nativo di Thurios. Ciò viene attestato non solo dall’anagrafe topografica, quanto dall’esistenza in loco dei ruderi di una fortificazione, che tuttora viene denominata Castello Turiano.
A proposito della polinomia, il Surdi [iv] riferisce di aver visto un’iscrizione scritta in lingua greca, su materiale lapideo scolpito secondo la foggia di una pergamena arrotolata, del seguente tenore: “ερνμα προ του ταυριαυου επειτα ακαρετ, νυν αλκαρια”, ossia “una volta Castel Turiano, poi Akaret, ora Alcara”.
La guerra verificatasi tra Achei e Troiani può essere fissata, con approssimazione fortemente fondata, intorno al 1250 a.C. o, alternativamente, secondo altre ipotesi tra il 1194 e il 1184 a.C.
Da quanto precede può agevolmente ricavarsi che, all’incirca attorno a tali traguardi cronologici, Enea, assieme all’ingaggiato nocchiero Patron, si è trovato a transitare con le sue navi nello specchio di mare antistante i monti Nebrodi tra questi ultimi e le isole di Eolo.
In base a tali limiti cronologici, in altro luogo storico-letterario abbiamo espresso l’opinione che San Marco d’Alunzio potesse contare su un nucleo urbano, sia pure allo stato primitivo ed embrionale, concretizzatosi intorno ai secoli XII-XI a. C.
Non vi sono riscontri obiettivi in grado di confermare l’ipotesi che precede, ma, allo stesso tempo, non esistono neppure elementi di riscontro altrettanto oggettivi, in grado di confutarla e demolirla.
Se San Marco d’Alunzio e Alcara Li Fusi condividono un comune, mitico fondatore, è molto probabile che l’ipotetico periodo della fondazione dei due centri sia cronologicamente pressappoco coincidente e coevo.
L’originaria denominazione dell’insediamento (Castel Turiano) vuole rendere onore al navigatore acarnanico attraverso il ricordo della sua patria.
Per avere contezza del mutamento della denominazione, è necessario riferirsi all’anno 903, quando gli Arabi, che erano sbarcati in Sicilia nell’anno 827, ne completarono la conquista con la definitiva occupazione di Demenna e Turiano.
L’assoggettamento dell’insediamento da parte degli Arabi, portò, tra numerose altre conseguenze, alla mutazione della sua denominazione. Venne abbandonato l’antico nome di Castello Turiano e assunto quello di Alcara, la cui semantica sembra fare riferimento e derivare sia dalla lingua greca che da quella araba, in virtù di quel fenomeno di intitolazione successoria così frequente per le realtà urbane dell’Isola. In arabo, infatti, si ha ‘al-Qarah, con il significato di vicolo, quartiere fortificato; in greco, si ha ‘αλκαρ con il significato di difesa, presidio, riparo, ma anche αλκη‘ con il significato di valore, forza difensiva.
In entrambe le lingue, come si può riscontrare, il riferimento onomastico è indirizzato ad evidenziare la caratteristica principale della castrametazione dell’insediamento, di cui il simbolo rappresentativo è costituito dalla presenza del castello.
In prosieguo di tempo, la denominazione restò pressoché immutata, fatte salve la traduzione in latino e, via via in volgare italico e, per finire, in italiano con qualche aggiunta onomastica.
Il toponimo è documentato a partire dal 1082 come Alcares, Castellum Alcariae, Alkares. Con l’aggiunta onomastica a far tempo dal 1812, abbiamo Alcara De Fusis in origine e, poi, man mano, Delli Fusi e, infine, Li Fusi.
L’appositivo (De Fusis, Delli Fusi, Li Fusi) è comunemente spiegato con riferimento alla produzione e al diffuso impiego del fuso, attrezzo conosciuto sin dai tempi antichissimi in tutto il bacino del Mediterraneo, usato, in complementarità con la rocca, per la filificazione manuale della lana greggia, del cotone e della canapa. Questo, evidentemente, fa pensare alla fiorente e pregiata attività tessile per la quale ancora oggi si hanno, tra le maestranze alcaresi soprattutto femminili, esemplari testimonianze di pregiati manufatti tessili ricercati in tutta l’Isola e anche fuori, diffondendo per ogni dove il nome dell’insediamento, per altro diffuso anche per ‘a festa du muzzuni di origine pagana, sincreticamente assorbita dal culto cristiano (per una interpretazione originale e al di fuori dagli schemi scolastici di tale rito, cfr. Giuseppe Ingrillì in Siciliantica Capo d’Orlando del 20 giugno 2018, https://capodorlando.org/siciliantica/il-rito-del-muzzuni-ad-alcara-li-fusi-omaggio-alla-grande-madre-nel-solstizio-destate:
“Alcara Li Fusi compare nella storia della Sicilia con questa identità rituale, che nasconde all’uomo parte della sua genesi e provenienza, essendosi formata in epoche remote, figlia di una civiltà protostorica che affonda le sue radici nella tradizione umana di questo lembo di terra. Quel che ci arriva oggi è l’immagine rituale di una gens agricola, cresciuta nell’alternarsi del ciclo delle stagioni e che da esse traeva quella religiosità che ritroviamo oggi, tale e quale, nell’essenza del rito del “muzzuni”. Percorso spirituale che si contamina nel corso dei secoli solo nell’aspetto esteriore della mutazione del simbolo, mantenendo celato nel profondo la maternità della generazione”.
Le brevi premesse storico-mitologiche che precedono erano certamente necessarie al fine della conoscenza della realtà naturale, sociale ed antropica del teatro nel quale si sono verificati i fatti che saranno narrati qui di seguito.
Nel 1898 il Comune di Alcara Li Fusi nel Valdemone si rivolgeva al Tribunale Speciale, al quale chiedeva che venisse emesso un provvedimento di reintegrazione nel possesso delle terre facenti parte del demanio comunale, le quali terre, secondo l’assunto del richiedente, erano state usurpate da alcuni privati cittadini alcaresi, per la maggior parte di agiato ceto sociale in quanto grossi proprietari terrieri.
L’Università comunale di Alcara agiva, evidentemente, nomine proprio, ma sostenendo, implicitamente, le ragioni dell’intera comunità. Infatti, così com’è scritto nell’atto di “rappresentanza”, il Comune dichiara di agire “per i diritti dei singoli di Alcara Li Fusi sul proprio demanio”.
Nell’atto di “rappresentanza” dinanzi il Tribunale, la difesa dell’Università comunale esprime profonda meraviglia e stupore per il fatto che proprio quelle terre, che ai sensi e per gli effetti della legge 8 giugno 1807 e della successiva di integrazione e aggiornamento del dicembre 1812, si sarebbero dovute destinare a beneficio esclusivo degli “Alcaresi poveri e dei meno abbienti”, erano state, nella realtà, e si trovavano tuttora inglobate nel patrimonio di alcuni grossi proprietari terrieri indigeni, i quali con sfacciata intraprendenza e approfittando il più delle volte della loro posizione di amministratori comunali, si comportavano nei confronti dei cespiti usurpati, uti domini, sebbene in assenza di qualsiasi titolo giustificativo di tale vantato diritto reale.
L’area agonistica vedeva, dunque, i contendenti giudiziali schierati in due anime contrapposte: da una parte, il comune di Alcara Li Fusi che sosteneva che le terre oggetto della contesa sottostavano al regime di “demanialità” (il termine appare una forma contratta di dominus-dominium e rappresenta, in ogni caso, una etichetta sotto la quale sono inquadrati tutti i beni immobili di natura pubblica, caratterizzati dalla inalienabilità e inusucapibilità); dall’altra, alcuni dei più grossi nomi della borghesia terriera locale, impegnati a sostenere, al contrario e in antitesi, la cosiddetta “allodialità” (il termine sembra derivare dal greco ‘αλλοs [l’altro e, quindi, il privato] e designa i beni di proprietà privata) di tutto il compendio immobiliare attorno al quale era sorta la controversia.
Più precisamente, la domanda portata alla cognizione del Tribunale Speciale riguardava la richiesta di accertamento giudiziale al fine di statuire circa la demanialità o l’allodialità delle terre facenti parte dei feudi denominati “Scavioli”, “Comune”, “Trombetta”, “San Giorgio”.
Per l’esatta intelligenza del caso giuridico in rassegna, occorre rammentare che l’insediamento umano a carattere primordiale, che nel tempo assunse la denominazione di Alcara Li Fusi, secondo varie fonti letterarie, si denominò in origine Turiano [v] nell’anno 1081, durante la dominazione normanna, venne assegnato al vescovo di Troina. Nell’atto concessorio il Granconte Ruggero dice “In valle Deminae Castrum quod vocatur Acharet cum omnibus pertinentiis suis” [vi], includendo nell’atto di liberalità la piena giurisdizione su “omnes presbyteros tam latinos, quam graecos”. Gli avvenimenti storici susseguenti sono ben noti: nell’anno 1088, su intervento del papa Urbano II, la sede vescovile di Troina venne soppressa e il suo territorio con ogni pertinenza venne trasferito a Messina, per cui anche il Castrum Taurianum passò sotto la giurisdizione della Curia messinese.
Infatti, a far tempo dal 1096 (in virtù del diploma emanato in pari data del Granconte Ruggero, confermato, successivamente, nel 1114, da suo figlio, re Ruggero, nonché dall’imperatrice Costanza nel 1189 e dall’imperatore Federico II nel 1212), il vescovo di Messina ebbe infeudato il Castello di Alcara. In molte fonti scritte il provvedimento di concessione aggiungeva al predetto Castello la formula “cum tenimento suo” (invece, di quella più comunemente adoperata di cum tenimentis suis, come se la formula adoperata volesse esplicitamente alludere ad una sola pertinenza), il vescovo di Messina aveva ritenuto di interpretare la clausola, evidentemente pro domo sua, considerando legittimo esercitare, a riconoscimento di tale sua giurisdizione, il pieno e assoluto diritto di proprietà sull’intero territorio del comune di Alcara e dei suoi comunisti con la conseguenza di potere applicare alcuni diritti angarici (precisamente, angarie, abusi feudali, corpi baronali come zagato, fondaco, trappeto e bocceria, e diritti privati: si trattava, come appare evidente, del diritto di potere esercitare una serie interminabile di prelievi fiscali, sia in denaro, che in natura), oltre il diritto di percepire da questi fondi una certa quantità di ghiande tra quelle prodotte.
Quando medio termino, nel 1812 furono emanate le leggi abrogative della feudalità e, quindi, le norme attuative dello scioglimento dei cosiddetti “diritti promiscui” in applicazione delle Istruzioni approvate con R.D. 11 dicembre 1804, tra il comune di Alcara Li Fusi e la Curia Arcivescovile di Messina, furono avviate le procedure sottese allo scioglimento e caducazione di tutti quei diritti.
La controversia tra l’universalità comunale e la curia arcivescovile fu piuttosto complessa e ardua, improntata, come fu, prevalentemente, sulla cavillosità delle parti contendenti con particolare riferimento alla posizione giuridica della Curia, la quale continuava ad insistere nel ritenere che la clausola contenuta nel diploma concessorio del Castello, “cum tenimento suo”, fosse la fonte giuridica sacramentale del suo diritto di proprietà su tutto il territorio del comune di Alcara Li Fusi, stravolgendo, così, la vera natura del provvedimento concessorio tramite il quale veniva ottriato al primate zancleo solo e semplicemente un potere squisitamente giurisdizionale, e non certo dominicale, sui beni concessi.
Sin dall’inizio delle formalità transattive fu chiaro che non si sarebbe pervenuti alla sperata conclusione pacifica della vertenza e ciò sempre in dipendenza dell’atteggiamento dell’arcivescovo il quale persisteva nella sua posizione ermeneutica della clausola cum tenimento suo, ritenendo che l’espressione letterale della stessa minus dixit quam voluit.
In dipendenza dello stallo nel quale erano venute a trovarsi tali trattative, l’Intendente di Messina, con sua ordinanza datata 3 aprile 1843, ebbe a dare alla vicenda un taglio netto e perentorio secundum justitiam, risolvendo la questione a favore del comune di Alcara.
Nel suo provvedimento ordinatorio, l’Intendente sancì a chiare lettere come il potere dominicale sulle terre risiedesse piuttosto nel Comune e nei comunisti che nell’Arcivescovo (pag. 3 del provvedimento intendentizio), con l’ulteriore, troncante precisazione e richiamo di tutti gli usi secolari regolanti il rapporto tra i comunisti e le terre dei soppressi feudi Scavioli, Comune e Trombetta (pag. 4 della nominata decisione intendentizia).
La difesa dell’Università comunale afferrò repentinamente la natura e la portata del provvedimento dell’Intendente, evidenziando come il decidente, nella richiamata sua ordinanza risolutiva, si fosse premurato ad evidenziare, con l’evidente teleologia di evitare, per l’avvenire, ulteriori contrasti giudiziari, i vari diritti di uso del Comune e dei comunisti di Alcara in virtù di antichi atti esaminati dallo stesso Intendente, andati in seguito smarriti o, cosa molto più probabile, intenzionalmente sottratti e distrutti.
La risoluzione intendentizia, con chiara evidenza, scontentò l’arcivescovo dello Stretto, il quale non perse tempo ad impugnarla dinanzi la Corte dei Conti dove finì per arenarsi in modo definitivo senza che venisse emesso alcun provvedimento a seguito del gravame proposto dalla Curia, come se il Giudice dell’appello avesse voluto, con tale atteggiamento, sentenziare NON LIQUET.
Durante il lungo periodo di tempo nel quale Comune e Mensa, quisque pro suo, avevano sostenuto le proprie ragioni in sede contenziosa, la Mensa arcivescovile, così come venne successivamente attestato dal notaio Gaspare Tricomi in seno alla transazione da lui stesso rogata, “la Mensa non ottenne altro che la partecipazione al prodotto delle ghiande che le dava scarsissimi introiti essendo poca e rara la fruttificazione”.
Infatti, dopo molti anni, il Demanio dello Stato, in rappresentanza della Mensa arcivescovile in virtù di apposito mandato conferitogli, aveva ritenuto opportuno pervenire alla decisione di tentare di comporre la lite de bono et aequo, facendo in modo che tra Mensa arcivescovile di Messina e Università di Alcara Li Fusi, si raggiungesse una terminativa transazione notarile tramite atto 13 maggio 1872, rogato in notaio Gaspare Tricomi.
E’ interessante riportare il contenuto della cennata transazione con riferimento a quanto statuito e convenuto al suo articolo due:
“La Mensa rappresentata dal Demanio rilascia al Comune di Alcara l’intero dominio dei suddetti tre ex feudi Scavioli, Comune e Trombetta libera da ogni schiavitù a favore della Mensa”.
In questo modo venivano a decadere tutti i possibili motivi e ragioni di contrasto tra l’Università comunale e l’Arcivescovado con il contestuale passaggio, in capo al suddetto Comune, della titolarità, jure proprietatis et jure possessionis, delle terre facenti parte dei soppressi feudi Scavioli, Comune e Trombetta.
Per quanto, invece, attiene all’ex feudo San Giorgio, nulla quaestio, in quanto quest’ultimo cespite, non solo era rimasto nel pieno possesso dei comunisti alcaresi, quanto era stato tenuto al di fuori da ogni tipo di controversia giudiziaria. Tuttavia, durante il protrarsi della controversia giudiziaria era avvenuto che, sia nelle terre degli ex feudi Scavioli, Comune e Trombetta, come pure in quelle dell’ex feudo San Giorgio, a causa della rarefazione degli alberi dei boschi (e ciò sia a causa di eventi naturali, sia per volontà e manodopera umane), si erano create le cosiddette “praterie”, ossia delle vaste oasi comportanti soluzioni di continuità nel tessuto boschivo, un tempo omogeneo ed intonso, fatte di radure che si prestavano alla coltura estensiva, al pascolo e alla semina.
Su tali praterie i singoli cittadini alcaresi avevano, ab immemorabili, esercitato il diritto di pascipascolo, di coltura e di semina, come, inequivocabilmente, poteva evincersi anche dai bilanci e dagli inventari comunali.
Orbene, a seguito della transazione tra il comune di Alcara e la Curia arcivescovile, consacrata nell’atto notarile cui sopra si è fatto cenno, il Comune di Alcara Li Fusi, e per esso i singoli comunisti, era facultato all’esercizio di un pieno ed assoluto diritto su tutti i territori facenti parte dei soppressi feudi Scavioli, Comune e Trombetta e ciò sia sulla parte propriamente boschiva, che sulle cosiddette “praterie”.
Grandissima, tuttavia, fu la sorpresa quando, sia in sede di ricognizione territoriale finalizzata alla individuazione dei cespiti immobiliari e conseguente apprensione degli stessi, sia in sede della cosiddetta “fida degli erbaggi comunali e del taglio della legna”, il Comune si rese conto che proprio in mezzo alle praterie e per tutto l’ambito del territorio ex feudale, esistevano dei vasti lotti di terreno recintati come a volerne rimarcare la loro natura di soggezione al diritto privato con l’evidente aggravante che tali lotti recintati, quasi possedessero una autonoma vita biologica, tendevano ad allargarsi avvicinandosi sempre più ai confini boschivi.
La tecnica era molto semplice ed elementare: man mano che si effettuava il taglio degli alberi dei boschi (spesse volte in modo abusivo, arbitrario e senza l’osservanza delle norme forestali poste a tutela del patrimonio boschivo), l’area delle praterie finiva con l’espandersi in quanto i tenutari estendevano, motu proprio, il loro jus arandi alla parte un tempo occupata dal bosco.
Tale situazione irregolare e illegittima aveva costretto l’amministrazione forestale e il Ricevitore dei rami e diritti diversi ad effettuare, nella data del 25 aprile 1841 una verifica, a seguito della quale si constatarono usurpi di ben 350 ettari di terreno boschivo di cui fu, ipso jure, ordinata la reintegrazione in favore del Comune di Alcara Li Fusi. In tale frangente furono riconosciuti usurpatori Artino Nicolò, Mileti Gaetano, Giacinto e Michele, Di Bartolo Erasmo, tutti quanti danti causa degli odierni convenuti nella controversia della quale si sta trattando.
Tale episodio non fu sufficiente a scoraggiare, però, l’intraprendenza degli agrari, per cui l’Intendente di Messina, tramite ordinanza del 14 luglio 1854, aveva dato mandato al barone Gioacchino Calcagno di procedere all’ulteriore verificazione dei confini del demanio.
Il barone Calcagno aveva riferito che l’estensione del terreno usurpato dai tenutari era di gran lunga superiore a quella accertata in data 25 aprile 1841. A seguito di tale ulteriore verifica, il Prefetto di Messina aveva emanato un’ordinanza con la quale aveva dato incarico all’assessore Salvatore Franchina di procedere, con l’ausilio di periti e testimoni, alle dovute verifiche.
Il Franchina, così come risulta dai verbali 5/27 novembre e 3 dicembre 1875, rilevò ulteriori usurpi oltre quelli verificati dal barone Calcagno. Malgrado ciò, però, l’amministrazione comunale di Alcara, per motivi rimasti sconosciuti, non adottò i dovuti provvedimenti a tutela del patrimonio immobiliare pubblico. Il dato storico, documentalmente accertato, rivela che nel consesso dell’amministrazione comunale di Alcara sedeva la maggior parte di coloro che avevano commesso gli usurpi che l’amministrazione avrebbe dovuto perseguire. Si ripresentava, così, l’antichissimo dilemma quis custodet custodem?
Le conseguenti querele ratificate da singoli comunisti di Alcara Li Fusi indussero il Prefetto di Messina a nominare con sua ordinanza del 30 dicembre 1882, l’Agente demaniale Lo Re che, constatati i nuovi e molteplici usurpi, ordinò agli usurpatori (Artino, Di Bartolo e Ciuppa) di reintegrare nel possesso dei terreni medesimi i comunisti alcaresi.
Si rammenta che nei tempi passati, precisamente nel 1838, a seguito di ricorso presentato da don Gaetano Mileti, proprietario di bestiame, il sindaco di Alcara li Fusi, accompagnato in loco da testimoni e periti, provvedeva a far distruggere muri a secco e recinzioni posti a protezione di fondi pseudo privati, costruiti in contrada Pasci dell’ex feudo San Giorgio, da Biagio Bartolo, rappresentato in causa dal convenuto Francesco Ciuppa.
Per una visione la più panoramica possibile della vicenda, occorre rammentare la nota tramite la quale la Sottointendenza di Patti, in data 11 agosto 1842 richiamava energicamente il sindaco pro tempore di Alcara Li Fusi, giungendo, addirittura, a minacciarne la destituzione ove non avesse assunto un atteggiamento più fermo nei confronti delle usurpazioni terriere avvenute nel territorio dell’ex feudo San Giorgio commessi dai signori Di Bartolo e Cupito, entrambi contraddittori in seno alla controversia giudiziaria in rassegna.
Infatti, la parte occupata dell’ex feudo San Giorgio risultava appartenersi, al momento della lite, a Ciuppa Vincenzo, avente causa del nonno materno Cupito, e a Bartolo Giuseppe fu Manfredo e Bartolo Francesco, aventi causa di Bartolo Manfredo fu Erasmo. L’intraprendenza degli usurpatori giungeva a tal punto che il signor Manfredi Di Bartolo, che viene definito come noto usurpatore di terre dell’ex feudo San Giorgio, si rivolgesse con un esposto al sindaco alcarese per lamentare le recinzioni di terreno effettuate da tenutari limitrofi che, così, impedivano il libero pascolo degli animali.
Pungolato in tale guisa, il sindaco aveva deciso di recarsi in loco e, con verbale dell’ 11 giugno 1865, aveva rilevato che Artino Luigi, di cui sono eredi gli attuali convenuti Artino Carmelo, Artino Carolina e, per quest’ultima, Ibba Carolina e Marietta, aveva dichiarato che la chiusura da lui fatta nel fondo Arnasà, “era temporanea e necessaria per la copula delle giumente e che avrebbe abbattuto i recinti appena esaurito lo scopo”.
Nell’occasione il sindaco accertava, inoltre, l’esistenza di altre chiusure abusive e arbitrarie da parte di Francesco Ciuppa in contrada Scarpani, ex feudo Scavioli e in contrada Cassata, ex feudo Trombetta; da parte di Bartolo Emmanuele (avente causa di Rundo Antonio) in contrada Calogero, ex feudo Scavioli; da parte di Bartolo Emmanuele (avente causa Ciuppa Francesco) nell’ex feudo Comune, contrada Seva e da parte di Manfredo Bartolo nelle contrade Orbano e Gerbo dei Monaci, ex feudo Trombetta.
Nel giudizio instaurato dinanzi il Tribunale speciale, i convenuti, signori Ciuppa, Rundo, Di Bartolo, Gentile, Rizzo, Valenti avevano eccepito l’incompetenza funzionale del giudice adito sul presupposto che, trattandosi di fondi “allodiali”, il giudizio andava radicato dinanzi la magistratura ordinaria, alla stregua di qualsiasi domanda di rivendica.
Senonché, ribadisce la difesa del Comune e, per esso, dei singoli comunisti, l’oggetto del giudizio è proprio l’accertamento della demanialità dei beni, per cui la competenza non può che essere del Tribunale speciale.
Aggiungeva tale difesa, a confutazione dell’eccezione avversa, che il fumus boni juris della natura demaniale dei fondi oggetto della controversia era dimostrata: dall’ordinanza intendentizia del 3 aprile 1843; dalla transazione con la Curia di Messina; dalle numerose ordinanze prefettizie, nonché dalla sentenza del Tribunale di Patti dell’ 8 marzo 1878 e da quella, in grado di appello, della Corte d’Appello di Messina del 17 agosto 1885.
Se, dunque, si trattava di beni demaniali, prosegue la difesa del Comune di Alcara li Fusi, era pacifico e incontrovertibile che i convenuti si trovavano a detenere i beni medesimi sine titulo, a nulla valendo gli atti di disposizione inter vivos o mortis causa che i convenuti avevano posto a giustificazione del loro possesso quali titoli di provenienza dei loro pretesi diritti dominicali. Giusta la disposizione della norma contenuta nell’art.176 della legge 1876 riguardante i beni classificati come demanio comunale, gli atti di “alienazione a qualunque epoca essi rimontino sono improduttivi di effetti giuridici” e, per questo, affetti da nullità assoluta e insanabile, in quanto atti posti in essere a non domino.
La difesa si conclude con una nota tecnico-processuale fondantesi sulla circostanza per la quale, intendendo i convenuti dimostrare l’allodialità dei beni oggetto di controversia, essi hanno finito con rendersi attori di modo che si sono assunti pienamente l’onere di provare le loro affermazioni secondo il noto principio giuridico onus probandi ei incumbit qui dicit.
Pur tuttavia, la difesa attorea, per completezza di tutela dei rappresentati, ha chiesto che il Tribunale disponesse una “perizia” al fine di provare, nei modi consentiti dalle norme rituali, la “talietà, consistenza e qualità dei terreni in contesa per rilevare come essi in massima non abbiano rispondenza con i titoli opposti dagli avversari e come rifulga sempre meglio il concetto di demanialità”.
La memoria difensiva del comune di Alcara metteva in evidenza come le usurpazioni di terreno demaniale nel territorio comunale erano avvenuti secondo vari metodi e comportamenti.
“Le praterie trovandosi al limitare dei boschi, a misura che si esercitava il taglio dei medesimi, spesso abusivamente fatto, di tempo in tempo si ingrandiva e diventava terreno libero quello che era compreso una volta nella linea boschiva. E così detti tenutari ivi estendevano il c.d. jus arandi, consistente come si disse nella riscossione di quattro tumoli di frumento per ogni salma di terreno seminativo, tali sconfinamenti spesso per lungo tempo tollerati dalle Amministrazioni comunali, rette dagli stessi interessati, prendeano man mano grandi proporzioni ed allora veniano i reclami e coi reclami le verifiche, le misurazioni, per ricostituire a norma degli antichi titoli la zona boschiva”.
Solo in seguito all’ordinanza emessa in data 10 dicembre 1883 dall’Agente demaniale Lo Re, nominato dal Prefetto di Messina, fu stabilito il confine della nuova zona boschiva con conseguente ordinanza, da eseguirsi da parte degli usurpatori, di reintegrare nel possesso l’Ente territoriale alcarese.
Gli atti di sottrazione di lotti di terreno comunale non trovarono tregua, malgrado l’attenzione e vigilanza dell’Amministrazione comunale, soprattutto dopo la diffida inoltrata al Comune da parte della Sottointendenza di Patti. Dalle frequenti ispezioni territoriali effettuate dal Comune, furono acclarate numerose chiusure abusive di terreni demaniali, in particolare, da parte di Ciuppa Francesco nella contrada Scarpani del soppresso feudo Scavioli e nella contrada Cassata del soppresso feudo Trombetta, anche se il Ciuppa aveva dichiarato che la chiusura aveva carattere di temporaneità; altrettanto aveva fatto il signor Bartolo Emmanuele (oggi, Rundo Antonio) in contrada Calogero dell’ex feudo Scavioli e in contrada Seva dell’ex feudo Comune (oggi, Ciuppa Francesco); e ancora Manfredo Bartolo (oggi Bartolo Sebastiano e sorelle) in contrada Orbaro e Gerbo dei Monaci del soppresso feudo Trombetta.
Il Comune chiese formalmente all’Intendente di Messina, competente per materia e territorio, di ordinare la sua reintegrazione nel possesso dei lotti demaniali usurpati. L’Intendente, tramite sua ordinanza datata 27 gennaio 1867, riconoscendo che le terre sulle quali si erano verificati gli usurpi rientravano tutte nel demanio comunale e dichiarandosi, per questo, malgrado le opposizioni degli usurpatori, competente a provvedere in merito, ritenne, prima di decidere nel merito la controversia, di nominare un Agente demaniale con il mandato di accedere, con il supporto di periti, sui luoghi di controversia per procedere alle dovute verifiche tecniche e topografiche.
Le cose, dunque, sembrano essersi messe bene per i comunisti alcaresi, sennonché alcuni radicali cambiamenti avvenuti nell’Amministrazione comunale con l’elezione di coloro i quali erano gli usurpatori fecero in modo di rendere caduca e di nessuna utilità concreta l’ordinanza intendentizia con l’ulteriore effetto che le usurpazioni si decuplicarono.
La memoria difensiva dell’Università comunale ebbe a sottolineare come il problema sarebbe certamente rimasto irrisolto con ulteriore aggravamento, se l’estensione dell’esercizio del diritto elettorale con concessione del suo esercizio alla maggior parte dei popolani, non avesse fatto in modo di eleggere altri rappresentanti popolari che, non essendo portatori di interessi personali, affrontarono il problema in modo risoluto rivolgendosi all’Autorità tutoria in modo energico e deciso chiedendo, senza mezzi termini, che le terre del demanio comunale fossero restituite al servizio degli usi civici dei singoli alcaresi.
L’azione degli amministratori locali fu talmente decisiva che il Prefetto di Messina, avvalendosi delle facoltà concesse dagli articoli 176 e 177 della legge organica del 12 dicembre 1816, delle Istruzioni del 1841, dell’art. 16 della legge sul contenzioso amministrativo del 25 marzo 1865 e relativo regolamento del 25 giugno stesso anno, ebbe a nominare, al fine di accertare gli usurpi, il signor Carlo Marchese perché accedesse sui luoghi e, con l’ausilio di periti e testimoni, relazionasse al mandante sull’argomento.
L’incaricato da Prefetto, signor Carlo Marchese, si mise subito all’opera, redigendo una dettagliata relazione, corredata da una pianta topografica, da cui emergevano le usurpazioni poste in atto.
In particolare, nella relazione possono leggersi le seguenti conclusioni:
1)I terreni chiusi o girati si trovano dentro il limite degli ex feudi Comune, Scavioli, San Giorgio e Trombetta;
2)Essi non si trovano in unico punto e demarcati dalle terre che si posseggono dal Comune, né hanno confini naturali; ma sono sparsi qua e là in tutto il demanio comunale e circoscritti rispettivamente da terre appartenenti senza contrasto al demanio stesso;
3)Il terreno usurpato è poco alberato ed è nella massima parte erbaggioso e seminatorio;
4)La data degli usurpi nel più dei casi è recente.
A seguito e in dipendenza degli accertamenti che precedono, alcuni degli usurpatori si sono spontaneamente presentati al comune di Alcara dichiarando di volersi conciliare e facendo, per questo, atto di prontezza per il pagamento dei canoni a causa della abusiva occupazione. Tra costoro, vi erano i signori Ciuppa Francesco, Ciuppa Vincenzo e Ciuppa Celestino.
Altri usurpatori, prima di comparire in udienza, si sono dichiarati disponibili a rilasciare le terre abusivamente occupate.
Altri, infine (che la difesa del Comune dichiara essere pertinaci e impenitenti), come gli attuali convenuti (Ciuppa, Rundo, Di Bartolo, Gentile Rizzo, Valenti e consorti), avendo eccepito in via preliminare l’incompetenza funzionale o per materia del Tribunale, basano la loro difesa sull’affermazione che si tratta di terre proprietà allodiali, loro pervenute per titoli di trasferimento, per le quali l’adito tribunale speciale risulta essere incompetente.
Questi sopra esposti, dunque, i termini della contesa; questi i protagonisti.
Dalla vicenda si possono trarre delle considerazioni conclusionali a carattere generale che, pur non possedendo precipua attinenza con la STORIA vera e propria, ma soltanto con gli insegnamenti che dalla storia possono essere correttamente e doverosamente tratti, possono essere riassunte nel modo che segue.
La prima di tali considerazioni riguarda la genesi della proprietà terriera di natura privatistica.
Mi piace riportare, sull’argomento, una lirica del compianto Francesco Fiumara, che ha come titolo
La stecconata*
Per tutti ancora maturava il loto,
per tutti era grande la terra.
Triste fu il giorno quando un uomo
primo
alzò per sé la stecconata e chiuse
la pianura feconda.
Un altro così fece. Così molti
sprangarono la terra,
e l’arbitrio fu legge.
Chi tardi giunse, verso l’imbrunire,
con la prole d’appresso, a raccattare
il maturo corbezzolo per cena,
vide il fratello fatto bieco
dietro la stecconata del diritto.
E a nulla valse il grido della fame
nella gola dei figli sbigottiti.
“Servire” fu il responso.
E una parte degli uomini fu schiava.
Più vivo un desiderio d’esistenza
l’animo invase
e i miseri sospinse ai monti scabri,
ai greti, alle paludi…
Fatta avara la terra
sudore e morte chiese
per aprirsi al germoglio usurpato.
Sulla montagna dei reprobi
più ampio allora si slargò l’abbraccio
della gran Croce,
e un Dio morente i miseri raccolse.
Pane di stenti e di preghiere
nutrì l’angoscia dei millenni.
Lievito di speranza è ancora il pasto
per la gioia dei figli che verranno.
La seconda considerazione che consegue alla prima, così come un corollario discende da un teorema, attiene all’inevitabile situazione socio-economica venutasi a creare in Alcara Li Fusi. A causa di tale status quo l’elemento demografico del paese era evidentemente spaccato tra una minoranza di furbetti e una maggioranza di lavoratori e persone oneste giunti tardi, all’imbrunire, dopo che erano state già erette le stecconate del diritto, per cui la popolazione residente si trovò collocata, in maniera antagonistica in quanto spinta da interessi contrastanti a volte vitali, parte al di qua e parte al di là della barricata.
Con ogni probabilità, furono proprio tali condizioni di vita, sociale, economica e, anche, psicologica, a lungo covate per intere generazioni a guisa di brace sotto la cenere, che determinarono in Alcara Li Fusi (e non solo in Alcara li Fusi, ma in numerosi altri paesi della Sicilia venutisi a trovare nelle medesime condizioni socio-economiche) l’esplosione, all’indomani dello sbarco a Marsala dei Mille di Garibaldi, di quel collettivo raptus omicida che portò allo eccidio del 17 maggio 1860.
Ma questa è un’altra storia!
*(Estratto da M.Manfredi-Gigliotti, VARIAE HISTORIAE FRAGMENTA, Un caso giudiziario, riguardante Alcara Li Fusi, di circa un secolo fa, pag. 33, Palermo 2003- Versione riveduta ed ampliata)
*(Da: Le favole hanno occhi di pietra, Edizioni Pagine 1960)
[i] (Da: Gaetano Morelli, Alcara Li Fusi (Messina)Storia-Leggende-Tradizioni-Notizie Varie, Messina 1967)
[ii] (Da: Gaetano Franchina, Religiosità e Feste ad Alcara Li Fusi, Cenni storici e orientamenti pastorali, Catanzaro 1989)
[iii] (San Marco d’Alunzio: Cenni storici e monumenti, Sant’Agata Militello 1980)
[iv] (Surdi A. G. M., Vita, morte e miracoli del glorioso San Nicolò, Palermo 1692)
[v] (Plinio, Historia naturalis, I, IV, c. XII; Dionisio d’Alicarnasso, Antichità romane, I,I)
[vi] (Rocco Pirri, in Sicilia Sacra ove l’Autore introduce una nota a pié di pagine: Alcaria nunc dicitur)
BIBLIOGRAFIA
Agliolo Gallitto N., La scultura ad Alcara Li Fusi tra il 1500 e il 1600,
Sant’Agata Militello 1991;
Amari M., Storia dei Musulmani in Sicilia, Catania 1977;
Amico V., Lexicon topographicum siculum, Catania 1760;
Bontempo B., Memorie patrie di Alcara Li Fusi, Palermo 1906;
Id., Ricordi e visioni del mio paese, Alcara Li Fusi, Catania 1950;
Collura M., Sicilia sconosciuta, Milano 1984;
Correnti S., Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità della Sicilia, Roma 2000;
De Maria G., Notizie storiche di Alcara in Val Demena, Messina, 1967;
Fazello T., De rebus siculis decades duae, Palermo 1558;
Maurolico F., Sicanarum rerum compendium, Messina 1557;
Pirri R., Sicilia Sacra, Palermo 1633;
Scaduto M., Il monachesimo basiliano nella Sicilia Medioevale, Roma 1947;
Siino P., Una oscura pagina della rivoluzione siciliana del 1860. I fatti di Alcara li Fusi, Palermo 1980;
Stazzone G., Storia del castello Turiano di Alcara Li Fusi, Storia dei Nebrodi 3,Brolo 1995.
Foto tratta da Wikipedia alla pagina di Alcara Li Fusi