Statue al monte di Capo d’Orlando: il culto di Sant’Anna e della Madonna della Provvidenza
di Giuseppe Ingrillì
Da sempre, dopo aver affrontato la faticosa scalinata che dà accesso alla chiesa sopra al monte dedicata a Maria SS. di Capo d’Orlando, una volta entrati, l’occhio spazia e si posa in rapida successione: prima in alto sul tetto ligneo, splendida testimonianza gnostica rinascimentale, poi sull’altare centrale orfano della sua più preziosa testimonianza: la statua di Maria SS. di Capo d’Orlando ed infine sulla trifora in pietra in alto a sinistra. E’ su quest’ultima che concentreremo la nostra attenzione, sulla presenza di due statue, dedicate rispettivamente alla madre di Maria, Sant’Anna e l’altra all’amatissima e sua venerata figlia, la Madonna. Le due sacre immagini occupano due arcate a disposizione del cosiddetto “matroneo”, mentre nell’unico spazio libero si trova una barca di legno, possibile devoto riconoscimento di un fedele miracolato in tempi passati di più non sappiamo.
A onor del vero nelle foto più datate, la statua di Maria appare sempre in quella collocazione, a differenza di Sant’Anna, che trova quella posizione solo dopo il suo rinvenimento nel solaio sopra la canonica, durante gli interventi di restauro del 1983. Nessuno a oggi si è chiesto il perché della presenza di quest’ultima statua e dove fosse lo spazio in cui anticamente era venerata. La vicinanza delle due statue pone all’occhio attento del visitatore, un confronto stilistico in cui sono evidenti le differenti forme artistiche. Vi è diversità nel cromatismo del legno, Sant’Anna mostra un incarnato più scuro; il confronto con le vesti rende l’idea di un abbigliamento popolano, lontano dalla regale composizione della sua diletta figlia, con una prevalenza di colore verde per l’abito e dorata per il panneggio e, a completare la composizione, indossa un copricapo bianco; si coglie altresì, la volontà dello scultore nel dare movimento plastico alle mani, che accompagnano lo sguardo dello spettatore al centro della statua, lì dove, nello spazio deputato a centro del sentimento più forte e più puro, cioè il cuore, vi è la presenza di una nicchia vuota, che ospitava, in passato, qualcosa di prezioso. Il gesto è ben calibrato, tanto da essere intuito come una esortazione a rimirare una rivelazione o meraviglia. Essa annuncia per quello che la chiesa l’ha infatti considerata Santa, perché santo è il dono portato e manifesto, la Madonna. Il cromatismo degli abiti che sono la peculiarità degli attributi iconografici della Santità di Sant’Anna non rispecchiano la vera composizione che è rossa per la veste e verde per il mantello, rappresentando così l’amore e la speranza e completandosi con il velo bianco in testa; altri attributi che l’accompagnano e che noi qui non riscontriamo, sono il libro (la Bibbia, che rappresenta l’insegnamento verso Maria, ma anche la conoscenza iniziatica ) e l’albero (riferimento all’albero di Jesse). La giustificazione di questo diverso cromatismo, lo possiamo imputare all’intervento di restauro operato dopo la sua riscoperta.
La statua di Maria è invece rappresentata nella sua veste classica, molto giovanile nei lineamenti, bella e celestiale, come si addice alla figura toccata dallo Spirito Santo, che ne emana la luce e che impreziosisce la visione stessa dello spettatore. Il bambino si trova nella posizione classica in braccio a sinistra, con la veste azzurra, che l’avvicina con le manine quasi a sfiorarle il viso, in un gioco tra madre e figlio che rende viva la composizione, donandogli quel senso di movimento nello spazio immobile della posa. La veste, presenta i colori dell’argento con il drappo azzurro ed un fazzoletto che chiude e completa i paramenti, cingendole la testa e che si appoggia sulle spalle. I due piedi scalzi a vista poggiano su di una nuvola con dei cherubini alati che la sorreggono. Infine, la madre e il bambino portano in testa la stessa corona. La percezione è che Sant’Anna dimori in questi luoghi da più tempo rispetto alla statua della Madonna, così da marcare le due diversità compositive o stilistiche che rimandano a due realizzazioni diverse, in tempi sicuramente diversi. Certo, logica vuole, che le due donne siano strettamente accomunate tra di loro, tanto da essere collocate vicine all’interno della chiesa.
In realtà non è così, la curiosità e la voglia di scoprire, spingono la ricerca in chiave di conoscenza e comprensione. Partiamo dalla madre della “celeste Madre”, così come tanti uomini di chiesa appellano Sant’Anna.
Perché la sua presenza nella chiesa al monte?
Il culto di Sant’Anna, arrivò tardi in Occidente, affermandosi solo alla fine del XV secolo, imposto poi dalle autorità nel 1584. Fa da base al suo arrivo, la necessità da parte dei cristiani d’Oriente, di salvare il corpo della santa da mani profane, affidandola all’ordine dei Carmelitani, che ne curarono il trasferimento in Francia nella Cattedrale di Apt. Anche qui, però, le turbolenze della storia resero necessario nascondere la preziosa reliquia, tanto che il vescovo Auspicio, fece scavare una nicchia all’interno della cattedrale e lì fu murata. Prima però, si volle accendere un lumino in segno di rispetto e profonda devozione all’interno della nicchia, “che l’oscurità, non prenda il sopravvento sulla luce spirituale e rischiari la santità”: questo è il messaggio che cogliamo dalla presenza della luce. Per molti secoli tutto fu occultato tanto bene da essere dimenticato, fino a quando, l’imperatore Carlo Magno si trovò a passare nella città di Apt. Recatosi in cattedrale per la festa del ringraziamento, assistette al miracolo di un muto, che riacquistata la parola, cominciò ad urlare indicando con insistenza una porzione di muro della cattedrale. Riavutisi tutti dallo stupore della grande manifestazione di Dio, si comprese che lì si doveva scavare; dopo i primi colpi nella dura pietra, un bagliore, come di un lumino acceso e il ritrovamento della santa reliquia dentro la nicchia rischiarata. All’interno della bara apparvero i resti sacri con una targhetta d’argento che recitava in lettere greche “Il Cranio di Sant’Anna la Madre della Madre di Dio”. Accorsero i nobili per rendere omaggio alla Santa e per aggiudicarsi all’asta i preziosi resti; fra essi (e questo interessa il nostro racconto) vi era Guglielmo Ventimiglia, che ottenne la maggior parte delle reliquie. In un’epoca in cui religione e magia si mescolavano e procedevano a braccetto, le stesse, erano considerate dei potenti amuleti oltre che dei portafortuna, capaci di proteggere e rendere immuni dalla sfortuna chi li possedeva. In quest’ottica di scambio, i possedimenti in Lorena furono reputati un buon prezzo per il Ventimiglia, che così ottenne la parte anteriore del teschio, la fronte e la mandibola superiore, più qualche altro frammento da incamerare nel patrimonio di famiglia. Questo passaggio risulta fondamentale per la discendenza dei Ventimiglia che nelle vicissitudini della storia, si divisero tra i possedimenti della Liguria e la Sicilia, dove giunsero al seguito dei Normanni, pronti ad approfittare di nuove opportunità e terre. La fortuna e la capacità attribuite al buon acquisto delle reliquie della Santa, contribuiscono nella seconda metà del Trecento, all’avvio di una Signoria potente a capo di un vasto territorio nel periodo dei cosiddetti “Quattro Vicari del Regno di Sicilia”. La loro genia nell’isola grazie a Enrico II Ventimiglia – figlio di Filippo I del Maro – si lega a Isabella contessa di Geraci e Ischia, trasferendo così la propria corte definitivamente dalla Liguria alla Sicilia. Qui Enrico ebbe in feudo diversi territori e vasti possedimenti in Cefalù, dove edificò uno splendido e monumentale palazzo, l’Osterio Magno. Le reliquie della santa seguirono i proprietari spostandosi a Geraci. Nel 1454 il conte Giovanni I Ventimiglia decise di trasferire l’intera corte al castello di Castelbuono, trasferendovi anche il reliquario. Il popolo l’accolse con giubilo e gratitudine, riversando tutta la sua devozione nella Santa, soprattutto perché era la Madre di Maria a cui l’intera cittadina era particolarmente legata. La discendenza Ventimigliana ci accompagna così al terzogenito di Giovanni II, cioè Carlo Ventimiglia (1539-1583), conte di Naso e barone di Regiovanni, che fu nel 1570 gentiluomo di camera di re Filippo II di Spagna e nel 1581 fu nominato cavaliere di San Giacomo della Spada. Occupò la carica di pretore di Palermo negli anni dal 1568 al 1570, di stratigoto di Messina nel 1572, poi elevato a deputato del regno nel 1579 e nel 1582. Inoltre, gli era stato donato dalla corte, con privilegio emanato a Madrid il 2 settembre 1567, un vitalizio di 500 ducati da prelevarsi dalla sacrestia di Palermo. La madre Elisabetta Moncada, morta giovanissima, gli aveva lasciato una rendita annua di 100 once d’oro. “Nel libro dell’Amodei possiamo rintracciare la vasta diffusione del culto alla fine del Seicento. Egli cita infatti miracoli avvenuti nelle Fiandre, in Inghilterra così come in vari paesi siciliani“. Nel prendere possesso delle terre di Naso, il Conte diviene anche signore del castello di Capo d’Orlando, portando con se, con ogni probabilità il culto della protettrice della famiglia Ventimiglia, Sant’Anna, che verrà sicuramente venerata in quello che noi oggi conosciamo solo in parte come castello d’Orlando.
Poco si conosce dell’organizzazione spaziale e architettonica degli ambienti del castello sulla sommità del Capo d’Orlando, possedendo solo frammentarie notizie. Non ci viene in aiuto neanche il Girolamo Lanza nel suo compendio “Fioretti di Naso” che localizza solo una chiesa “diruita sotto la torre maestra“, appellata San Nicola Lo Capo, di antica memoria, ma che nel 1580 è segnata solo da una croce in legno in mezzo alle macerie. A fare da conferma all’incredibile mancanza di una cappella o luogo di preghiera è lo stesso rinvenimento della statuina di Maria SS. di Capo d’Orlando nel 1598, che trova temporanea collocazione nella camera da letto dei guardiani della torre e lì compie il primo prodigioso miracolo. Ad oggi non abbiamo altre testimonianze fino al 1600, anno dell’edificazione di un luogo di culto. Sarebbe opportuno, anzi sollecitiamo, un coinvolgimento dei Licei e dell’Istituto d’Arte di Capo d’Orlando per affrontare e pianificare, di concerto con la Curia e la Parrocchia orlandina, uno studio approfondito sulla statua di Sant’Anna, così da chiarire per amor di verità storica, la documentazione attestante la commissione d’incarico, l’originale allocamento della statua e l’anno della sua realizzazione e il coinvolgimento della bottega incaricata dell’opera.
Dell’altra statua riconosciuta come una Madonna di Trapani, di bella fattura e di giovanile aspetto, abbiamo solo notizie riportate oralmente che la vogliono attribuita ad un devoto abitante di Naso, che la commissionò, o forse realizzò, nei primi mesi del 1926 in conseguenza del furto dell’originale Madonnina venerata fin dal 1598 sul colle. Grazie alla disponibilità di un documento in possesso di Adriana Passaniti, scritto direttamente dal nonno, Basilio Conforto, uno dei cinque fautori dell’Autonomia di Capo d’Orlando dal Comune di Naso, apprendiamo una nuova versione, che retrodata e apre ad altri scenari i motivi della sua realizzazione e il modello che la ispirò. Riportiamo integralmente il testo per darne testimonianza diretta.
“Capo d’Orlando 30 ottobre 1895
Il 28 settembre 1895, accompagnata da un centinaio di devoti e dalla musica paesana, trasportavano processionalmente da Naso a questo Santuario la statua della Nostra Madonna, bellissimamente scolpita in legno da Francesco Tendiglia di Domenico, per suo voto particolare il 21 ottobre detto anno, l’Arciprete Lo Sardo Giuseppe la benediva e il Monsignor Privitera, Vescovo di Patti e veniva esposta nel cuore dei fedeli nel Santuario e sotto il titolo Madonna della Provvidenza. Questo titolo volle la cittadinanza dietro rimostranze del Vescovo, perché non era prudente esporla alla pubblica venerazione sotto lo stesso titolo, che sin dal 1598 si venera la Madonna di Capo d’Orlando.”
Prima di terminare questo breve intervento, teso a riportare in luce e a stimolare lo studio su ciò che ci circonda, ci poniamo una logica domanda in merito allo scritto: è possibile ipotizzare che a suo tempo fu utilizzata l’originale per la Madonna della Provvidenza e in seguito ne divenne il modello per le nuove statuette?
La statua per racconto scritto dal Conforto fu realizzata da Francesco Tendiglia di Domenico per suo voto particolare nel 1895, e cioè quando ancora nella chiesa del monte esisteva l’originale statuina lasciata da San Cono. Ed è sempre il Conforto a riportare che fosse accompagnata per essere allocata al Santuario “la statua della Nostra Madonna“, lasciando intendere che l’autore/scultore prese come riferimento la piccola immagine, realizzandola così dall’originale oggi andato perduto. Proseguendo nel racconto si riafferma ancor di più che “non era prudente esporla alla pubblica venerazione sotto lo stesso titolo, che sin dal 1598 si venera la Madonna di Capo d’Orlando” così, per logica, essendoci già una statua che rispondeva al detto culto, si preferì chiamarla della “Provvidenza”. Il dubbio adesso è: che sia oggi questa l’unica copia dell’originale rubata nel dicembre del 1925 e di cui non esistono immagini o riproduzioni, usata nel 1895 per realizzare la copia che oggi noi guardiamo nella trifora al monte, esattamente trent’anni prima della definitiva scomparsa dell’originale?
Addentrandoci ancor di più nella ricerca, diventa obbligo un raffronto comparativo tra la copia della statua fatta nel 1895 e le tre piccole repliche fatte realizzate al “Maestro” Prof.re Antonino Ugo, oltre che ad utilizzare tornando utili, le immagini tratte dalle varie raffigurazioni che si trovano custodite a Capo d’Orlando e Naso. L’analisi ha così potuto riscontrare un’esatta corrispondenza stilistica, avvalorata dalla similitudine nelle pieghe del panneggio delle vesti e nella corona, oltre che nella posa plastica della Madonna e del bambino. In definitiva, la mancanza di foto o disegni raffiguranti la piccola statua portarono il comitato della festa e i parroci del tempo, Sac. Merendino e Mancari, a replicarne una copia, così da allontanare il pericolo che si perdesse o si intaccasse la tradizione religiosa con la conseguente perdita per una giovane economia appena diventata autonoma, dell’indotto economico della fiera del bestiame del 16 e 17 ottobre e della fiera del 21 e 22 ottobre. (vedi articolo in https://capodorlando.org/siciliantica/12-dicembre-1925-il-furto-del-simulacro-originale-di-maria-ss-di-capo-dorlando, prima parte e seconda parte in https://capodorlando.org/siciliantica/12-dicembre-1925-il-furto-del-simulacro-originale-di-maria-ss-di-capo-dorlando-seconda-parte
Per ovviare e rinnovarne la fede in continuità, si affidarono alla statua della “Provvidenza” come modello ispiratore per commissionare la nuova al Prof. Antonino Ugo, grande e affermato esperto, conosciuto negli ambienti colti di Palermo, fornendo come modello di riferimento proprio quella del Tendiglia.
L’incarico fu dato a maggio del 1926 (vedi articolo in https://capodorlando.org/siciliantica/ottobre-1926-benedizione-della-nuova-statuetta-della-madonnina) per essere completato nelle vicinanza dei festeggiamenti di ottobre 1926, decretando così in maniera oscura la definitiva perdita delle speranze di ritrovare nelle ricerche la preziosa reliquia del 1598.
Bibliografia
E.Begg, “Il misterioso culto delle Madonne nere”, l’Età dell’Acquario. Incudine “Naso Illustrata” Lanza -“Fioretti di Naso” Giuffrè Editore Correnti – “La Sicilia del cinquecento”, Mursia1980 O. Cancila “I Ventimiglia di Geraci (1258-1619)”, Quaderni Mediterranei “La festa di Sant’Anna a Castelbuono” a cura del Comitato festeggiamenti di Castelbuono