San Filippo di Demenna e il viaggio di ‘al-Idrisi, sviste e incongruenze nelle percorrenze del “Libro di Ruggero”
di Michele Manfredi-Gigliotti
Nell’anno 2006 vedeva la luce, per i tipi delle Arti Grafiche Zuccarello, il mio saggio intitolato “Demenna nella letteratura arabo-sicula”, che proponeva, a quanto pare per la prima volta, una lettura più aderente al testo di quel passo, che ha attinenza con il monastero di San Filippo di Demenna o Fragalà, contenuto ne ‘Al kitab nuzhat ‘al mustaq fi ihtiraq ‘al ‘afaq (Il libro del sollazzo per chi si diletta di girare il mondo), comunemente più conosciuto con il titolo, postumo e, anche, arbitrario, di ‘Al kitab ‘al-Rudijari (Il libro di [re] Ruggero), scritto dal medico-geografo arabo ‘Al-Sharif ‘al-Idrisi.
La denominazione “San Filippo di Demenna” comprende tutto il complesso abbaziale, prima basiliano e poi benedettino, che è posto ai giorni nostri nell’ambito della giurisdizione amministrativa del comune di Frazzanò (ME) e a cui si accede tramite un diverticolo posto immediatamente a latere dei margini di ponente della Strada Provinciale n. 157, Frazzanò-Longi-Galati Mamertino.
Il monastero si raggiunge, infatti, percorrendo il brevissimo tratto di strada che dalla S.P. passa dinanzi l’entrata principale del monastero e conduce, poi, alla Portella di Tenda.
Il complesso religioso è comunemente retrodatato al 1072-1082. Fu concepito e realizzato, così come ai giorni nostri è ancora possibile ammirare, per volere di Ruggero d’Altavilla, Gran Conte di Sicilia e di Calabria.
Si vuole che l’Abbazia sia stata completata, sfruttandone l’anima o genius loci, sul sito ove un tempo sorgeva un vetusto oratorio, che secondo la tradizione era stato edificato, attorno al 495, dal santo taumaturgo, destinatario della venerazione sia da parte della Chiesa cristiano-cattolica, che di quella ortodossa, Calogero di Calcedonia, dal quale era stato adibito alla funzione di luogo domiciliare della sua vita anacoretica. Con la costruzione del monastero la vita dei religiosi divenne cenobitica.
La storia dell’abbazia è, obiettivamente, piuttosto frammentaria, mutila e parziale, ricostruita, in prevalenza, su alcuni documenti e atti, sia di natura pubblica, che privata, che, infine, di natura testamentaria, che si riferiscono alla vita di questo edificio di culto e anche a quella del suo elemento monastico umano.
Alla ricerca della risoluzione e riempimento, tramite l’inserimento di dati storici, delle incontestabili ed evidenti lacune nella ricostruzione organica della storia del monastero, è impegnata, da svariati decenni, SHARA PIRROTTI, della quale non si può fare a meno di rammentare l’opera professionale di ricerca e studio riguardante il sito [ex multis, mi piace fare riferimento al saggio fondamentale ed esaustivo della Pirrotti qual è, certamente: “Il Monastero di San Filippo di Fragalà (Secoli XI – XV), Organizzazione dello spazio, attività produttive, rapporti con il potere, cultura”, Officina di Studi Medievali, Palermo 2008].
Il passo dell’opera di ‘al-Idrisi, rivisitato in quel mio breve saggio sopra richiamato, riguarda, per un verso, uno degli elementi attinenti ai dati topometrici riportati dall’Autore e, precisamente, quello che indica la distanza tra Galat (Galati Mamertino) e la Kanisat Sant Marku (letteralmente, la Chiesa di San Marco [d’Alunzio]) e, per altro verso, la definizione del complesso religioso come, per l’appunto, la Chiesa di San Marco.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ‘al-Idrisi indica la distanza intercorrente tra Galati Mamertino e quella che egli definisce la Chiesa di San Marco, in sette miglia, partendo dal centro urbano nebrodense e proseguendo tra ponente e tramontata.
Così come definita, la “Chiesa di San Marco”, pur se letteralmente indicata, necessita, con ogni evidenza, di una “inspectio in loco” (il compianto prof. Francesco Longhitano Ferraù era solito affermarmi che “la storia si scrive con i piedi”), ai fini della sua individuazione, come ritengo di avere fatto in seno alla citata “Demenna nella letteratura arabo-sicula”, sia procedendo per esclusione, sia in base alla riportata distanza da Galati Mamertino.
Al fine di tradurre il dato topometrico, che nel testo di ‘al Idrisi è espresso in miglia, nel sistema di misurazione chilometrico corrente in Italia ai giorni nostri, precisavo che le miglia alle quali fa riferimento l’autore arabo erano, con ogni evidenza, miglia arabiche.
Il miglio arabico ha il valore all’incirca di 1980 metri, ovverosia 500 metri in più rispetto sia al miglio romano (m. 1481), sia al miglio siciliano, che, dopo molteplici oscillazioni, nel 1809, venne definitivamente unificato in 1487 metri.
Occorre precisare che risponde a verità che, qualche rara volta, l’autore arabo ha espresso le distanze topometriche in miglia franche (leghe) che sono estese il triplo delle prime e, quindi, valgono ben 5940 metri. (Per le unità di misura che precedono mi sono riferito agli studi ad hoc di CARLO ALFONSO NALLINO e CALOGERO ANDOLINA, entrambi riportati da LUIGI SANTAGATI nel suo pregevole Viabilità e topografia della Sicilia Antica, vol. I, La Sicilia del 1720, Regione Siciliana Assessorato dei BB.CC.AA. e della P.I., Caltanissetta 2006).
Nel caso all’esame, ho escluso che ‘al-Idrisi abbia potuto riferirsi alle miglia franche e ciò per una motivazione logica che appare di tutta evidenza.
Se, infatti, si fosse trattato di miglia franche, la Kanisat Sant Marku si sarebbe dovuta ritrovare in un sito posto alla distanza di Km 41,580 iniziando la misurazione da Galati Mamertino (metri 5940×7=metri 41.580).
Basandomi su tale ultimo valore e, dopo avere praticato su una carta topografica tenendo conto della scala metrica, un cerchio con epicentro Galati Mamertino, ho percorso tutta la zona entrocircolare dell’area così determinata, per una distanza di circa metri 42.000 giungendo in contrade talmente lontane dal centro di Galati da escludere che ‘al idrisi abbia potuto adottare un sistema metrico diverso da quello arabo sia entro tutta l’area circonferenziale, sia entro quella dello spettro settoriale, meno estesa, collocata, rispetto al centro di Galati Mamertino, verso ponente e tramontana secondo la richiamata affermazione di ‘al-Idrisi.
Altrettanto dicasi con attinenza agli altri due sistemi metrici riferiti al miglio romano e a quello siciliano, pressappoco identici per valore.
Per il miglio romano, dirigendo la ricerca direttamente tra ponente e tramontana, avremmo uno spettro profondo metri 10.367 (1.481×7) che non evidenzia, nel suo ambito, alcuna Chiesa di una certa importanza e di una certa rilevanza storica e architettonica, non inglobata in una realtà urbana.
Esattamente lo stesso ragionamento si deve fare per il miglio siciliano, per il quale la ricerca, dirigendola come sopra direttamente tra ponente e tramontana, ci induce a considerare uno spettro profondo metri 10.409 (1.487×7), misura, anche questa, che non evidenzia alcun risultato utile e coincidente con l’indicazione di ‘al-Idrisi.
Intanto, occorre precisare che la Chiesa alla quale fa riferimento l’autore non può essere una Chiesa qualsiasi e, inoltre, urbanizzata (intra moenia), in quanto se così fosse stato, la sua inglobalizzazione nel tessuto urbano le avrebbe automaticamente tolto il ruolo di pietra miliare della distanza che sarebbe stato assunto direttamente dal centro urbano, ma deve, al contrario, avere grande importanza e notorietà ed essere situata extra moenia, al punto da potere essere riportata nella nomenclatura dei siti topometrici di riferimento elencati per l’Isola (nel caso specifico, la Kanisat Sant Marku viene da ‘al-Idrisi inserita dopo Galat ma, stranamente, non precede come avrebbe dovuto, il successivo toponimo).
Abbiamo, così, esaminato il primo degli aspetti dell’inciso escerpto dal Libro di re Ruggero, riguardante le distanze interoggettive.
Occorre esaminare a questo punto, il secondo degli aspetti che l’inciso medesimo pone alla nostra attenzione: l’Autore definisce il complesso monastico come la Chiesa di San Marco.
Non sembra che possano sussistere dubbi sul fatto che ‘al Idrisi abbia voluto esprimere uno stato giuridico basantesi su uno jus proprietatis da parte di quella città alla quale, poco tempo prima, era stata attribuita, da parte degli Altavilla di Normandia, la denominazione di San Marco (in onore di San Marco Argentano del Bruzio, che era stato la prima conquista normanna nell’Italia meridionale) sostituendo, così, il vecchio nome greco, prima (Alontion) e romano, in seguito (Haluntium).
Per affermare che il territorio di Fragalà, su cui sorgeva il monastero di San Filippo, appartenesse giuridicamente a San Marco, non possiamo indicare fonti storiche certe e precise. Anche l’Autore arabo non indica la fonte della informazione da lui riportata. Il giudizio deve, quindi, basarsi su una serie di indizi che appaiono, per la verità, tutti mirati a supportare tale tesi. D’altra parte, e specularmente, non esistono neppure prove documentarie, altrettanto certe, chiare e precise, che il monastero appartenesse ad altra comunità politica o che fosse autonomo.
Oltre all’affermazione di ‘al-Idrisi contenuta nel passo che abbiamo enucleato dalla sua opera fondamentale, è possibile rinvenire qualche altro indizio in “ANTONINO MELI, “Istoria antica e moderna della città di San Marco, Ms. (sec. XVIII) della Biblioteca dell’Assemblea Regionale Siciliana”, a cura di Oscar Bruno, Società messinese di Storia Patria, Messina 1984”. Riporto quanto scrive il Meli a pag. 17:
“Attorno al 1090 Ruggero I aveva costruito nel territorio di S. Marco l’abbazia di San Filippo di Demenna, poi di Fragalà, che risaliva ad età bizantina, ed aveva avuto vita grama sotto la dominazione musulmana (CUSA; SCADUTO; BORSARI). Essa (abazia) ebbe a godere di protezione, immunità e ricche donazioni di chiese, case terre e servi da parte dei sovrani normanni e svevi, nonché da parte di privati (CUSA); e fu parte attiva nella vita economica del paese sino in età aragonese (CUSA).
Ma la città, coinvolta nelle lotte tra corona, feudalità ecclesiastica e potere laico, e poi tra impero e papato e tra svevi e angioini, era destinata a un lento declino. Già nel 1087 era stata concessa da Ruggero I assieme ad altre terre e castelli al vescovo di Troina; e la successione veniva successivamente riconfermata all’arcivescovo di Messina, erede del presule di Troina, dai papi nei momenti cruciali di crisi della monarchia o di più aspra lotta con l’impero: nel 1151 da Eugenio III, nel 1166 da Alessandro III, nel 1198 da Innocenzo III, nel 1216 da Onorio III, nel 1236 da Gregorio IX (AMICO).”
Ora, appare storicamente provato che gli Altavilla (in modo particolare Ruggero il Granconte [che il Meli chiama Ruggero I], a cui, secondo la notizia tràdita dallo stesso Meli, si deve la costruzione dell’abbazia nel “TERRITORIO” di San Marco) e, ancora più, suo figlio Ruggero II (il Gran Re, che ebbe un amore sviscerato per San Marco [oltre che per Troina (in Sicilia) e per Mileto (in Calabria)] a far tempo da quando, ancora infante, ebbe a soggiornare frequentemente nella città di San Marco in compagnia della madre, Adelasia del Vasto e del fratello, Simone).
Nessuna meraviglia, quindi, che il Granconte volesse rendere omaggio al paese di San Marco tramite la realizzazione, nell’ambito della sua circoscrizione amministrativa, di un monastero dalla bellezza architettonica, che tuttora persiste (se si omette dal considerare alcuni lavori manutentivi e di recupero effettuati di recente tramite malte cementizie che, probabilmente, avranno consolidato la struttura, ma che l’hanno, certamente deturpata) di San Filippo di Demenna.
La buona disposizione degli Altavilla nei riguardi del monastero e, quindi di riflesso, nei confronti di San Marco, si ricava dai privilegi che essi concessero al complesso monastico.
Infatti, nell’anno 1090, mese di giugno (non è riportato il giorno), indizione XIII, Ruggero d’Altavilla, Granconte di Sicilia e Calabria, concede all’Abate Gregorio di San Filippo di Demina in Melitiro, la completa esenzione dal pagamento di qualsiasi tributo e balzello, sia nei confronti delle autorità religiose, che di quelle secolari per tutti i beni di proprietà del Monastero, secondo la formula che segue: “…esseri ipsu Monasteriu non tuccatu di Piscopi, non di Archiepiscopi, tantu di li presenti quantu di li futuri di quista Ysula, dicca hora pri li mey successuri, di quilli hi signurianu et signuriyranu subta la mia potestati, et poy di la mia trapassationi ali mey figli, et ali signuri hi divinu serviri ad ipsi; di non haviri potestati di conturbari lu Sanctu Monasteru di Deu, omni cosa hi è signuriata da ipsu, homini, fegi, vigni, boschi, glanda, cursi di aqua, li cosi mobili et stabili; tutti quisti digianu stari senza turbationi et non tuccati fini alu ysfachimentu di lu mundu et hi nixuni haia audacia di signuriari di quisti cosi, exceptu tu Abbati Grigoli, et quilli hi divinu esseri poy di ti alu Santcu Monasteriu”.
Segue l’intentio del Gran Conte che dichiara “…et pitati pri mi taupinu peccaturi di conchediri ammì lu Signuri Deu remissioni et liberazioni di li mey duluri multi peccati…”
Sempre riferito al medesimo anno 1090, indizione XI (manca giorno mese e locus editionis), abbiamo un altro documento che sembra la medesima versione del documento che precede, anche se porta una diversa indizione. Lo abbiamo, tuttavia, riportato per secondo, perché sembra piuttosto incompleto come se fosse una stesura provvisoria di quello che poi sarebbe stato stilato nell’indizione successiva.
Qui si dice che il Granconte Ruggero concede alla Chiesa di San Filippo di Demina l’esenzione da tutti i dazi e le angarie, nonché assoluta libertà per i monaci del Monastero: “…concedo esse liberam ab omni angaria et gabella Ecclesiam Sancti Philippi de Valli Demina, et monachos qui ibi servient. Insuper ab omni servitute Dominorum terre nostrum; et quicumque libertatem eam eiecerit, sit excomunicatus a Deo Omnipotenti Patre, Filio et Spiritu Sancto, et ab omnibus Sanctis…”.
Nell’anno 1105, il giorno 12 del mese di dicembre, indizione III, è sempre il Granconte Ruggero che rivolge le sue affettuose attenzioni al monastero di San Filippo, concedendo a Gregorio, Abate di San Filippo di Melitiro, come grancia del medesimo Monastero, la terra di San Nicola della Scala in Paleo Castro e Santo Ippolito, con tutti i territori dei quali vengono fissati i confini. Riportiamo, di seguito, il brano che interessa e che così si esprime: “…Adunca tu misseri lu Abbati Grigoli di Sanctu Philippu di Demina, cherchi per Grancia Sanctu Nicola di la Scala in Paleu Castru di lu antiqu Castru… quistu contrattu confermu atì, quista esseri Grancia di Sanctu Philippu di Demina, et similimenti Sanctu Yppolitu, et li territori pri vita di ipsu Monasteriu. Esti lu spartimentu di li dicti territorii quistu. Comu va di Sanctu Yppolitu, isa ultra la parti di lu valluni, et va pri menzu lu serru illa banda destra fina supra Sanctu Zaccaria, et duna ad Armu et ad Argunia, hi tali si dichi subra Bronti, veni et duna ad aria et ala fontana, la quali esti subta Armu, subta Sanctu Nicola, subta di lu boscu et di li dirrupi li quali suni in li parti di illa fini a la scala, et di illa menzu li petri, et diaria,et duna a lu strittu et in chima di lu boscu, et di illa lu serru, et munta fini a la funtana, la quali esti in menzu di li dui boschi infra lu Ponenti, et concludi li cosi hi su intra Paleu Castru fini ala contura di sturianu, secundi xindinu li aquii, et munta ultra la parti di lu valluni lu serru, fini ali tri petri blanchi, fini susu lu boscu, di lu quali esti supra Sanctu Yppolitu, et xindi lu serru, lu quali esti suora la via, fini di li tri vii di Mueli, et xindi la via di Galati fina Umbru, et di illa dirittu yusu, et confina, fina a Sanctu Yppolitu, et concludi”.
Nell’anno 1117, nel giorno 7 del mese di maggio, indizione V, Ruggero II, “conte di Calabria et di Sichilia et aytu di tutti li cristiani”, conferma le concessioni contenute nel privilegio del 12 dicembre 1105 di suo padre Ruggero, il Granconte. Dice: “Omni cosa suprascripta di lu meu bravu Patri, in quistu santu Monasteriu dugnu, et confirmu omni cosa fini in lu fini di lu mundu, di haviri et signuriari lu Santu Monasteru, secundu esti declaratu du supra a gloria di tutti quanti fidili. Havimu fattu quistu presenti decretu ali VII di mayu ali chinqui inditioni, ali sey milia et sey chentu et XXV anni et havimu fattu la primisa cruchi Rogeri Valentissimu Cavaleri di Calabria et di Sichilia, Vindicaturi di li cristiani, Servu di Ihesu Christu”.
E’ plausibile, quindi, che l’affermazione di ‘al-Idrisi, relativamente all’appartenenza dominicale del complesso monastico di San Filippo alla città di San Marco, abbia quella fondatezza storica che il geografo arabo ritiene di doverle attribuire nella sua opera, riportando la notizia in modo deciso e senza tentennamenti.
A questo punto, appare assolutamente necessario fare alcune considerazioni, di natura topografica, che potrebbero risultare utili a supportare l’appartenenza della Chiesa di Fragalà.
Ai giorni nostri, il monastero si trova situato vicinissimo ai centri abitati di Longi (Longum castrum) allocato verso sud-est, sotto le montagne delle Rocche di Crasto e della Serra del Lupo (centro montano, quindi, che conta circa 1.444 anime) e di Frazzanò (Frazanum, derivato da una primitiva forma latina, Flaccianum, con sottinteso il termine praedium: ovverosia il podere, la campagna di Flacco) verso nord-est (che conta all’incirca 781 abitanti). Scendendo dalle montagne verso il mare Tirreno si incontra, non molto lontano, il centro abitato di Mirto (dal fitonimico: Myrthus o Myrtus, popolato da 998 abitanti circa) e, vicinissimo a quest’ultimo, il centro abitato di Caprileone (Crapisusu), mentre, allocata nella marina tirrenica, è situata Rocca di Caprileone (Crapijusu), entrambi i centri risultano annotati nell’antichità come Duae Crapiae (il comune di Caprileone annovera 4.568 abitanti, dei quali 4.300 abitano nella frazione amministrativa di Rocca di Caprileone, alias Zappulla).
Al tempo della edificazione del monastero e per tutta la prima età della sua floridezza coincidente con l’ascesa e il mantenimento del potere da parte dei due Ruggero d’Altavilla, il monastero era quasi isolato e, proprio per questa caratteristica dei luoghi, esso aveva svolto, in origine, la sua naturale vocazione di luogo religioso eremitico.
Frazzanò rappresentava un piccolo insediamento di natura agricola, con qualche minuto insediamento padronale, essendo stato, in origine, una tenuta della famiglia Flacco non meglio identificata storicamente; altrettanto dicasi per Longi; Mirto era, con ogni probabilità, un possedimento agricolo come denuncia la semantica della sua denominazione; Caprileone manifestava una sua propria vocazione per gli animali da latte di piccola taglia di dominio della famiglia Leone; Rocca di Caprileone, neanche esisteva come aggregazione urbanistica degna di questo nome, trattandosi, solo e semplicemente, di una Terra.
Solo verso est, restando sui cacumina montis, era posto, in posizione frontista, l’odierno Galati Mamertino che ‘al-Idrisi indica come Galat.
Il monastero, dunque, aveva come punti topografici di riferimento di un certo rilievo e più prossimi, Galat e Sant Marku: il primo, posto in posizione panoramica, era speculare rispetto al monastero e, quindi, visibile; il secondo, era allocato, verso ponente e tramontana, per usare una allocuzione cara ad ‘al-Idrisi, sui primi contrafforti dei Nebrodi.
Tra questi due ultimi centri abitati, un ruolo protagonistico venne svolto da San Marco per una serie di considerazioni storiche, culturali, strategiche, economiche, religiose con le quali il centro di Galati Mamertino non poteva competere, non avendone i numeri. Ciò è tanto vero che ormai è dato storico pacificamente acquisito che, sia Ruggero il Granconte, che suo figlio Ruggero II (per non dire del loro parente Roberto il Guiscardo o di Adelaide del Vasto), rispettivamente loro moglie e madre, adottarono politiche ed atteggiamenti personali, tramite i quali non fecero altro che privilegiare in tutti i modi possibili la vita civile, economica e politica di San Marco, non trascurando, certamente, quella religiosa. Sotto quest’ultimo angolo visuale, infatti, basti pensare che entro le mura aluntine risultano allocate all’incirca una trentina di edifici religiosi .
Così, ove si dovesse ipotizzare un eventuale dovere di scelta aggregativa del monastero, ammesso che siano stati gli Altavilla ad intervenire per l’attribuzione dello jus proprietatis, non potrebbero esistere dubbi che il prescelto sarebbe stato, certamente, il centro aluntino. Se, poi, il monastero apparteneva a San Marco, a far tempo dai suoi primordi quando altro non era se non una località frequentata da eremiti, in tal caso gli Altavilla non fecero altro che consolidare il rapporto tra San Marco e San Filippo di Demenna.
E’ pacifico tra gli studiosi che i centri urbani sopra nominati, fossero all’epoca storica di riferimento, collegati tra di loro, attraverso la c.d. via per le montagne.
I centri urbani situati in marina erano tra loro collegati tramite una viabilità principale, più importante della prima (c.d. via per le marine), riferibile al tempo della dominazione romana in Sicilia, comunemente intesa come Valeria-Pompeia (la quale si dipartiva dallo Stretto di Messina [Fretum] e raggiungeva, nel sud-ovest della Sicilia, il centro di Marsala [Lilybaeum]).
Quest’ultima viabilità (Cfr. i miei due saggi: Passi perduti, alla ricerca dell’ antica viabilità nei Nebrodi: la via Valeria-Pompeia, Yorick Editore, 1990 e Altri passi perduti, alla ricerca della viabilità antica nella zona dei Nebrodi, Sicilia settentrionale, Edizioni Simple, 2015), nel corso dei secoli, è stata rifatta, rigenerata, ammodernata, riparata e, ove occorreva per incentivare i flussi commerciali locali, anche diverticolata, non essendo stata mai del tutto abbandonata, ma, al contrario, essendo rimasta adibita alla viabilità sino a tempi relativamente recenti, laddove e quando la vetustà, l’incuria delle istituzioni che avrebbero dovuta custodirla, gli eventi sismici, gli smottamenti e gli eventi bellici, lo hanno permesso.
Nel mio Demenna nella letteratura arabo-sicula (citato) ho riportato un passo tratto da SHARA PIRROTTI (Un itinerario normanno nel Valdemone, in Nuove Ricerche sul Valdemone Medievale, Edizioni del Rotary Club Sant’Agata di Militello, 2005), la quale attesta che nei pressi di Galati Mamertino era presente un trivio detto “del Mueli” (oggi la denominazione onomastica persiste nel toponimo Pizzo Mueli), da cui si dipartiva la strada per San Marco d’Alunzio, San Fratello, Caronia (si confronti, pure, CUSA, I diplomi greci ed arabi di Sicilia e SPATA, Le pergamene greche, i quali riportano un documento retrocalendato al 1094 in cui sono citate due arterie viarie pertinenti ai luoghi di cui ci stiamo occupando: odos tou galatou (strada di Galati) e triodou mouhlh (trivio di Mueli)).
Precisato quanto sopra e, cioè, che il monastero di San Filippo di Demenna, si collegava agevolmente con il centro di San Marco d’Alunzio, resta, per concludere, di tentare di risolvere un enigma riguardo una evidente lacuna in cui è inciampato Abu abd ‘Allah Muhammad ‘ibn Muhammad ‘ibn ‘abd ‘Allah ‘ibn ‘Idris (alias, semplicemente, ‘al-Idrisi) discendente dal Profeta, come attesta la sua chilometrica denominazione anagrafica.
Occorre precisare che i dati riportati da ‘al-Idrisi sono stati da me riscontrati, durante la stesura del saggio su Demenna nella letteratura arabo-sicula, come assolutamente esatti: cosa della quale ho dato atto nel corpo di ciò che ho scritto. E’ stato, per questo, motivo di notevole perplessità, il momento in cui mi sono accorto che dall’elenco dei vari toponimi, riportati nella zona da me presa in considerazione, con la relativa e reciproca distanza chilometrica, l’Autore aveva omesso di dichiarare la distanza intercorrente tra la Kanisat Sant Marku e Sant Marku. La sequenza letteraria topometrica per la zona oggetto dell’indagine, infatti, è la seguente:
-Da Randazzo a Munt ‘Alban : venti miglia;
-Da Munt’Alban a Mangabah (per questo secondo toponimo, condivido il ragionamento di LUIGI SANTAGATI [La Sicilia di ‘al-Idrisi ne Il libro di Ruggero, Salvatore Sciascia Editore, 2010] il quale, per esclusione, perviene all’individuazione di Mangabah, identificandolo con il centro di Floresta): manca il dato numerico;
-Da Mangabah a Galat, dieci miglia;
-Da Galat alla Kanisat Sant Marku, sette miglia;
-Da Sant Marku a Filad.nt (San Fratello), cinque miglia;
-Da Filad.nt a Caronia, quattordici miglia.
Come emerge dalla sequenza sopra riportata, ‘al-Idrisi, ad un certo punto dell’elencazione topografico-miliare, procede per saltus, omettendo di dichiarare la distanza che intercorre tra il monastero di San Filippo di Demenna e il centro urbano di San Marco.
L’impressione immediata che dalla lettura del luogo letterario esaminato si ricava è quella secondo cui l’Autore, avendo enunciato che quella è la Chiesa di San Marco e avendone riferito la distanza da Galati Mamertino, l’abbia ritenuta inglobata entro la cerchia urbana di San Marco, per cui, se tale sua opinione fosse stata esatta, la distanza tra Galat e la Kanisat Sant Marku sarebbe coincisa, naturalmente, con quella tra Galat e Sant Marku.
Tale ragionamento, da noi presupposto, però, non risponde al vero, come sappiamo, per cui si è autorizzati a ritenere che ‘al-Idrisi sconoscesse che il sito religioso era ubicato ad una certa distanza dal centro abitato aluntino e non entro le sue mura. Per questa stessa ragione avrebbe dovuto riportare la distanza tra la Kanisat e Sant Marku.
E’ appena il caso di sottolineare come, mentre per Munt’Alban e Mangabah, ‘al-Idrisi cita entrambe le due stazioni omettendo di indicare la distanza che le separava (probabilmente perché o ‘al-Idrisi era in attesa di una verifica o, cosa molto più probabile, il dato si é abraso per cause che non ci sono note, oppure, come estrema ratio, ne è stata omessa semplicemente la stampa), per quanto riguarda la Kanisat e Sant Marku, l’Autore non li mette neppure in correlazione, oltre, evidentemente, a non riportarne la distanza.
Questa circostanza potrebbe, in verità, autorizzarci a ritenere fondata l’ipotesi secondo cui ‘al-Idrisi ritenesse coincidenti il locus della Kanisat e quello di Sant Marku.
L’intera contrada in cui si trova ubicata la Kanisat era “servita”, verso ponente e tramontana, da una importante viabilità. Tale rete stradale si trova riportata da SHARA PIRROTTI nel suo “Un itinerario normanno… ecc. ecc.”, sopra citato per esteso) nel modo seguente:
“Le attività commerciali (nella zona, N.d.A.) erano d’altronde favorite dalla più volte menzionata «via regia» denominata anche «grande via» (megalou dromou o megalh odos) che passava da San Marco, Frazzanò, Alcara e Maniace e che in prossimità del metochio di San Pietro si incrociava con altre strade minori” .
Lo studio della PIRROTTI aggiunge che nel territorio erano presenti altre strade minori per i collegamenti e gli scambi. In particolare, l’Autrice fa riferimento ad una «serra» (trakla), “cioè una strada ripida che seguiva il crinale dei colli”.
I rapporti tra la Kanisat e Sant Marku dovevano essere di una certa intensità, in quanto cementati dalla floridezza del centro aluntino, soprattutto, con particolare riferimento agli ottimi prodotti agricoli e manifatturieri (si rammenta, in modo specifico, la pregiata produzione serica).
Dell’esistenza di tale fitta rete viaria, che era posta al servizio dell’intera contrada, ho trovato ulteriore testimonianza in “Regie trazzere, i sentieri di un tempo, Itinerari-Storia-Cultura-Arte-Tradizioni e Gastronomia”, AA. VV., “Graphic World s.n.c.”, Grafica 2000, Rocca di Caprileone (ME), in cui si dice:
“La seconda trazzera è stata riconosciuta con il n. 559 in data 20 gennaio1951 dall’Ufficio Tecnico Speciale per le Trazzere in Sicilia. Essa misurava circa chilometri dodici (sei miglia arabiche, circa–N. d. A.) e si dipartiva dal centro urbano di Longi e attraversava le seguenti località: San Pietro, Romeo, Serravina, entrava nel territorio di San Marco ed infine giungeva a Torrenova, incrociandosi con la regia trazzera del litorale.
La terza trazzera è stata riconosciuta con il numero 557 in data 16 gennaio 1951 dall’ U. T. S. per le Regie Trazzere di Sicilia. Aveva una lunghezza di trentasei chilometri (diciotto miglia arabiche, circa–N. d. A.) e metteva in collegamento Cesarò con Zappulla (Crapijusu, N. d. A.), passando fra le altre località (qui riporto solo quelle che interessano) San Marco, Longi, Frazzanò, Caprileone (Crapisusu, N. d. A.) ”.
Dopo avere acquisito i dati sopra riportati, seguendo soltanto un impulso intuitivo, ho tentato, tramite una inspectio territoriale, di verificare l’attuale presenza di qualche traccia di una viabilità che mettesse in correlazione, in modo diretto ed immediato, il monastero di Demenna e il centro abitato di San Marco, essendo, certamente, impensabile che due località, dichiaratamente (secondo l’affermazione dell’Autore arabo) in rapporto di appartenenza dominicale, non fossero comodamente servite da una viabilità facilmente utilizzabile. San Filippo, infatti, non solo viene definito dall’Autore arabo come la Kanisat Sant Marku, quanto esso, proprio nell’ambito della giurisdizione amministrativo-territoriale di San Marco, era titolare di vastissimi possedimenti terrieri che amministrava direttamente.
Portatomi, quindi, per l’ennesima volta a San Filippo, ho potuto constatare che, a pochi metri dalla facciata principale del monastero di San Filippo, si diparte una stradella rurale che si inerpica verso il cacumen montis. Data la esiguità in larghezza della sede stradale, ho intrapreso il viaggio con la massima cautela e dopo pochissimi chilometri mi sono trovato al culmine orografico, sul quale non ho potuto fare a meno di arrestare la marcia per potere ammirare meglio il paesaggio sottostante.
Ero giunto, in sostanza, proprio sullo spartiacque tra la valle del Fitalia ad est e, ad ovest, quella del Platanà prima e del Rosmarino poco più oltre.
Verso oriente, infatti, lo sguardo abbracciava, immediatamente sotto il cacumen ove mi trovavo, la valle del Fitalia con i paesi che le fanno corona, prima tra tutti, perché più vicino, Galati Mamertino; verso occidente (o, come direbbe ‘al-Idrisi, verso ponente e tramontana) ho visto San Marco d’Alunzio che, per l’improvvisa apparizione, mi ha dato l’impressione che potessi raggiungerlo a tatto, allungando semplicemente un braccio.
Ho, quindi, percorso la stradella in discesa giungendo in una località in cui è allocata una chiesetta, che offre alla vista una fabbrica dalle linee elementari e, inoltre, ben conservata, che si erge verso il cielo, quasi con umiltà, tramite una architettura semplice e lineare, dalle proporzioni geometriche precise e accattivanti. L’unico preziosismo architettonico era costituito dalla cuspide, comprensiva e a contenimento dell’abside, di tipo orientaleggiante sul modello, per intenderci, di quell’edificio, sacro a tutte e tre le religioni monoteiste, denominato ‘al-Masjid ‘al-Aqsa (l’Ultima Moschea) o Kubbat ‘al-Sakhra (Cupola della Roccia), posta sull’ Haram ‘al-Sharif (la Spianata dei Templi), a Gerusalemme.
Una tabella indicava, essere quella la Chiesa di Maria Santissima della Catena.
Riprendendo il viaggio, immediatamente dopo, appena lasciato sulla sinistra della stradella e, quindi, verso sud-ovest, un altro edificio religioso, da me più volte visitato, la Badia Ranni, (Badia Grande con annessa la Chiesa del SS. Salvatore), così chiamata per distinguerla dalla Badia Nica (Badia Piccola, incastonata nel centro storico del paese, a cui è annessa la Chiesa di San Teodoro), sono giunto nello slargo costituito dalla piazza Gebbia di San Marco d’Alunzio, posta proprio ai piedi dell’antico castello aluntino, del quale sono visibili pochissimi ruderi che, tuttavia, trasmettono compiutamente l’idea delle sue magnificenza e imponenza di un tempo.
Quando sono giunto a piazza Gebbia, l’apparecchio contachilometri, attivato al momento della partenza dall’entrata principale del monastero di San Filippo di Demenna, segnava la percorrenza complessiva in otto chilometri.
Se ‘al-Idrisi avesse riportato il dato numerico, usando il suo sistema di misurazione, avrebbe, dunque, detto certamente:
-Da Kanisat San Marku a Sant Marku, quattro miglia.
In sostanza, pur non essendo l’abitato di San Marco visibile (per via dell’ostacolo orografico) dal monastero di San Filippo, quest’ultimo si trova molto più vicino al luogo di appartenenza dominicale che non a quello di Galati Mamertino.
L’intervallo tra i due siti è davvero esiguo in riferimento ai tempi di percorrenza. Se si considera, infatti, che con una giornata di cavallo si potevano coprire all’incirca venticinque miglia (romane) e che i viaggiatori del tempo preferivano viaggiare con la luce del giorno (sia per evitare i pericoli connessi alle tenebre, sia per non affrontare i costi del cosiddetto servus prelucens) si può, ragionevolmente, ritenere che la distanza tra la Chiesa e San Marco (e viceversa) potesse benissimo essere coperta, anche montando un normale ronzino (dalla radice della lingua tedesca ron = cavallo da lavoro campestre), nel tempo di tre ore, calcolate per eccesso.
I due toponimi erano, quindi, piuttosto contigui e reciprocamente raggiungibili con discreta facilità.
Occorre, tuttavia, precisare che durante tutto il tempo impiegato per l’inspectio non ho rinvenuto alcuna traccia di viabilità riferentesi, in genere, a tempi passati. La maggior parte dei muretti di contenimento della terra, posti a lato della traccia viaria, mi sono sembrati calendabili a tempi recenti e sono quasi tutti realizzati con il sistema a secco con l’impiego di materiale lapideo per la maggior parte più moderno che antico.
La sede stradale risulta asfaltata per tutto l’intero percorso, anche se con cura frettolosa e materiale bituminoso scadente e, per notevoli tratti, sfarinato come si usa per quella viabilità di tipo agricolo-interpoderale.
E’ evidente che la catramazione della sede stradale impedisce di potere accertare se al di sotto del manto asfaltato si possano trovare testimonianze di una viabilità antica con la sede di basalto o calcare o, semplicemente, sterrata.
A giudizio di chi scrive, sembra storicamente verosimile che la viabilità da me percorsa possa riferirsi ad epoca antica, coeva alla dominazione normanna, per intenderci, o anche ad epoca a questa precedente, ammodernata alla meglio, per conservarne l’uso e con esso l’utilità .
Il tragitto appare il più breve tra tutti quelli ipoteticamente possibili e, inoltre, relativamente sicuro. Esso, infatti, si trova ad essere aperto soltanto dalla parte del monastero di San Filippo, per un verso, e dalla parte dell’abitato di San Marco d’Alunzio, dall’altro (da ritenersi, entrambi, presidi di sicurezza), mentre verso nord, ossia verso il lato frontestante il mare Tirreno, sia in direzione est, sia in quella ovest, i luoghi presentano l’invalicabile protezione naturale di molte asperità e dirupi, per cui sono da escludersi eventuali irruzioni ed aggressioni provenienti da queste due ultime parti.
Altro dato di una certa importanza è rappresentato dalle bellezze panoramiche dalle quali la via è letteralmente circondata. Il dato non va sottovalutato. Chi ha un minimo di dimestichezza con questo tipo di indagini sa benissimo che gli antichi ponevano su un piano di rilevanza, riguardo alla viabilità, la sicurezza del percorso, la sicurezza da aggressioni, la scelta stessa del percorso che doveva essere il più breve possibile e, non ultime, la bellezza dei luoghi e la comodità del potere incedere.
A parte l’esigua larghezza della stradella, debbo dire che non mi sono imbattuto in eccessive difficoltà dovute al percorso da me effettuato.
Come ultima circostanza (ultima non certo a causa di una rilevanza minore da essa rivestita), è importante ricordare che tale via si origina proprio dalla entrata principale del monastero di San Filippo e confluisce nella odierna, ampia piazza Gebbia di San Marco d’Alunzio, proprio immediatamente sotto le mura del possente castello normanno: questo rappresentava un ulteriore accessorio di sicurezza che atteneva al momento della partenza o a quello dell’arrivo, nei quali il viaggiatore si trovava piuttosto esposto ai pericoli.
Ulteriore caratteristica, da considerarsi quale supporto aggiuntivo della ipotesi che si tratti di una viabilità antica, è costituita dalla circostanza per cui il castello normanno, essendo allocato sulla acropoli vera e propria dell’abitato di San Marco, permetteva alle sentinelle che stessero di guardia su quegli spalti, un’ampia visuale dell’intero rilievo orografico, sul cui fianco orientale era (è) posta la viabilità sopra descritta.
La posizione privilegiata goduta dalla fortificazione normanna consentiva ai difensori del maniero di avvistare per tempo l’eventuale approssimarsi al centro di San Marco d’Alunzio di gente, sia che fosse ostile, sia che fosse amica, e ciò era possibile a partire dallo spartiacque del monte e sino a raggiungere la vallata sottostante (che costituisce il letto del torrente Platanà, il quale, provenendo dalle montagne a sud di San Marco d’Alunzio e attraversando le contrade Ridi-Ridi, posta nella zona pedemontana, e Pietra Roma, allocata nella breve pianura alluvionale di Torrenova, si getta nel Tirreno in località Fragale).
Non posso non sottolineare la quasi omonimia tra il termine FRAGALA’ (che ha mantenuto l’accentuazione originaria proveniente dalla lingua araba e che si riferisce alla contrada montana nella quale è posto il Monastero di San Filippo che da essa assume il predicato di Fragalà, ambivalentemente con quello di Demenna) e quello di FRAGALE (che, nell’operazione di trasposizione dalla lingua araba a quella cristiana, ha subito una evidente corruzione perdendo l’accento e che si riferisce alla contrada della marina di Torrenova che, all’epoca, era soltanto una Terra di San Marco).
Ancora oggi, permane intatto l’uso di entrambi i termini, sia nella toponomastica ufficiale, che nel demotico locale.
Come già riportato nel mio saggio su Demenna, il termine appartiene alla lingua araba ed è formato dall’unione di due parole, fràg e ‘al-‘Allàh, ossia “la gioia di ‘Allàh ”.
Sarebbe oltremodo interessante conoscere quali siano state le motivazioni storiche (presumibilmente comuni ad entrambi i toponimi) che hanno determinato tale attribuzione onomastica a due contrade della Sicilia, tanto diverse tra loro per storia, posizione geografica ed orografica.
L’ultima considerazione che mi sento obbligato a dovere fare, riguarda la osservazione, in base alla quale, se la via di comunicazione sopra descritta avesse una datazione riferibile ai nostri giorni, non si riuscirebbe a comprendere come mai coloro che l’hanno costruita, si sarebbe preoccupati di mettere in comunicazione il centro abitato di San Marco d’Alunzio e il monastero di San Filippo di Demenna, che oggi non solo è disabitato, quanto é liturgicamente disabilitato.
E’ molto più logico e, soprattutto, più utile (all’epoca odierna) una connessione viaria tra Frazzanò e San Marco d’Alunzio e non tra il monastero e il centro aluntino.
La medesima argomentazione non sarebbe attinente con riferimento ai tempi dell’inizio della dominazione normanna in Sicilia.
Infatti, in tale epoca il monastero non solo era un centro importante della spiritualità cristiana, in quanto considerata come una vera e propria oasi, circondato com’era dal dar al-islam cui apparteneva la quasi totalità del resto dell’isola (fatta eccezione per un’altra oasi, qual’era quella di Rametta, odierna Rometta), quanto era un importante centro culturale, economico e, per certi versi, esprimeva anche una specie di potere politico che ad esso derivava dalla notoria benevolenza con cui era trattato da parte della dinastia regnante degli Altavilla e della maggior parte dei loro successori.
Al monastero, infatti, era stato ottriato il diritto di CANNA (tassa che veniva riscossa per l’uso del metro ufficiale [la canna misurava otto pollici] per la misurazione delle stoffe che avveniva durante lo svolgimento dei mercati) e, inoltre, il diritto di CALDARA (altra tassa che veniva riscossa per la vendita, anche qui durante i mercati, della carne già cotta [bollita nella caldaia]).
A quei tempi, come abbiamo annotato sopra, Frazzanò rappresentava un piccolo insediamento di natura agricola, con qualche minuto insediamento padronale, essendo stato, in origine, una tenuta della famiglia Flacco, non meglio identificata storicamente ; altrettanto dicasi per Longi.
Per conseguenza, il centro più importante e aggregante della zona era costituito proprio dal monastero, che emergeva su tutto il territorio come un faro, non solo per le peculiarità sopra enumerate, ma anche perché tra le mura dell’edificio religioso erano soliti soggiornare sia Ruggero il Granconte che, successivamente, Ruggero II (quello che sono solito chiamare il Gran Re), nonché Adelaide del Vasto con i figli, al tempo in cui Simone e Ruggero erano infanti e il primo era sofferente a causa di una otite di natura cronica.
Da quest’ultima circostanza si può ricavare, ragionevolmente, il convincimento che, non solo Adelaide sperasse in una guarigione taumaturgica del figlio (magari ad opera dello spirito di San Calogero di Calcedonia, il cui alitare in quei luoghi si avvertiva quasi in modo fisico), ma che i monaci possedessero, anche, qualche esperienza di terapia officinale.