SAN MARCO D’ALUNZIO: “NOBILISSIMA CIVITAS” La storia dell’insediamento attraverso le denominazioni assunte nella successione dei periodi storici.
di Michele Manfredi-Gigliotti
San Marco D’Alunzio è un paese della Città Metropolitana di Messina che vanta, con pochissimi altri, una storia nobilissima e, soprattutto, dagli inizi talmente retrodatabili da perdersi nella notte dei tempi. Molto prima che l’insediamento assumesse la denominazione di ‘Áλοντίον (Alontion), esisteva già una realtà insediativa di natura primordiale, della quale ci sono pervenute notizie sparute e incerte e altrettante testimonianze archeologiche ottriateci con il contagocce.
Nel suo studio sulla città di San Marco, riportato in questa bibliografia, Domenico Ryolo nel 1980 ricostruiva, in modo assolutamente convincente, la realtà insediativa costiera e dell’immediato entroterra della Sicilia nord-orientale nel modo seguente:
“Nell’età del bronzo esistevano lungo le coste della Sicilia popolazioni sparse a piccoli gruppi capanni coli del ceppo e della civiltà allora dominanti nell’Isola, come per esempio Milazzo, San Biagio,Tindari e tanti altri (a cui aggiungiamo di nostro, la grotta di Scodonì, in territorio di Torrenova; Monte Scurzi, in territorio di Militello Rosmarino; la grotta di San Teodoro nel territorio di Acquedolci). Ai limiti tra il cadere dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro, e cioè tra il 1200 ed il 1000 a.C., si verificò l’invasione della tradizione diodorea, che se non fu generale e contemporanea e a grandi masse, poté avvenire per gradi e con occupazione di una dopo l’altra di varie località. Allora le popolazioni sparse, fuggendo dinanzi l’invasore,sentirono il bisogno di unirsi ed organizzarsi, occupando posizioni più atte alla difesa; sorsero così allora quei centri abitati che costituirono le grosse città sicule come Pantalica, Longane, Abacaenum ed altre sconosciute più o meno grandi. Fu così allora che i nuclei sparsi dell’Agatirnide si riunirono e si concentrarono fondando o formando quella che poi si chiamò ‘Áλοντίον”.
Il Ryolo aggiunge, poi, che, data la fissazione della nascita del centro urbano verso il cadere dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro, con altissima probabilità, il ceppo etnico della popolazione insediata dovette essere sicano.
Il nucleo demografico, quindi, primigenio e rudimentale di quel centro urbano che in seguito prese il nome di San Marco d’Alunzio, ebbe a prendere forma intorno al XII-XI secolo a. C., quando gli avvenimenti umani non avevano ancora la possibilità di potere essere qualificati e tramandati ai posteri muniti del crisma della natura storica.
Il racconto mitologico circa la nascita dell’insediamento coincide, però, perfettamente con i dati certi a disposizione degli studiosi, sia storici sia archeologi.
Narra, infatti, il mito che l’insediamento sarebbe sorto per opera di tale Patron di Thurios, del quale altro non si conosce sennonché pochissime cose molto marginali. Di lui parla Dionigi ripreso da Virgilio nel libro terzo dell’Eneide.
Dionigi ricorda il ruolo determinante avuto da Patron nella difficile traversata del mare Ionio. L’Autore attribuisce proprio a Patron e ad alcuni suoi compagni la fondazione di ‘Áλοντίον che s’identifica con l’odierno San Marco d’Alunzio.
Da Virgilio: “A Butroto, Enea si separò da suo padre, Anchise, per avventurarsi all’interno del territorio sino a Dodona ove si prometteva di interrogare l’oracolo. Tornato indietro e ricongiuntosi con il padre, partì con le navi alla volta di Onchesmo. In tale ultima località, i Troiani arruolarono il nocchiero-pilota Patron la cui perizia di navigatore consentì loro di attraversare indenni e celermente il canale di Otranto”. L’Autore dell’Eneide aggiunge la notizia secondo cui Patron era di nazionalità acarnana e fu tra coloro che parteciparono agli agoni che si tennero in Sicilia.
Quando si afferma, quindi, che Patron era un compagno di viaggio di Enea, ciò rappresenta una mezza verità, in quanto egli fu compagno di Enea e degli altri profughi Troiani, che erano scampati alla distruzione di Troia, solo per un tratto breve del viaggio e, precisamente, da Onchesmo sino a quel tratto del mare Tirreno che funge da specchio tra i monti Nebrodi della Sicilia e le antistanti isole di Eolo. Qui, attratto dalla bellezza e maestosità del mare e dei monti Nebrodi, decise che il suo viaggio era arrivato alla fine. Secondo il racconto mitologico, infatti, Patron restò talmente affascinato dalla posizione del monte di San Marco che decise di fermarvisi assieme a pochi altri compagni di avventura: quella che aveva di fronte era per lui la terra promessa.
Il racconto dell’avventura di Patron e della fondazione di ‘Áλοντίον sembra far coincidere le circostanze mitologiche con quelle storiche, sicché le prime sono come un corollario delle seconde.
Infatti, mentre la nascita del paese viene comunemente fissata, dalla stragrande maggioranza degli studiosi odierni, intorno ai secoli XII-XI a. C., la guerra che vide contrapposti Achei e Troiani è retrodatabile, con approssimazione fortemente fondata, intorno al 1250 a.C. o, alternativamente, tra il 1194 e il 1184 a.C.
Orbene, o il mito dell’acarnanico è bene costruito, oppure esso racchiude tanti semi di verità storiche come, del resto, succede riguardo alla maggior parte dei miti, da potere essere considerato un vero e proprio racconto storico, anche se di evidente costruzione demotica.
Se veramente è esistito un personaggio chiamato Patron di Thurios aggregatosi al contingente troiano di Enea, fuggiasco dalla città di Ilio in preda alle fiamme, nulla osta all’accreditamento della ipotesi che sia stato proprio, lui, Patron, a ri-fondare la già esistente città di San Marco d’Alunzio.
Una circostanza appare, tuttavia, oramai assodata e cioè che, sia pure in forma primordiale e rustica, San Marco, quando venne ellenizzata dai Greci nel sec. IV a. C., contava già una esistenza antica di ben sette-otto secoli.
Sconosciamo, in modo assoluto, il grado di civiltà raggiunto da tale insediamento primordiale, così come sconosciamo, pure, se l’insediamento per tutti i secoli della sua vita civica avesse un nome proprio con il quale veniva indicato. Nulla ci è pervenuto a proposito della sua denominazione onomastica sino al sec. IV a. C. Solo a partire dalla sua ellenizzazione, infatti, si inizia a denominare il centro urbano con il nome di ‘Áλοντίον pronunciato e, soprattutto, scritto usando le lettere dell’alfabeto greco.
Non vi sono seri e validi motivi per dubitare che sia stato proprio il contingente greco a procedere al battesimo della nuova colonia con il nome di ‘Áλοντίον. Oltre alla coincidenza cronologica tra attribuzione della toponomastica ed ellenizzazione del sito, occorre considerare che il toponimo ci è stato tramandato costantemente in lingua greca nella forma sopra riportata. Qualcuno potrà obiettare che la lingua greca è quella usata dagli storici nelle opere che ci hanno tramandato, in quanto di nazionalità e, quindi, di lingua greche, per cui il riferimento a quel modus espressivo sarebbe più letterario che altro. Se questa è l’osservazione eccezionale, essa non appare essere fondata in considerazione delle fonti che hanno tramandato il toponimo (Dionigi d’Alicarnasso, Diodoro Siculo, Marco Tullio Cicerone, ecc.), le quali avrebbero, certamente, precisato essere il termine una trasposizione dalla lingua madre indigena (poniamo la lingua parlata dai Sicani) a quella greca. V’è, tuttavia, un argomento piuttosto terminativo rispetto alla soluzione del problema, così come sopra è stata prospettata. La numismatica archeologica, infatti, ci viene incontro avendo fatto rinvenire molteplici monete retrocalendabili al IV secolo a.C., nelle quali è possibile leggere il λογοs di conio che reca le iscrizioni ‘Áλοντίον e ‘Áλοντίων.
La coincidenza è troppo forte e pregnante per potere pensare ad un caso fortuito. La datazione del conio è una testimonianza documentaria non facilmente invalidabile.
Alle argomentazioni sopra illustrate è necessario aggiungere che uno dei templi più belli che fa parte del già vasto patrimonio storico-archeologico dell’attuale San Marco d’Alunzio, ossia il Tempio d’Eracle, risulta essere stato edificato nel IV sec. a. C..
Orbene, l’omaggio tributato alla possente divinità dell’Ellade rappresenta un ago di orientamento che punta dritto ad oriente da dove sono, certamente, venuti gli ellenizzatori di ‘Áλοντίον.
Quanto precede e quanto susseguirà da qui a poco fanno ritenere, con un orizzonte marginale di probabilità storica piuttosto ampio, che la denominazione onomastica dell’insediamento sia opera dei Greci ellenizzatori.
Fatta la premessa di cui sopra, è necessario provare ad esaminare l’etimo del nome in rassegna, ‘Áλοντίον.
Non é stato possibile rinvenire negli Autori, che si sono occupati del centro nebrodense, alcun riferimento alla semantica del termine con cui si è iniziato ad indicare l’insediamento in argomento a partire dal IV secolo a.C.. In tutte le opere attinenti a San Marco d’Alunzio, manca il sia pur minimo cenno, anche di sfuggita o per riporto di opinioni altrui, che possa illuminarci sul significato di ‘Áλοντίον.
Persino il noto storico aluntino, Antonino Meli, autore di quel volume poderoso e più volte compulsato, qual è l’ “Istoria antica e moderna della città di San Marco”, non fa il minimo cenno all’etimo del nome che, partendo dalla ellenizzazione del sito, con qualche breve soluzione di continuità, è pervenuto pressoché intatto sino ai nostri giorni.
Anche gli studiosi moderni e contemporanei hanno preferito non occuparsi del problema, accettando passivamente la denominazione così come essa ci è pervenuta.
Eppure il nome è il seme di ogni cosa creata. Rappresenta il certificato dell’identità di tutte le cose. Non conoscere il nome delle cose equivale a non conoscere che esse esistono, che hanno avuto o hanno una storia e un’esistenza. Ancora più, conoscere una semplice radice semantica, svela, il più delle volte, secoli e secoli di avvenimenti storici.
Il mondo classico era cosciente dell’onnipotenza della conoscenza dei nomi; in particolare, il mondo egizio ritenne che fosse Ra (il Sole) la più potente delle divinità del suo pantheon, perché egli conosceva il nome (con il significato semantico) di tutte le cose create.
Sulla scorta di tali principi acquisiti, abbiamo cercato di penetrare con il grimaldello linguistico l’enigma del nome topografico per cercare di sapere perché mai all’insediamento, di cui ci stiamo occupando, in un determinato momento storico della sua esistenza, sia stato dato il nome di ‘Áλοντίον.
Per la soluzione del problema, ritenendo di dovere essere confortati dagli avvenimenti storici di cui siamo a conoscenza e dai quali, evidentemente, non si può prescindere e ritenendo, ancora, di dovere ricorrere all’aiuto della lingua greca, rassegniamo qui di seguito il risultato al quale siamo pervenuti.
Secondo noi, ‘Áλοντίον deriva dal verbo greco άλίσkομαι andare in alto, conquistare il quale, al participio passato, assume la forma άλοντε duale-deponente-avestico) e, di conseguenza, traducibile con conquistato e, ancora, tramite la sostantivazione del verbo, con sito conquistato.
‘Áλοντίον per conseguenza altro non vuol dire che sito, paese, luogo conquistato e, poiché tale nome è stato attribuito dai Greci colonizzatori, luogo conquistato dai Greci.
Questa interpretazione fa venire il sospetto che vi sia una parte di questa storia riguardante la denominazione del luogo che non ci è stata mai raccontata, anzi, che non è mai pervenuta sino a noi e di cui, magari, qualche giorno ci impadroniremo in virtù di qualche scoperta fortuita, come spesso avviene.
L’interpretazione che precede conferma alcune circostanze che sono state esaminate sopra e cioé:
–che il sito fosse, preesistente alla sua ellenizzazione (dai secc. XII-XI al sec. IV a.C.), detenuto e abitato da altra stirpe, diversa da quella ellenica, magari frammista a quella acarnana (la stirpe sicana, secondo Ryolo);
–che nel IV secolo a. C., (durante il quale si è vista la Grecia, per le motivazioni politiche e sociali che possono reperirsi su qualsiasi libro scolastico di storia, praticare intensivamente e su larga scala una politica espansionistica coloniale interessante tutto il bacino del Mediterraneo, sicché contingenti di ecisti greci invasero, in particolare, le coste della Sicilia e quelle della Brettia, piantando, così, il seme che avrebbe generato quella che, poi, fu chiamata Μεγάλε Ελλάs [Grande Grecia]), il sito venne ellenizzato così che la civiltà greca prese il testimone da quella indigena preesistente;
–che l’ellenizzazione di San Marco non dovette avvenire in modo pacifico, così come di norma accadeva nel caso di deduzioni di colonie (άποίkίάί) ex novo, ma a seguito di un vero e proprio conflitto armato (nella specie, facilmente ipotizzabile, tenendo presente il carattere bellicoso e indipendente del popolo sicano), in esito al quale la compagine greca dovette risultare vittoriosa;
–che, quasi in concomitanza con la vittoria ottenuta, i conquistatori greci della città, certamente per offrire voti di ringraziamento alla divinità per l’esito del conflitto, edificarono un Tempio (il Tempio di Eracle: senza alcun dubbio, di matrice ellenica, retrocalendabile al IV sec. a.C. e, inoltre, edificato in onore di una divinità possente, valorosa, combattente, simbolo della vittoria finale), allocandolo extra moenia, come ancora oggi è facilmente percepibile;
–che l’allocazione extra moenia debba, nel caso specifico, essere considerata come una scelta necessitata dei costruttori, è molto probabile, considerata la situazione dei luoghi, nel senso che i nuovi arrivati, certamente, non reperirono spazi sufficienti intra moenia nei quali edificare l’edificio sacro, in quanto l’edificazione civile preesistente, insediata arditamente a partire dal cacumen montis, non aveva lasciato spazi liberi sufficienti entro la cerchia delle mura.
A proposito dell’allocazione dei santuari, occorre rammentare che, nei tempi più remoti della Grecia, gli edifici destinati al culto venivano, preferibilmente, costruiti entro l’area urbana, eleggendo il sito più elevato della πολίs (άkροπολιs). Man mano, però, il rigore di tale regola venne, per ragioni contingenti, mitigata e finì con il perdere l’originaria rigidità e subire una evoluzione nel senso che gli edifici di culto venivano allocati anche in simbiosi più stretta con l’ edilizia civile del tessuto urbano. I Templi cominciarono a trovarsi, così, a stretto contatto con le case di civile abitazione. Con l’ulteriore incremento demografico, dovuto alla urbanizzazione sempre più pressante, moltissimi templi, anche importanti e rinomati (come, ad esempio, e in particolare, quelli dedicati a Zeus, Era e Demetra, quasi sempre posti extra moenia, siccome divinità così potenti da non avere nulla da temere) cominciarono ad essere allocati anche al di fuori della mura, a volte lontani da esse, nella χωρά della πολιs o, addirittura, nella immediatezza dei confini attribuendo loro, in questa ultima ipotesi, quasi una specifica funzione di segni lapidei marcatori e difensori degli stessi limina.
Oggi, del periodo greco rimangono pochissime vestigia nel territorio comunale.
E’ possibile vedere ancora il tempio d’Eracle che si offre alla vista in buone condizioni, con la sua entrata principale rivolta a cogliere per prima la luce del sole.
Non è possibile, al contrario, vedere, se non ciò che ne rimane, ossia qualche resto murario infinitesimale, dell’altro tempio scoperto dal Ryolo durante una sua visita in loco.
E’ possibile, invece, vedere tracce di un altro edificio riservato al culto (precisamente a quello di Demetra-Cerere) ubicato extra moenia, nella contrada Santa Marina.
Resistono, tuttora, agli insulti del tempo, due cisterne greche (IV-V sec. a.C.) adibite alla raccolta dell’acqua probabilmente meteorica non essendo visibili tracce di condutture per l’adduzione idrica, di ottima fattura, mirabilmente conservate venute alla luce durante alcuni lavori pubblici effettuati dal comune. Sul fondo delle cisterne è possibile vedere due fossette destinate alla raccolta, per caduta, dei detriti per separarli dall’elemento liquido. Le cisterne sono poste nelle immediate vicinanze di una fabbrica che ritengo straordinaria, ossia un palazzo appartenuto alla famiglia Crimaldi e che, pare, sia stato acquistato dalla Sovrintendenza di Messina. Secondo il racconto demotico sorto spontaneamente, in questo palazzo avrebbe soggiornato per un intero anno Margherita di Navarra, madre di Guglielmo il Buono. La straordinarietà del palazzo consiste nella testimonianza che esso rende di tutte le civiltà che hanno intersecato il cammino storico di San Marco d’Alunzio. A parte le due cisterne greche che si trovano ai suoi piedi, è possibile vedere nel tessuto edilizio esterno vari strati costruttivi sovrapposti: dalle fondamenta greche ad uno strato intermedio visibilmente romano; dall’ulteriore sviluppo decisamente arabo prima, all’altro normanno, poi.
Se, infine, si prosegue nella passeggiata attraverso le rassicuranti vie medievali del paese, è possibile imbattersi in una serie di reperti archeologici, minuti, insignificanti per chi non ha la vista acuta, ma sostanzialmente ancora dotati di alito vitale in quanto utilizzati, per inglobamento, nell’edilizia civile moderna del paese.
Andando verso il centro, si giunge in quella che, certamente, era l’άγορά dell’insediamento, ai cui margini sono state rinvenute alcune tabernae durante alcuni lavori di sistemazione della piazza. Nel tragitto si passa dinanzi la chiesetta del Crasile (dal greco χραω: pregare sollecitando un oracolo) di forma rettangolare e di evidente culto pagano.
Girato l’angolo, ci s’imbatte in una piccola casa di civile abitazione contrassegnata dal numero civico “2”, dinanzi la cui entrata è allocata, infissa nel cemento una colonna greca mutila, scanalata, dell’altezza di circa centimetri cinquanta, cui è stata attribuita la funzione di sedile litico a vantaggio del padrone di casa e degli occasionali passanti, secondo un costume ospitale di antica memoria. Proseguendo, ci s’imbatte in almeno quattro colonne greco-romane inglobate nelle mura delle case, in un arco medievale di bella fattura e sul portale della casa di Calogero Monici è possibile vedere una iscrizione in lingua greca che non sono riuscito a decrittare: α, π, ε, (segue un segno indecifrabile), ρ, ν, ο, ε. (a, p, e, (segno indecifrabile), r, n, o, e. (Le notizie relative alla chincaglieria e minuteria archeologiche che precedono sono tratte da M.Manfredi-Gigliotti, Variae historiae fragmenta, Un giorno per le strade di San Marco d’Alunzio, Edizioni Mediasoft, Palermo 2003).
Il periodo ellenistico della storia di San Marco d’Alunzio ha fine nel III sec. a. C., all’incirca nell’anno 260. Le guerre puniche si erano concluse e Roma aveva necessità di espandere e consolidare i propri confini, allontanandoli il più possibile dalle mura latine per potere così scongiurare eventi dannosi e nefasti in danno dell’Urbs che avrebbero potuto verificarsi tramite il pericolo di assalti diretti e, secondariamente (ma non tanto), per assicurare alla Città Eterna gli approvvigionamenti alimentari, costituiti soprattutto da cereali, particolarmente grano.
In poco tempo la Sicilia, assieme a qualche altra regione della penisola, divenne il granaio di Roma.
La storia non ci dice se la fagocitazione di ‘Áλοντίον da parte di Roma, avvenne in modo pacifico, oppure manu militari.
In verità, la mancanza di notizie di scontri bellici riguardanti le due città militano per privilegiare la tesi dell’inglobamento pacifico, forse anche volontario da parte della città nebrodense.
La prima preoccupazione dell’intellighenzia politica della città eterna fu quella di fare in modo che le realtà urbane sottomesse parlassero la lingua latina invece di quella greca e, in esecuzione di tale politica linguistica, provvedere ad eseguire una specie di plastica revirginatoria del nome dell’insediamento, anche se, senza alcuna fantasia onomastica, mantenendo l’assonanza primigenia: ‘Alontion si passò ad Haluntium, metamorfosi, questa, senza alcuna sostanziale mutazione a parte la diversa pronunzia della “tau” greca e della “t” latina, entrambe, sia in greco che in latino, consonanti dentali che, nella lingua greca, restano, rispettivamente “tau” dentale e dura, mentre in quella latina, pur restando “t”, si pronuncia come “zeta” (divenendo, così, sibilante) a causa dell’incontro con la vocale debole “i”.
Per quanto attiene alla lingua, il problema non fu di facile soluzione.
Le città sottomesse, che da qualche millennio si erano espresse prevalentemente in greco, trovarono molti ostacoli ad apprendere la nuova lingua. Il risultato pratico fu quello che, mentre gli atti ufficiali continuarono ad essere espressi in greco, la lingua parlata fu, demoticamente, il risultato di una ibrida convivenza di greco e latino, con conseguente contaminazione di termini appartenenti ad entrambe le lingue. A questo occorre aggiungere che la lingua latina diffusa nelle province conquistate da Roma non era, certo, la lingua aulica parlata da Marco Tullio Cicerone, ma quella, volgarizzata, di cui si servivano prevalentemente i soldati romani con tutte le implicazioni che ciò comportava. E’ come se qualcuno oggi pensasse che la lingua italiana coincida con il “romanesco” che si parla a Trastevere.
Ancora oggi, in molte città e paesi della Sicilia, sopravvivono termini misti, provenienti dalle due lingue spontaneamente assemblate, a parte l’influenza di una miriade di altre parlate secondo le dominazioni subite dall’Isola.
Per quanto riguarda San Marco d’Alunzio contemporanea, mancano studi specifici, mirati a determinare l’origine della parlata demotica del popolo che lo abita.
Gerhard Rohlfs, che pure si è interessato della lingua di molti paesi della Sicilia, anche contigui a San Marco, su quest’ultimo ha scritto pochissimo. Eppure si avverte subito che la lingua parlata dagli Aluntini, quando essi parlano in dialetto, è decisamente diversa da quella parlata negli altri paesi anche viciniori, come altrettanto diversa è l’inflessione che essi danno alle parole. Si avverte subito che si tratta di una diversità del tutto particolare, che nulla ha a che vedere con il dialetto di San Fratello, di Montalbano Elicona, di Piana degli Albanesi trattandosi, in questi tre casi specifici di un vero e proprio alloglottismo, mentre la parlata di San Marco d’Alunzio, al contrario, denunzia una propria evoluzione endostorica sviluppatasi spontaneamente durante i secoli della sua storia.
Le città sottomesse avvertirono subito il nuovo clima che si era instaurato. Le cose erano mutate, rispetto a prima, quando tra madre patria greca ed insediamenti coloniali non vi era mai stato un rapporto di subordinazione gerarchica, ma solo, quando c’era, di riverenza sentimentale, quasi di affezione parentale.
Tutte le città della Sicilia, transitate sotto il dominio di Roma, furono immediatamente suddivise secondo una classifica predisposta dall’Urbs: civitates foederatae, civitates immunes, civitates decumanae, secondo che, nel rapporto interno con Roma, fossero, nell’ordine, città confederate, città esenti da oneri, città sottoposte al versamento della decima.
Haluntium venne classificata come città decumana e, per questo, sottoposta al pagamento della decima (imposta personale attinente al reddito prodotto, in particolare da attività agricole, e consistente nel versamento della decima parte dell’introito reddituale medesimo).
In seguito, e precisamente in età augustea, le città siciliane furono classificate in modo diverso: città coloniali (che erano quelle formate, per maggioranza demografica, da coloni romani inviati al fine di sopperire ad emorragie demografiche e, quindi, per fini di ripopolamento); città di diritto latino (pochissime per la verità [Segesta, Centuripe, Noto], erano quelle che avevano partecipato alla precedente classificazione in seno alla quale erano state qualificate come città confederate); città stipendiarie (che erano quelle che, al posto del versamento dell’imposta della decima, versavano una imposta fissa preventivamente quantificata); città municipali (che conservavano alcuni privilegi, che le collocavano molto vicino ad enti politici territoriali autonomi ed autarchici, come vedremo a breve).
Come risulta dal rinvenimento di due epigrafi incise sulla pietra, Haluntium venne eretta a municipio (Municipium Aluntinorum: municipium: munus=ufficio, incarico pubblico; capere=prendere, assumere).
Tale classificazione, per molteplici aspetti da considerarsi privilegiata, era stata determinata, sostanzialmente, dalla circostanza per cui gli Aluntini, in modo collettivo, ossia come popolo, avevano ricevuto dal popolo romano la c.d. civitas romana. Tale status giuridico consentiva al popolo aluntino di conservare le sue originali istituzioni comunali, i suoi comizi, il senato e i propri magistrati, i quali ultimi (era precisato) non potevano esercitare la giurisdizione criminale (giurisdizione penale), in quanto il suo esercizio era riservato, nell’ambito di tutto il territorio isolano, direttamente a Roma, che lo esercitava tramite l’ufficio del propretore.
La città aluntina viene nominata nell’Actio Secunda, liber quartus, in Gaium Verrem da Marco Tullio Cicerone (anzi, l’avvocato-scrittore-umanista romano si recò sui posti, sostando nella marina di Alunzio) a causa delle grassazioni subite da un aristocratico aluntino, il navarca Arcagato, ad opera del propretore.
Haluntium, sotto Roma, diviene fiorente e prospera, soprattutto per il commercio dell’olio e del vino.
Il territorio di Alunzio, prevalentemente montuoso, non ha consentito che la città potesse rientrare nel novero di tutte quelle altre città siciliane dalle quali Roma traeva l’approvvigionamento del grano. Alunzio produceva l’olio e il vino più rinomati dell’Isola e, fors’anche, dell’intera penisola.
Gli uliveti aluntini potevano vantare, con riferimento alle piante, un’origine greca e, quindi, l’olio era di ottima qualità, sia per l’impiego gastronomico, sia per quello estetico che, infine, farmacologico. Ma, il campo, nel quale Haluntium vantava una vera e propria eccellenza riconosciuta da tutti, soprattutto dai Romani, era certamente quello enologico.
Infatti, secondo quanto affermano sia Plinio sia Cicerone (entrambi, secondo quanto è dato leggere, eccellenti enologi), quelli che andavano per la maggiore in Roma erano due vini provenienti entrambi dalla Sicilia: l’Haluntinum, proveniente dai territori di Haluntium e il Tauromenitanum, proveniente dai territori di Tauromenium (Taormina).
Il rango di cui godeva la città (municipium), consentiva ad Haluntium una discreta libertà di azione politica, tuttavia il regime era ben diverso da quello goduto ai tempi dell’esistenza di ‘Áλοντίον nei quali i rapporti, come già detto innanzi, con la Madre patria erano solo a livello di lealtà e riconoscenza parentali. Durante la dominazione di Roma, tutto dipendeva dalle direttive emanate dalla città capitolina, dai mutamenti normativi, dalle posizioni cerebrine del propretore, dalle sentenze emanate dai duoviri jus dicundo, dal divieto di coniare le monete, come accadde ad Haluntium su ordine di Augusto: era, nella sostanza, quella delle città della provincia romana, una libertà vigilata, sempre in predicato di divenire, da un momento all’altro a seconda del vento alitante a Roma, carcerazione vera e propria.
La denominazione del centro rimane Haluntium dall’origine della dominazione romana e sino al VI sec. d. C., quando assume quella di Demenna e ciò in concomitanza (come correttamente ha osservato Ewald Kislinger, in Monumenti e testimonianze greco-bizantine di San Marco d’Alunzio, Ed. Rotary Club Sant’Agata Militello 1995) con la quasi totale sparizione del suo nome (‘Áλοντίον, prima; Haluntium, poi) sia dalle pagine dei testi storici, che letterari, che, per finire, da quelle degli atti ufficiali.
Il fenomeno è spiegabile ricorrendo alla storia generale del mondo da cui si può trarre un ben preciso e accertato dato storico e cioè:
“Alla fine del VI sec. d. C., a seguito delle pressioni esercitate dagli Avari e Slavi, molte popolazioni della Grecia furono sospinte verso sud, verso la Laconia e la sua punta estrema, la regione del Mani o Maina. Alcune di tali popolazioni, fiere e ribelli, preferirono emigrare anziché vivere in patria in stato di schiavitù. Un contingente venne a stabilirsi in Sicilia nella città che da essi fu detta Demenna: altri (gli abitanti di Patrasso) si fermarono in Calabria, a Reggio; gli Argivi andarono nell’isola di Orobi e i Corinzii si fermarono nell’isola di Egina” (da M.Manfredi-Gigliotti, Demenna nella letteratura arabo-sicula, Sant’Agata Militello, Arti Grafiche Zuccarello 2006).
Sappiamo (I. Dujcev, Cronaca di Monemvasia, [Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, Palermo 1976]) che “allora anche gli abitanti di Lacedemone abbandonarono la terra natia, salparono, alcuni di loro verso l’isola di Sicilia εν τη νησω Σιkελιοs) e ancora adesso vi restano, nel luogo che si chiama Demenna (εν τοπω kαλονμευω Δεμενα) e, conservando il dialetto dei Lacedemoni, cambiarono il nome in quello di Demenniti (kαι Δεμενιται αντι Λαkεδαιμονιτων kατονομαζομενοι kαι την ιδιαν των Λαkωνων διαλεkτον διασωζοντεs)”.
Il mutamento della denominazione da Haluntium in Demenna deriva, quindi, dalla nazionalità dei nuovi immigrati, i quali, come già detto, provenivano dalla Laconia e, per questo, erano dei Lacedemoni.
Al fine di comprendere appieno la trasposizione onomastica da Lacedemoni in Demenniti, è necessario riportare i termini nella lingua madre che, come abbiamo già detto, era la lingua greca.
Lacedemone (Λαkεδαιμονιοs) era l’abitante di Lacedemone (alias Sparta) che, a sua volta, deriva il suo nome da Laconia (Λαkαινα), regione del Peloponneso.
Il termine per esteso è composto da Lace (Λαkων) e demo (δημοs): popolo della Laconia.
Per conseguenza, la denominazione Demenna e Demenniti deriva dal secondo termine, δημοs, della parola composta Λαkεδεμονιαcon il significato, quindi, di: popolo, paese.
La dominazione demennita si è rivelata di grandissima e profonda importanza storica per l’antico insediamento di ‘Áλοντίον –Haluntium.
L’intera isola di Sicilia, infatti, nel periodo in rassegna (particolarmente, ci si riferisce a far tempo dalla metà del VII secolo), si trovava in grande difficoltà provocata dalle continue scorrerie dei legni arabi, i cui equipaggi non disdegnavano di fare frequenti puntate a terra al fine di razziare tutto quello che si poteva razziare, non creandosi scrupoli di organizzare anche dei sequestri di persone appartenenti a ceti abbienti, al fine di locupletare, poi, i soldi del riscatto che puntualmente richiedevano alla famiglia del sequestrato.
Durante le brevi e frequenti puntate sulla terraferma dell’Isola, gli Arabi ebbero senz’altro modo di studiare la situazione dei luoghi, rendendosi immediatamente conto che la suddivisione dell’isola in tante minime giurisdizioni locali, il più delle volte anche a carattere personale, nella totale assenza di un esercito unitario che ne potesse difendere tutti i litorali, avrebbe consentito loro di impadronirsi definitivamente dell’intero territorio isolano, tramite spedizioni militari ben organizzate, senza che ciò dovesse presentare eccessive difficoltà realizzative.
Prima dell’inizio della conquista vera e propria della Sicilia, gli Arabi, come se avessero voluto porre in essere una prova generale, sbarcarono nell’estate dell’anno 812 nell’isola di Lampedusa (l’antica Lampas) trucidandone gli abitanti e non facendo alcuna distinzione tra uomini, donne, vecchi e bambini. In soccorso della piccola isola giunsero alcune navi da Siracusa riuscendo a fermare il genocidio.
Così, nell’anno 827, con la spinta determinante degli Aghlabidi determinati, in questo, dall’ex comandante della flotta isolana, il trasfuga Eufemio, gli Arabi, prendendo come casus belli la scacciata dall’Isola proprio di Eufemio e con il pretesto di aiutare quest’ultimo, sbarcarono con un esercito a Mazara del Vallo e iniziarono la conquista dell’Isola, la quale venne portata a termine nell’anno 902. L’intera Isola finì con l’appartenere al dar‘al-Islam, anche se con alcune sparute, anche se significative, eccezioni, come Rametta (Rometta), la fortezza di Enna e, inoltre, una discreta oasi di Greci ortodossi installatisi nel Valdemone (Demenna).
La presenza demennita nel territorio degli Aluntini conferiva a questo popolo una certa tranquillità per continuare a vivere in pace e provvedere alle esigenze quotidiane, realizzando pregevoli edifici di culto ornati con importanti rappresentazioni pittoriche agiografiche, di cui ancora oggi, nella cittadina si vedono le sopravvivenze. Al di là di qualsiasi previsione prognostica la dominazione araba apportò alla Sicilia una prosperità quasi senza precedenti e ciò sotto molteplici angoli visuali: l’amministrazione pubblica ottenne notevoli e visibili miglioramenti del suo funzionamento; l’agricoltura ebbe uno scatto in avanti ottimizzando la produzione agricola con l’introduzione di nuove tecniche per la captazione, conservazione e distribuzione dell’acqua sia per fini potabili che irrigui; furono introdotte nuove specie di culture come, tanto per citarne qualcuna, l’ulivo che è detto saraceno ancora oggi; l’architettura divenne un punto di forza (e per conseguenza, di attrazione) dell’intera Isola (ancora oggi gli edifici bizantini sono calamitanti per legioni di visitatori).
Di tale ευνομια collettiva trasse vantaggio anche l’insediamento di ‘Áλοντίον –Haluntium-Demenna.
L’inattesa prosperità dell’Isola ne determinò l’affrancamento dal potere centrale dell’Ifriqiya con conseguente conquista di una notevole autonomia politico-economica. Gli Arabi, già insediatisi sul territorio siculo originariamente come popolo conquistatore, nel momento in cui si susseguirono altre dominazioni etniche, non abbandonarono il suolo isolano preferendo rimanervi.
Le ostilità, in ogni caso, tra Arabi e, in pratica, Bizantini non si acquetarono. Anzi, in più occasioni, gli Arabi s’incaponirono soprattutto contro quelle fortificazioni che non erano riusciti a conquistare.
Anche ‘Áλοντίον –Haluntium-Demenna fu costretto a subire numerosi assalti da parte degli Arabi.
“Raccontano, infatti, gli annalisti arabi che ‘Ibrahim ‘ibn ‘Ahmad, dopo avere espugnato Taormina nell’anno 902, inviò una parte dell’esercito, al comando del proprio figlio ‘Abu ‘al ‘Aghlab, ad espugnare le due fortezze di Rametta (Rometta) e di Demona, trovando quest’ultima vuota poiché gli abitanti la avevano abbandonata.
Anche nell’anno precedente, 901, Demona aveva subito l’assalto arabo ad opera, quella volta, di ‘Abu ‘al ‘Abbas, il quale aveva tentato invano di espugnarla piantandovi contro i mangani per molti giorni” (Demenna, nella letteratura arabo-sicula, citato).
Così gli annalisti arabi:
“Ei si pose a campo sotto Dimnas (Demona), la quale egli assediò per diciassette giorni; indi venne a Messina e passò con le navi da guerra a Reggio, dove s’era adunata gran moltitudine di Rum (Romani). Ai quali ei dié battaglia dinanzi la porta della città; li ruppe;entrò in Reggio con le armi alla mano, nel mese di ragab (dal 21 giugno al 20 luglio) e fece preda di grosse somme di denaro. Indi tornò a Messina; ne abbatté le mura e, trovatevi delle navi ch’eran venute da Costantinopoli ne prese ben trenta”.
“Ibrahim mise in corsa le gualdane per le città di Sicilia ch’eran tenute ancora dai Rum: una gualdana a Miqus (Dinnamare?) e una a Demona; le quali trovarono che già gli abitatori avevano sgomberato; onde presero quanto v’era. Un altro corpo di Musulmani fu mandato da ‘Ibrahim a Rametta ed uno ad ‘Al Yag (Aci)”.
E, ancora:
“L’anno novantotto (9 settembre 910-25 agosto 911) ‘Al Hasan ‘ibn ‘Ahmad ‘ibn ‘abi Hinzir, della tribù berbera di Kutamah,mandato dal conquistatore dell’Africa, ‘Ubayd ‘Allah ‘al mahdi, mosse con gli eserciti alla volta di Demona; e, infestate quelle regioni fece ritorno (in Palermo)”.
‘Al Muqaddasi elenca, una dopo l’altra, tutte le città più importanti della Sicilia, nel numero di trentuno cominciando da Balarm (Palermo) e chiudendo con Bartannah (Partanna): tra di esse figura Damannas.
Dopo vicende alterne, gli Arabi occupano militarmente ‘Áλοντίον –Haluntium-Demenna, ove costruiscono una moschea contigua all’attuale Chiesa Madre.
Gli Arabi dominarono la Sicilia sino a quando non arrivarono i Normanni che ne presero il posto. La conquista normanna durò trent’anni: ebbe inizio nel 1061 e si concluse, con la presa di Noto, nel 1091.
Nell’anno 1061 i Normanni, con in testa Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo e suo fratello, Ruggero, occupano l’insediamento aluntino e la sua χωρα.
Il primo pensiero di Roberto fu di fortificare il sito costruendovi sull’acropoli un castello ben munito e, soprattutto, ben visibile dai punti più estremi della marina. Il presidio fu messo sotto il comando di Guillaume de Malo.
L’altro pensiero, realizzato dopo che era stata conquistata tutta l’Isola, fu quello di ribattezzare, anagraficamente, il sito per conferire a tutta l’operazione il sigillo della paternità per i secoli avvenire.
Furono abbandonate le denominazioni precedenti, ossia ‘Áλοντίον di matrice greca, Haluntium di quella romana e Demenna bizantina e venne assunto il nome di San Marco.
Il cambiamento onomastico non avvenne, come già accennato, immediatamente. Infatti, nel 1095, il centro veniva ancora indicato come San Marco dei Demenniti (αγιοs Mαρkοs των Δεμεννων): ciò risulta dal diploma del 1109 (il quale non è altro che una copia fedele di quello del 1095), che è riportato in “Le pergamene greche esistenti nel grande archivio di Palermo”, tradotte ed illustrate da Giuseppe Spata, Palermo, Tipografia e Legatoria Clamis e Roberti, 1862.
Sul motivo per cui Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero chiamarono il centro aluntino San Marco gli studiosi non sono stati e non sono d’accordo, non essendosi rinvenuti, in merito, elementi di definitiva certezza.
L’ipotesi più probabile, nell’assenza di altre validamente antitetiche, è che i due Altavilla abbiano voluto, con questo nome, ricordare un altro centro insediativo del meridione d’Italia, San Marco Argentano (l’antica città bruzio-latina di Argentanium), sito di un’antica sede vescovile (nella cui cattedrale sarebbe custodito il corpo di San Marco, Apostolo ed Evangelista). Fu il primo centro urbanizzato della Calabria che i Normanni conquistarono (sec. XI) e fu proprio da qui che aveva preso l’abbrivo la loro fortunata conquista delle terre peninsulari e insulari di questo per loro nuovo mondo mediterraneo, illuminato e riscaldato sempre da un sole benefico, dopo che avevano abbandonato quelle di Hauteville-la-Guichard, allocata tra Saint-Lo e Coutances, e le odiate brume del Cotentin.
La denominazione, quindi, non sarebbe stata causata da altro se non da intenti scaramantici e apotropaici.
L’ipotesi sopra formulata, anche se non riscontrata da elementi risolutivi, non sembra neppure del tutto extravagante, anzi. Se, poi, secondo il modesto parere di chi scrive, si riesce ad aggiungere qualche altra tessera al mosaico sopra costruito, potrebbe anche succedere che l’ipotesi formulata si trovi ad essere irrobustita.
Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo (l’astuto, la volpe), era stato inviato in Calabria, precisamente in quel di San Marco Argentano, da Guglielmo, Braccio di Ferro (Ferrabach), allo scopo di cercare una migliore fortuna principalmente per la propria famiglia, gli Altavilla, ma anche per i Normanni del seguito.
Giunto che fu in San Marco, Roberto cominciò ad organizzare scorrerie e rapine, mettendosi alla testa di una piccola banda di grassatori, composta da Normanni e Calabresi.
Nel territorio di San Marco, gli nacque un figlio dalla moglie Alverada che era una sua conterranea. Il figlio neonato fu battezzato e Roberto gli impose il nome di Marco, anche se, in seguito, il giovanotto, motu proprio, preferì farsi chiamare da tutti Boemondo.
La ricorrenza, in più di un’occasione, del nome Marco, riferito al paese oppure al sant’apostolo ed evangelista, dal quale, in definitiva, il paese ha tratto la sua stessa denominazione, finisce con avvalorare l’ipotesi formulata, per la quale il nome attribuito a San Marco di Sicilia faccia riferimento al centro calabrese e al suo santo omonimo.
Non è, quindi, senza un significato profondamente sentito che Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, abbia voluto commemorare due avvenimenti così importanti della sua vita, la nascita di un figlio e la fondazione di un castello così importante sul cacumen montis su cui sorgeva il paese di San Marco, proprio con quel nome che gli rammentava l’inizio della sua impresa di conquista, la nascita di un figlio e il consolidamento del suo potere con la fortificazione di San Marco di Sicilia.
Si rammenta, ancora, che Roberto il Guiscardo, appena giunto in San Marco Argentano, la prima cosa che fece fu di fare costruire una torre fortificata nell’ambito di quel territorio, così come fece in San Marco di Sicilia con l’erezione del castello.
Sta di fatto che sotto la denominazione normanna, San Marco conosce un periodo di gran benessere e tranquillità. Il nome dell’insediamento corre di bocca in bocca, quale luogo prediletto dal Gran Conte prima, dalla sua consorte, dai loro figli, poi e, per finire, da Ruggero II.
Gli Altavilla si affezionano in modo particolare a San Marco, tanto che amano, a preferenza di altri posti, soggiornarvi frequentemente, soprattutto Adelaide del Vasto, figlia di Manfredi, fratello di Bonifacio di Savona, il potente marchese d’Italia e moglie di Ruggero d’Altavilla che, nel frattempo, aveva assunto il titolo di Granconte, e i suoi due figli, ancora minorenni, Simone, il maggiore, e Ruggero, il più piccolo, destinato, quest’ultimo, ad assumere, in seguito, lo scettro di re, prendendo il nome di Ruggero II.
Ruggero il Granconte preferiva distribuire i suoi soggiorni tra San Marco e Mileto, in terra di Calabria, ove era stato costruito un altro castello.
Il motivo dell’affezione di Adelaide verso tale insediamento era generato, certamente, dalla sua amenità, dall’aria buona, dalla genuinità dei cibi e, soprattutto, dagli abitanti che erano rimasti affascinati dalla gentilezza della nobildonna, che veniva da essi chiamata, quasi a guisa di un vezzeggiativo familiare, Andelasia.
Ma vi era un altro determinante motivo per cui la contessa si recava così frequentemente in San Marco. Il figlio Simone, il maggiore, era affetto da una fastidiosa otite che non gli dava tregua, per cui si sottoponeva alle cure dei monaci del monastero di San Filippo di Demenna, che era la Chiesa di San Marco (Kanisat Sant Marku, come la chiama ‘Al-Sharif ‘al-Idrisi in ‘Al-Kitab al-Rudjari, Il libro di Ruggero), dove le cure praticate erano di certo ambivalenti, consistendo in terapie officinali vere e proprie, ma affiancate, a supporto, anche da orazioni mirate a provocare l’intervento taumaturgico di San Calogero di Calcedonia, che aveva frequentato quei luoghi da eremita e il cui spirito sembrava aleggiare attorno al monastero.
Durante la guida normanna l’insediamento, con tutti i suoi tenimenti, non venne concesso in feudo, così come era prassi costante in quei tempi, ma rimase classificato come bene del Regio Demanio.
Venivano chiamate città demaniali o città regie quegli insediamenti urbani del Regno di Sicilia che non erano sottoposte ad un feudatario, ma appartenevano al demanio regio ed erano, quindi, città di diritto pubblico.
Occorre dire, semplificando, che ai tempi a cui ci stiamo riferendo, il diritto di proprietà veniva suddiviso in due grandi categorie: proprietà demaniale e proprietà allodiale.
Il termine demanio (che comprendeva beni intestati al re o all’imperatore, non già personalmente ut singuli, ma nella funzione di re o imperatore) trae la sua derivazione dalla contrazione del termine latino dominus (padrone-signore) e allude ad una “somma entità ideale” quale titolare del diritto stesso, precisando che il concetto è estremamente elastico, secondo che tale “somma entità ideale” si presenti nella veste di natura regia, oppure oligarchica o, ancora, tirannica, dispotica, poliziesca, democratica, di diritto, ecc.
Gran parte degli studiosi, soprattutto contemporanei, sono del parere che il termine demanio (con l’istituto giuridico, quindi, che ne deriva) sia stato coniato da Federico II, essendo apparso per la prima volta in assoluto, come sostengono, nel Liber Augustalis, nel quale sono raccolte le constitutiones nel corpo delle quali il termine demanium ricorre molto spesso.
Noi dissentiamo dall’ipotesi sopra prospettata, non fosse altro perché il termine in argomento ricorre e, addirittura, con una frequenza maggiore delle constitutiones federiciane, nel Catalogus baronum riferentesi alla dominazione normanna. Il termine, dunque, era correntemente adibito come espressione tecnica nel linguaggio amministrativo dei Normanni, anche se è necessario chiarire che il senso espresso allora era lievemente divaricato rispetto a quello assunto al tempo di Federico II.
Con Federico II il concetto di demanio appare molto vicino, e in modo sorprendente, a quello moderno. Infatti, la città demaniale o regia della Sicilia federiciana percepisce la propria appartenenza al demanio regale come uno stato privilegiato di autonomia e autarchia che, invece, non vengono riconosciute alle entità urbane date in concessione al feudatario. Il patrimonio demaniale è un bene comune, che appartiene a tutta la comunità, in testa alla quale incombe il dovere superiore della sua conservazione e del suo miglioramento, con conseguente divieto di disporne, trattandosi, appunto, di un bene comune del quale non poteva disporre né il re, né l’imperatore. Così, i beni demaniali erano, per definizione, così come sono ai giorni nostri, inalienabili e inusucapibili.
Il termine allodiale (comprendente beni di appartenenza ai patrimoni dei privati) trae la sua derivazione dal termine greco αλλοs (plurale αλλοι): altro, altri (termine, questo, che vuole indicare con altri, tutti gli altri, diversi dal demanio).
In sostanza, la città demaniale godeva di un trattamento più libertario rispetto a quella il cui stato giuridico la portava alla sottomissione ad un feudatario.
Le città regie erano, per molti aspetti, legibus solutae, nel senso che esse si sottraevano alla giurisdizione del vescovo della diocesi di appartenenza, mentre avevano il privilegium di potersi governare in modo autonomo attraverso la c.d. Mastra o Corte Giuratoria, normalmente composta dal Pretore, da un numero variabile (secondo l’importanza della città) di Giurati e dal Capitano Giustiziere: tutti cittadini appartenenti alla stessa città, anche se tali cariche venivano attribuite, salvo pochissime e necessitate eccezioni, a rappresentanti della nobiltà locale.
Era consequenziale che la città regia o demaniale, qual era appunto San Marco, fosse titolare di un vero e proprio corpus privilegiorum, dalla lettera dei quali si possono, in modo estremamente sintetico, enucleare i seguenti principi:
-la città, per regolare la sua vita politica e sociale, godeva del diritto di potere comportarsi secundum consuetudines loci escludendo, quindi, ogni forma di ingerenza esterna, spontanea o de imperio e rifacendosi agli usi e costumi locali provenienti, spesse volte, dalla tradizione orale bocca-orecchio.
-le questioni civili, al contrario di quelle di natura penale, che fossero insorte inter cives, venivano dirempte da giudici appartenenti alla medesima cittadinanza urbana.
Essendo San Marco di natura demaniale, il suo stato giuridico fondava le proprie radici sui principi dianzi illustrati.
Sotto il dominio normanno, l’amministrazione pubblica in Sicilia offriva un funzionamento corretto, ben congegnato e molto efficiente, soprattutto grazie all’intuito dimostrato, in particolare, dai due Ruggero, il Gran Conte e l’altro che noi amiamo chiamare il Gran Re, che assunse il numero cardinale di II.
Costoro, motu proprio, presero la decisione di mantenere in servizio il personale amministrativo, che avevano trovato negli uffici e che era composto prevalentemente da arabi.
Occorre precisare che la scelta non venne fatta ad occhi chiusi, ma obbediva ad un disegno ben preciso. I Normanni erano consapevoli che non possedevano alcuna esperienza nella gestione della cosa pubblica, soprattutto di natura così complessa come, certamente, doveva presentarsi il governo della Sicilia e della Calabria, alle quali si aggiunse, in seguito, la Puglia.
I dipendenti amministrativi saraceni, che avevano temuto un loro licenziamento, per ragioni per così dire successorie, avevano dimostrato gratitudine nei confronti del re normanno e si erano impegnati maggiormente per fare in modo di ricambiare il trattamento migliorando le prestazioni pubbliche della macchina del regno.
Gli Altavilla, senza alcuna discriminazione razziale e contro ogni nepotismo, non solo mantennero gli impiegati al loro posto, quanto predisposero molti incentivi, sia sotto il profilo retributivo, sia sotto quello dell’avanzamento nella carriera.
La stessa strategia gli Altavilla non adottarono per quanto riguarda il riordino del loro esercito. Essi, infatti, avevano fatto in modo di riservare esclusivamente alla gente di origine normanna, con cui avevano conquistato il meridione peninsulare e la Sicilia, l’accesso alla carriera militare per cui il nerbo fondante dell’esercito, con particolare riguardo alla cavalleria che era stata la vera artefice della loro vittoria e della sconfitta saracena (seicento cavalieri normanni furono in grado di sconfiggere l’esercito saraceno formato da migliaia di uomini) era costituito da gente di etnia normanna.
L’insediamento aluntino conserva, ancora oggi, le testimonianze di questo suo passato nobile e antico. Soprattutto, per ciò che riguarda le testimonianze attinenti ai siti di culto che ancora sono visibili nel tessuto dell’edilizia urbana.
Una visita al paese trasmette al visitatore un senso dell’eterno difficilmente avvertibile in altri siti. Man mano che si procede, si avverte fisicamente la presenza del genius o anima loci, una specie di sisma vibratorio che perviene a scuotere il visitatore.
I luoghi di culto, in San Marco d’Alunzio, erano davvero tantissimi secondo i riferimenti storico-letterari. Anche oggi ne sono visibili tanti.
Il primo di tutti, per venerazione storica, è il Tempio d’Eracle; il secondo da elencare è certamente quello del Crasile; e, poi: il Santissimo Salvatore, Maria Santissima Aracoeli, San Giuseppe, Santa Maria dei Poveri, Sant’Antonio, Santi Quaranta Martiri, San Basilio, della Provvidenza, Gesù e Maria, San Giovanni, Tutti i Santi, Sant’Agostino, Madonna della Neve, San Marco, Santissima Annunziata, dei Padri Cappuccini, dei Quattro Santi Dottori, Maria Santissima delle Catene, del Ritiro, Badia Nica, Badia Ranni.
Fu proprio durante il periodo della dominazione sveva che San Marco subisce una specie di capitis deminutio. La storia non registra avvenimenti salienti tali da essere riportati a memoria dei posteri. La vita del centro rientra in una specie di normalità coatta e anonima, tendente quasi verso l’oblio.
In assenza di notizie contrarie, si ritiene che San Marco abbia continuato ad appartenere al Regio Demanio. Solo un autore (Francesco San Martino De Spucches, La storia dei Feudi e dei Titoli Nobiliari in Sicilia, Palermo 1924-1941) ha sostenuto che San Marco fosse diventato terra feudale appartenuta a tale Ruggero Rosso.
La notizia è troppo isolata e sprovvista di alcun puntello storico, sia sulla natura amministrativa e stato giuridico del centro, sia sulla biografia del personaggio che avrebbe posseduto l’insediamento, per potere sostenere la fuoruscita del centro dal Demanio Regio
Quello che conosciamo del centro, è che San Marco diventa città feudale sotto i re Aragonesi e che il suo primo signore fu Garcia Sancho de Esur. A seguire, ricordiamo: Federico, figlio di Sancio, Sanciolo figlio di Federico, Vinciguerra fratello di Sanciolo, Federico figlio di Vinciguerra, Abbo Filingeri Alcade di Cefalù, Riccardo figlio di Abbo, Francesco figlio di Riccardo, Riccardo figlio di Francesco. Come si vede, a partire da un certo momento la storia del paese si confonde e naviga di conserva con la storia della famiglia Filingeri.
Occorre giungere sino al 1861, più precisamente al 18 marzo, a seguito della proclamazione dell’Unità d’Italia, epoca in cui San Marco decide di cambiare la propria denominazione onomastica ed assumere, per volontà del popolo di San Marco e, per esso, del suo Consiglio Comunale, un appositivo che avrebbe testimoniato dinanzi a tutto il popolo italiano, il suo glorioso passato storico.
Fu così che il Consiglio Comunale adottò la delibera tramite la quale si decideva che il centro si sarebbe chiamato San Marco d’Alunzio.
La relativa pratica fu avviata attraverso i legittimi canali burocratici e con Regio Decreto n. 955 del 26 ottobre 1862, il re d’Italia, Vittorio Emanuele II, su proposta del Ministro degli Interni, Urbano Rattazzi, autorizzava il Comune di San Marco (Messina) ad assumere la denominazione di San Marco d’Alfonsio (con la “s”) in conformità alla deliberazione di quel Consiglio comunale del 30 luglio 1862.
Possiamo riuscire ad immaginare la delusione del popolo di San Marco nell’apprendere che l’appositivo consisteva in quel “d’Alfonsio” che non ha alcun senso storico e, soprattutto che nulla a che vedere con la storia della comunità.
Il Consiglio Comunale di San Marco d’Alfonsio fu costretto a riunirsi di nuovo, per la risoluzione di tale problema, e chiedere la mutazione della denominazione errata in quella corretta di San Marco d’Alunzio.
Con Regio Decreto n. 4049 del 10 novembre 1867, il re d’Italia, Vittorio Emanuele (omessa la numerazione cardinale), su proposta del Ministro degli Interni, Gualterio, considerando essere in corso un errore nell’emanazione del Decreto n.955 del 26 ottobre 1862, per cui a vece di San Marco d’Alunzio, venne scritto San Marco d’Alfonzio (con la “zeta”) …(omissis)…, il Comune di San Marco, in provincia di Messina, è autorizzato ad assumere la denominazione di San Marco d’Alunzio, a vece di quella di San Marco d’Alfonzio (sempre con la “z”).
In conclusione, per una disattenzione del Ministero degli Interni, l’antica ALUNZIO fu costretta a chiamarsi San Marco D’Alfonsio per lunghissimi cinque anni, dal 26 ottobre 1862 al 10 novembre 1867.
Occorre giungere sino all’anno 1929, precisamente all’ 11 aprile, perché il nome dell’insediamento venga letteralmente cancellato, addirittura, per soppressione del Comune, in virtù del R.D. n. 264 del 28 gennaio 1929, tramite il quale venivano aggregati al Comune di Sant’Agata di Militello i territori dei soppressi Comuni di Militello Rosmarino e San Marco d’Alunzio in provincia di Messina.
In data 22 dicembre 1932 con R.D. n. 1775, venivano ricostituiti i comuni di Militello Rosmarino e San Marco d’Alunzio a seguito del distacco dei territori dal Comune di Sant’Agata di Militello in provincia di Messina.
La parentesi cronologica delimitata dagli anni 1929-1932 (Soppressione-Ricostituzione del Comune di San Marco d’Alunzio) della vita civica dell’insediamento aluntino, meriterebbe, in verità, uno studio a parte in modo analitico per la ricostruzione degli avvenimenti attinenti.
In questa sede, al fine di non debordare e andare extra sedem materiae, ci si limita a dire che il popolo aluntino, fiero ed orgoglioso quale esso é, in occasione della soppressione del Comune, si mise in stato di agitazione pubblica giungendo anche ad atti di vera e propria ribellione, al punto che i promotori dell’insurrezione aluntina finirono anche sotto processo.
Con riferimento a tali ultimi avvenimenti, ho il ricordo personale dell’amico, Peppino Castrovinci, passato a miglior vita, che mi raccontava che un Aluntino, evidentemente dotato di vena poetica-musicale, ebbe a scrivere una canzone dal titolo “Aluntini inespugnati”.
Altri avvenimenti, per chiudere questo breve excursus sulla storia dell’insediamento attraverso le denominazioni assunte nella successione dei periodi storici, riguardano circostanze più recenti della vita del Comune.
In data 8 luglio 1980, con D.P. n. 102, pubblicato sulla G.U.R. n. 44 del 4 ottobre 1980, veniva disposto il distacco di una striscia di territorio del Comune di San Marco d’Alunzio in favore del contiguo Comune di Caprileone, frazione amministrativa di Zappulla o Rocca, per consentire alla comunità donataria di potere realizzare una piazza civica, che prima non esisteva, nella frazione di Rocca.
In data 16 novembre 1984, con L.R. n. 96, pubblicato sulla G.U.R. n. 51 del 24 novembre 1984, veniva eretta in Comune autonomo la frazione amministrativa di Torrenova, nel tempo antico Terra del Comune di San Marco d’Alunzio, con conseguente cessione, in favore del neo istituito Comune, di parte del territorio appartenente alla Terra Madre, San Marco d’Alunzio.
Dopo tanti secoli, San Marco d’Alunzio è ancora lì, sul cacumen montis, nella duplice funzione di testimone oculare di un passato glorioso e vigile sentinella per affrontare i tempi che verranno.
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