“Messina Normanna” di Shara Pirrotti
«Chi mi dirà buona notte in Messina? E chi mi dirà buonasera a Messina?», si domandava il poeta alessandrino Ibn Qalaqis, con una punta di ironia.
L’aspetto di Messina agli inizi del secondo millennio era infatti quello di un paesello su la costiera di Sicilia, uno dei tanti, dove viveva uno sparuto numero di greci e saraceni. La penuria di abitanti aveva diverse motivazioni: innanzi tutto le rappresaglie subite dalla popolazione per i ripetuti sbarchi dei bizantini; la concreta impossibilità di effettuare scambi con il proprio entroterra e con la Calabria; il fatto che il suo porto sotto i Musulmani avesse perso gran parte del suo potere strategico: motivi che avevano indotto molti messinesi a trasferirsi altrove, magari in borghi dell’interno, dove condurre un’esistenza meno incerta. Una ulteriore riprova del fatto che nel X-XI secolo la città fosse considerata poco importante, deve ritenersi la scelta di denominare “Valdemone” una delle tre circoscrizioni fiscali nelle quali a quell’epoca era stata divisa la Sicilia, derivando il suo nome da “Demenna”, una città sui monti Nebrodi, distante da Messina oltre cento chilometri. La notizia riportata da Goffredo Malaterra, che al momento della conquista, in città vivesse «plurima multitudo» deve considerarsi inventata dal cronista normanno per meglio celebrare le gesta del suo eroe, Ruggero I. Amato da Montecassino, l’altro cronista testimone oculare della spedizione vittoriosa dei Normanni, al contrario, conformandosi alle notizie riportate dai colleghi musulmani, sottolineava che i Normanni avevano attraccato sulle coste della Sicilia ed erano entrati nel porto di Messina senza alcun timore e senza alcuna disciplina, al punto che i servi precedevano i padroni e non portavano loro onore, per il forte desiderio, la felicità e la sicurezza che avevano tutti di conquistare un territorio che appariva potenzialmente appetibile e palesemente inoffensivo.
E’ probabile che già intorno al 1038-1040, quando sbarcarono per la prima volta a Messina come mercenari al soldo del generale Giorgio Maniace, nell’estremo tentativo bizantino di riconquista dell’isola, i Normanni si fossero resi conto delle sue potenzialità e dell’enorme fortuna che avrebbero potuto trarne, se quel periferico cul de sac islamico fosse stato valorizzato per la sua indiscussa importanza strategica. Sicchè, tra il 1060 e il 1061, «quei maledetti Normanni», quei «pezzenti ardimentosi senza un soldo in tasca e senza un principio morale», un nucleo cioè di banditi avidi di guadagni e bottino, avvezzi a faire chevalerie, vale a dire, saccheggi, stupri e ogni tipo di violenze per le quali erano temuti in tutto il Meridione d’Italia, sbarcarono ad locum, qui Trium Monasterium dicitur (cioè Tremestieri, mentre i Musulmani aspettavano un attacco da nord), ed espugnarono facilmente la città. Con i Normanni l’isola, dopo due secoli di appartenenza al dar al Islam, entrerà definitivamente, come è noto, nell’Occidente cattolico. Vi entrerà non senza la famigerata ferocia che caratterizzò la conquista normanna e che ha da sempre caratterizzato, in ogni tempo, ogni azione bellica. Ruggero I, infatti, «non posò dallo sbaragliare le turbe, dal soggiogare i tiranni, dal colpirli con diverse maniere di morte e di sterminio, finchè non se ne impossessò ed espugnò, e ciò nel corso di trent’anni», come racconta Edrisi.
Purtuttavia, appena giunto a Messina, Ruggero volle far erigere all’ingresso del porto, nel luogo dove alcuni Cristiani erano stati giustiziati dai musulmani, «commossosi alquanto a quella vista», una chiesa e un monastero di rito greco dedicati al SS. Salvatore. Il monachesimo greco, alla pari di quello latino, avrebbe da quel momento supportato il Gran Conte nelle delicate fasi della conquista e del successivo consolidamento del potere, quando Ruggero, riciclatosi abilmente, seppe trasformarsi da avventuriero e avido mercenario (quale rimase fondamentalmente suo fratello Roberto il Guiscardo) in capo di governo, lungimirante al punto da voler includere le diverse etnie, a vario titolo, nella gestione del suo potere. Sotto il primo Ruggero furono restaurati e addirittura rifondati numerosi monasteri italogreci messinesi, la cui struttura architettonica rappresentava sincreticamente la presenza e l’incidenza delle diverse etnie che abitavano il suolo siciliano, tra le quali ebbero un ruolo importante le maestranze bizantine operanti al di qua e al di là dello stretto, autrici di quel processo di affinamento e integrazione che rende ancora oggi del tutto originali le architetture “basiliane” della provincia di Messina e della Calabria.
Il primo archimandrita del SS. Salvatore di Messina, Luca, quando fu chiamato nella città peloritana nel 1131 da Ruggero II, portò con sé da Rossano calligrafi e maestri, per fare dell’archimandritato messinese il centro propulsore della cultura greca in Sicilia, concentrando nella biblioteca del SS. Salvatore, secondo un progetto talmente ambizioso da non poter essere taciuto neppure nel documento di fondazione, testi classici, patristici e preziosi codici. I numerosi viaggi compiuti dai monaci italogreci in Oriente, inoltre, contribuirono a confermare al porto di Messina il ritrovato ruolo, riconosciuto persino dai cronisti stranieri, di costituire uno dei più importanti scali del Mediterraneo. Anche il monachesimo latino fu dai sovrani Normanni incluso nel progetto di ricostruzione socio-economico-religiosa dell’isola e di Messina in particolare: cito solo per esempio i monasteri benedettini femminili di S. Maria de Messana e di Santa Maria de Scalis.
Delle prime opere realizzate per fortificare Messina rimangono nelle cronache accenni a non meglio definite «opere di difesa», realizzate da Roberto il Guiscardo, verosimilmente nuove torri e bastioni, e una grande fortezza. Le mura e chiese, i monasteri, le torri e i castelli che Ruggero I senza badare a spese fece costruire, furono realizzati da maestranze esperte fatte arrivare da ogni parte (undecunque conductis, dice Malaterra) che utilizzarono l’arco acuto e a tutto sesto, pilastri in cotto, angolari in pietra lavica, mattoni a prevalente forma di parallelepipedo, pietre, di taglio e formato diverso. Ugo Falcando parla di un palatium regis e di un castellum vetus, nel porto. Queste informazioni indussero in passato a credere che esistessero a Messina due palazzi reali, dei quali quello “vecchio” era il Castello a mare. Ma esiste una differenza sostanziale tra i termini palatium e castellum: il primo è un luogo fortificato e residenziale, mentre il castellum o castrum era, probabilmente, la prima fortificazione normanna di cui si abbia notizia in Sicilia, costituita nelle sue parti essenziali di terra e legno, quindi facile da erigere in poche settimane, con una altissima torre di vedetta elevata al centro del sistema fortificato, perchè il “Castello a mare” fosse visibile anche al di là dello Stretto e la sua postazione facilitasse il controllo della città e dell’area portuale.
Di fronte al porto, al posto di quello che oggi è il palazzo della Dogana, era stato invece costruito il palazzo reale, simbolo del potere feudale e militare, che ospitò Ruggero I e la sua corte durante uno degli ultimi anni della sua vita, e, dopo la morte del marito, Adelasia con i suoi figli. In una miniatura di Pietro da Eboli il palazzo reale messinese è dotato di mura merlate; in esso sono visibili re Tancredi, assiso in trono, e Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e madre di Federico II. Ibn Giobayr nel 1184 lo descriveva «bianco come una colomba, che domina la spiaggia». Come era prassi nelle altre città siciliane, il Palazzo Reale di Messina era dotato di una cappella, nella quale il sovrano esercitava il potere religioso e politico, documentato dalle fonti. La capella regia normanna mantenne la sua funzionalità anche in epoche successive: fonti aragonesi, per esempio, riferiscono che la regina Costanza, figlia di Manfredi di Svevia e moglie di Pietro d’Aragona, appena sbarcata nella città di Messina dopo i rivolgimenti del Vespro, si inginocchiò a baciare la terra e, in segno di ringraziamento, si recò a pregare nella Cappella del palazzo reale. La cappella è menzionata per l’ultima volta da Angelo De Ciocchis, il quale nella prima metà del XIX secolo ne fornì alcune preziose informazioni, come il fatto che fosse dedicata a San Giovanni Battista e dotata di tre altari.
Strettamente collegata al palazzo, sede del potere civile, era la cattedrale, sede del potere religioso, che il Gran Conte aveva dedicato a San Nicola, un santo particolarmente venerato dai Normanni, facendola costruire nel luogo dove oggi ha sede la curia arcivescovile. Nel 1087 la sede episcopale fu trasferita da Troina a Messina, perchè il Gran Conte, si legge nel diploma, aveva sempre avuto in mente di arricchire la chiesa di Messina «post acquisitionem Siciliae», una volta, cioè, che la conquista si fosse trasformata in insediamento stabile. Il che conferì alla città un’importanza sempre crescente, anche perché nel 1131 l’antipapa Anacleto elevò Messina a sede arcivescovile. Ad appena qualche decennio dal completamento della chiesa dedicata a san Nicola, Ruggero II volle far costruire extra moenia una nuova cattedrale, intitolata appunto “Santa Maria La Nuova”, consacrata il 22 settembre 1197 in presenza dell’imperatore Enrico VI. Quando fu completata la nuova cattedrale, San Nicola fu declassata a semplice chiesa parrocchiale annessa alla nuova cattedrale.
Con l’avvento del regnum di Ruggero II, la città di Messina conobbe una fase di espansione e sviluppo e, benché a partire dal 1120 la corte si fosse trasferita a Palermo, molto spesso il re Ruggero II fu presente a Messina. Anche perchè in quel periodo venne probabilmente potenziata la rete stradale preesistente, collegando in modo più agevole la capitale Palermo con la città dello Stretto, che svolgeva il duplice ruolo di collegamento con la Calabria e di sbocco commerciale (pontos e poros). La città si espanse ben oltre il nucleo costituito dal Gran Conte e molti documenti greci fanno riferimento ad un neocastron, la parte nuova della città, dove Ruggero II fece costruire un grande arsenale, una curia stratigoziale competente in materia civile e criminale, e potenziò una delle quattro zecche del regno che già tra il 1085/87 e il 1101 batteva moneta e che nel periodo svevo divenne l’unica zecca siciliana. Ruggero II progettava un vasto regno, sul modello dell’antico impero romano, e Messina sarebbe stata «la finestra aperta sul Mediterraneo centrale ed orientale». Posizione invidiabile, che facilitava lo svolgersi di mercati definiti da Ibn Gubayr «ricchi e frequentati», in cui erano «numerosi i compratori, facilissima la vendita», verosimilmente collocati nei pressi del porto, che Edrisi chiamava «gran meraviglia», perché era uno dei pochi porti dell’epoca ad avere una tale profondità fino a riva, che consentiva alle navi di attraccare direttamente sulla spiaggia, facilitando le manovre di carico e scarico di mercanzie, che partivano alla volta della Calabria, dell’Egitto, della Spagna, della Francia meridionale, dell’Inghilterra: si esportavano soprattutto frumento e legname, ma anche cotone, zucchero, lino e sete grezze locali, frutta fresca e secca. Ibn Gubayr testimonia che i dintorni di Messina parevano «tanti giardini, abbondanti di mele, castagne, nocciole, susine e altre frutte». E se con l’avvento dei Normanni la Sicilia era divenuta famosa in tutto il mondo conosciuto come la terra dove scorrevano latte e miele, possiamo verosimilmente affermare che quest’opera di ricostruzione e rilancio dell’immagine dell’isola prese l’avvio proprio dalle importanti iniziative operate nella città di Messina, che al tempo di Ruggero II conobbe un incremento demografico notevole, poichè il potenziamento del porto e l’avvio di traffici sempre più intensi vi aveva fatto gradatamente confluire numerosi mercanti stranieri, soprattutto liguri, toscani e campani, a cui si aggiunsero nel tempo veneziani, ebrei, francesi, tedeschi, musulmani, spagnoli, inglesi, insieme a piccoli mercanti ed artigiani di altre città siciliane, che dal porto di Messina traevano cospicui introiti. Edrisi ne aveva registrato e lodato la vivacità economica: « Qui l’arsenale; qui (un continuo) ancorare, scaricare e salpare di legni provenienti da tutti i paesi marittimi dei Rum […]; qui raccolgonsi le grandi navi: i viaggiatori e i mercanti ». Tali peculiari caratteristiche di Messina la resero tuttavia facilmente oggetto di sospetti e critiche. Ugo Falcando, per esempio, la disprezzava perché il suo cosmopolitismo e il fervore dei suoi traffici la rendevano inevitabilmente ricettacolo di predoni, pirati e ladri, che trascorrevano la notte giocando ai dadi ed erano propensi ad ogni genere di delitti.
La Messina dell’ultima età normanna è delineata anche da due documenti greci del 1172, che la definiscono “megalopoli” e dalla nota descrizione di Ibn Gubayr: «Questa città è l’emporio dei mercanti infedeli; la meta delle navi d’ogni regione: zeppa ella è di adoratori delle croci, sì che vi s’affoga; nè la città può abbracciare tutta la popolazione. Piena di sudiciume e di fetore; così inospitale, che lo straniero non vi troverebbe un amico. Pure ha copia di quanto mai si possa desiderare per gli agi della vita». Una città, quindi, quella descritta dal viaggiatore arabo, vivacemente popolata, dinamica e vitale, nella quale circolava denaro che non era difficile accumulare, anche per i provvedimenti di Guglielmo I che autorizzavano la libera importazione ed esportazione delle merci, a tutto vantaggio della classe mercantile.
Negli anni di governo di Guglielmo II, quando la città fu sede operativa delle grandi spedizioni contro Bisanzio e verso la Terrasanta, fu edificata a Messina la chiesa dell’Annunziata di Castellammare, detta poi “dei Catalani”, nel quartiere detto “Arzanà”, cioè “La darsena”. Il nome attuale della chiesa proviene, come è noto, dai molti mercanti e ufficiali catalani che si erano stabiliti a Messina già nel periodo del Vespro. La chiesa dei Catalani rimane, nonostante i restauri che ne hanno alterato i tratti fino a dimezzarli, una delle pochissime testimonianze della trama urbana della Messina normanna, distrutta dagli sconvolgimenti che nei secoli colpirono la città dello Stretto: il terremoto del 1169 e il disastroso maremoto che travalicò i muri della città ed invase il porto; l’incendio di immani proporzioni di qualche anno più tardi, la distruzione della città ad opera di Riccardo Cuor di Leone alla fine del XII secolo. Queste ed altre sciagure, tra le quali non può essere dimenticato il terremoto del 1908, giustificano la quasi assenza di reperti archeologici relativi all’impianto della città nei secoli XI-XII, eccetto i resti della chiesa di san Giacomo Apostolo, a ridosso della cripta della cattedrale, e ad alcuni resti di pavimentazione databile al 1082, che sono visibili nella zona dell’attuale municipio. Pochissimi sono anche i lacerti della cultura e dell’artigianato dei secoli XI-XII, tutti di altissimo pregio e raffinata fattura, come la lastra tombale dell’arcivescovo Richard Palmer in marmo di Paro, oggi murata nel transetto del duomo, proveniente con ogni probabilità dalla prima cattedrale dedicata a san Nicola, in quanto Palmer morì a Messina il 7 agosto 1195, prima che fosse ultimata la nuova cattedrale.
Al Museo Regionale di Messina si conservano altri reperti di epoca normanna provenienti dalla chiesa dell’Annunziata di Castellammare e dal monastero del SS. Salvatore in lingua Phari, tra i quali alcuni capitelli con motivi di tralci e fiori, la cosiddetta “conca di Gandolfo”, e il sarcofago di Luca: pochissimi oggetti a testimoniare l’epoca particolarmente prospera di una città che oggi, a distanza di più di un secolo dall’ultimo terremoto che la rase al suolo, annaspa ancora tra le pieghe del suo passato, alla ricerca di radici storiche, motivazioni ed energie che la facciano tornare a vivere.
Shara Pirrotti