Sulla storia leggendaria di un nome: Agatirno-Agatirso
di Michele Manfredi-Gigliotti
Agatirso è un toponimo che si riferisce ad un insediamento urbano di epoca storica che oggi risponde al nome di Capo d’ Orlando. Con il derivato toponimo di AGATIRSIDE veniva, altresì, individuata tutta la cwra sulla quale aveva influenza militare, politica ed economica la città di Agatirso.
Il nome della città non fu sempre questo. In età preistorica (1300 a.C. circa) essa era conosciuta con la denominazione di AGATIRNO. La successiva variante Agatirso non deriva da una corruzione letterale dovuta ad interventi nel testo delle fonti tràdite, come sovente avviene e come potrebbe sembrare a prima vista attesa l’evidente assonanza, ma ha una sua e diversa origine autonoma che può trovare una spiegazione ricorrendo alle fonti del racconto mitologico.
La nascita di Agatirno è strettamente legata all’economia dell’arcipelago delle isole Eolie, che si incentrava, in un primo tempo, sul commercio dell’ossidiana e, di seguito, su quello dello stagno, elemento indispensabile, quest’ultimo, per la lega con il rame al fine della produzione del bronzo. Non è senza una ben precisa ragione che il muqos individua nell’isola di Vulcano la sede dell’officina (calkourgeia, da calkos =rame cui si aggiunge la radice di erg=lavorazione) del dio eponimo. Probabilmente, il messaggio vero, o se si preferisce, storico che il mito racchiude ed adombra e che, in definitiva, vuole tramandare è l’esistenza nell’arcipelago delle isole minori della Sicilia di officine (correttamente, si dovrebbe dire opificine, derivando dal latino opifex=artigiano, la cui matrice, sempre latina, è: opus facere) destinate alla lavorazione del bronzo. Che di un artigiano bravissimo, ancora oggi, si dica che lavora da dio è patrimonio espressivo di acquisizione demotica di tutti i giorni. Da qui a creare un dio come Vulcano, per i tempi ai quali ci stiamo riferendo, il passo non è solo breve, quanto, oseremmo dire, dovuto.
E’ facilmente intuibile come lo specchio d’acqua antistante le isole Eolie e racchiuso tra queste e la costa di Agatirno fosse intersecato da un continuo andirivieni di navi onerarie portatrici di commerci fiorenti e lucrosi. E’ altrettanto facilmente intuibile che, una volta fondata Agatirno, la città si sia trovata nel mezzo di tale flusso commerciale con tutti i vantaggi derivati e derivabili.
A questo punto, il racconto mitico (Diodoro Siculo, Biblioteca, V, 7) ci dice che il figlio del re Auson, a nome Liparo, venuto in lite con i fratelli, abbandonò l’Italia e si stabilì nell’isola che, da lui, prese il nome di Lipara. Morto Liparo, gli successe sul trono il figlio di Ippote, Eolo, che era suo genero avendone sposato la figlia Ciane. Sappiamo pure che presso la reggia di Eolo fu ospitato Ulisse (Omero, Odissea, X) peregrino per il Mediterraneo contro il suo volere. Eolo generò sei figli (Xouthos, Pheraimon, Astiokos, Androkles, Iokastos e Agathirnos) i quali, abbandonata la Madre Patria, conquistarono molte terre dell’Isola di Sicilia che governarono con saggezza (eunomia). In particolare, Agatirno, sbarcato sulle coste della Trinacria, che si trovavano dirimpetto alle Eolie, fondò la città che da lui prese la denominazione di Agathirnon. Il mito racchiude una importante verità storica e, cioè, che le primitive popolazioni delle isole minori, probabilmente autoctone, ma con fortissimi innesti demografici micenei (Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci), furono interessate da varie invasioni, di cui la prima, certamente, ad opera degli Ausoni (Liparo, figlio del re Auson), cui conseguì quella importantissima dei Greci (Eolo, figlio di Ippote di stirpe ellenica). Con Eolo le Isole minori ritornavano, dopo l’intermezzo ausonico, alla vecchia matrice ellenica.
Un episodio, nella storia di Agatirno, risulta, ancora oggi, essere alquanto inquietante, temporalmente riferibile all’indomani della disfatta dei Cartaginesi ad Agrigento. Il rappresentante di Roma, console Levino, dopo avere compensato gli alleati (foederati) e punito coloro che si erano schierati con il nemico (proditores), aveva invitato i Siciliani a dedicarsi alla coltura del grano, tanto necessario per la capitale, anzicchè all’arte della guerra. Si rammenta, en passant, che in altre occasioni l’Urbe eterna aveva vietato, in Sicilia, la coltivazione della vite.
Orbene, il racconto mitico narra che, passando da Agatirno, Levino si era accorto che la città era popolata da una moltitudine di individui di malaffare, dediti alle grassazioni, ruberie, rapine e omicidi, per cui decise, lì per lì, di deportarli tutti nel Bruzio (odierna Calabria). Raccolse, così, quattromila uomini e li trasferì nel territorio di Reggio nel Bruzio (Livio, XXVI), avendo i Reggini bisogno di malavitosi per indirizzarli alle razzie.
La fonte informativa storico-letteraria è, senz’altro, autorevole e non v’è motivo alcuno per dubitare della fondatezza della notizia. Ciò, però, che insospettisce alquanto è l’eccezionale emorragia demografica, che, in verità, conta pochissimi precedenti (quattromila uomini in un solo colpo è una cifra impressionante, mettendo doverosamente in rapporto tale entità numerica con la densità demografica territoriale vigente allora) provocata dal console romano per una causa (delinquenza e delinquibilità della popolazione) a cui si sarebbe potuto ovviare in altri modi più consoni alle leggi allora vigenti.
Un occhio storico esperto non può non vedere nell’episodio motivazioni profondamente diverse da quelle ufficiali. La decisione estrema di spostare una massa di uomini così imponente poteva essere giustificata solo se Agatirno si fosse rivelata una sede di riti misterici, ermetici ed occulti quali erano quelli dionisiaci, intorno ai quali poco sapevano e molto inventavano i non iniziati e che erano guardati con grandissima preoccupazione dalla Capitale, al punto che ad essi venne dedicato il famoso senatusconsultum de Bacchanalibus. Il senatusconsultum è da considerarsi una delle fonti primarie dello jus di Roma, in quanto promanante dal Senatus Populi Romanorum, che era l’Organo collegiale depositario della sovranità popolare e, quindi, organo nomotetico per eccellenza.
Oggi conosciamo il testo di questo provvedimento legislativo, in particolare, in quanto una sua copia è stata scoperta, incisa su una tavoletta bronzea, durante alcuni scavi archeologici in territorio di Tiriolo (non già Teriniolo, quasi Piccola Terina, come alcuni sprovveduti intendono) in provincia di Catanzaro. Siamo, quindi, stati messi nelle condizioni di conoscere il contenuto normativo del senatusconsultum , anche se dobbiamo aggiungere, per la verità, che si ha il fondato sospetto che il testo tiriolese abbia subito qualche manipolazione probabilmente per adattarne la norma ad esigenze locali. In ogni caso, sappiamo che, attraverso questa disposizione normativa, Roma reprimeva i Baccanali, ossia l’effettuazione di feste notturne in onore di Bacco (omologo latino di Dioniso), le quali, secondo le accuse dei Consoli, degeneravano in orge scandalose. La sanzione per chi violava le norme contenute nel senatusconsultum di cui si argomenta era estrema e senza appello, essendo comminata l’irrogazione della pena capitale.
Se questo era, dunque, il rigore ufficiale con cui si giudicavano, e punivano, i seguaci di questo Dio, diventa comprensibile e giustificabile che Levino, trovandosi di fronte a manifestazioni così estese di venerazione dionisiaca, abbia potuto spostare una intera popolazione da una regione ad un’altra.
Queste, dunque, in sintesi, sono le origini mitiche di Capo d’Orlando, il cui sito viene concordemente ubicato nella località ove oggi giorno è posta la contrada San Martino.
Però, come abbiamo avuto modo di accennare, l’insediamento storico è anche conosciuto con il toponimo di Agatirso.
La denominazione, come abbiamo visto prima, pur evocando quella primigenia, non è a questa etimologicamente legata, né ne rappresenta una corruzione letterale, ma ha una sua propria autonomia. L’insediamento sarebbe stato chiamato Agatirso in dipendenza della sua allocazione all’interno di quella vasta area geografica, coincidente pressappoco con i monti oggi detti Nebrodi, che aveva preso la denominazione di Agatirside per via della propagazione del culto di Dioniso, il Dio venuto dall’oriente.
Che la penetrazione nel sito della religione facente capo a Dioniso sia postuma rispetto alla deduzione della città da parte di Agatirno non è questione pacifica tra gli studiosi, ma è fondatamente ipotizzabile, con alto grado di probabilità storica, che il culto dionisiaco si sia innestato su altri culti preesistenti (skeuomorfismo di Albright) sui quali avrebbe assunto, però, una funzione di capofila e preminenza raggiungendo un altissimo grado di diffusione che avrebbe interessato non solo i limiti dell’insediamento urbano, ma tutta la sua cwra.
In questo senso, la denominazione Agatirso (da agw=portare e Qursos =bastone e, quindi, tirso: portatore di tirso, che altro non è se non l’emblema totemico del Dio costituito da una specie di caduceo avvinghiato da un pampano di vite rampicante).
Tutt’ oggi l’area di Capo d’Orlando, in una con alcuni lembi contigui del territorio di Naso, vive, attraverso i suoi toponimi, questa atmosfera magica. Le denominazioni, attualmente vigenti nella odierna toponomastica, cittadina e agreste, altro non sono se non testimonianze del passaggio del Dio, a partire dalla denominazione dell’insediamento urbano, che sopra abbiamo esaminato, per finire a:
- I monti Nebrodi. Rappresentano l’ideale continuazione orografica dell’Appennino continentale. La radice etimologica (etumos =vero) è supportata dal sostantivo nebros =cerbiatto. Nebrwdhs , risulta attestato per la prima volta nell’Antologia Palatina e significa simile al cerbiatto, quale attributo del Dio (Nino Damiano, Dal Capo Agatirno ai Monti Nebrodi al Valdemone al Capo d’Orlando), che in più di una occasione viene definito Nebrwdhs . Il termine allude ad una delle due parti anatomiche di natura zoomorfa del Dio, il quale viene iconograficamente rappresentato come anguicrinito e cornuto (e, precisamente con due piccole attribuzioni cornee da cerbiatto, animale a lui sacro e diffusissimo un tempo su questi monti).
- La contrada Scafa (in cui sono venuti alla luce importanti reperti archeologici retrodatabili al XII secolo a.C.) deriva dal termine greco skafos, participio da skaptw=scavare e, dunque, scavato-vasca in genere, ma vasca per la pigiatura dell’uva, ovverosia palmento, in particolare. Il termine ricorda un passaggio importantissimo dell’iter di vinificazione al quale liturgicamente presiedeva sempre il Dio.
- La rocca della Sciamma , toponimo antichissimo di Capo d’Orlando, deriva dal greco skamma=grotta, discendente, a sua volta, dal verbo skaptw=scavare, come si è avuto modo di vedere in precedenza. Al contrario di tante altre, anche nella medesima zona, esistenti per aceiropoiesi (=senza l’intervento della mano dell’uomo), questa grotta risulta ricavata per ceiropoiesi (=manifattura), quindi, per opera dell’uomo, tramite scavo della roccia e, di conseguenza, per opera mirata ad una specifica finalità, la quale risulta palese ed evidente analizzando il suo arredo interno. Contiene, infatti, due vasche litiche, anch’esse scavate nella medesima roccia nella quale sono naturalmente incorporate, di cui una per la pigiatura dell’uva e l’altra per la fermentazione del mosto, secondo quanto attesta Damiano (cit.supra).
- Il torrente Manazza, che scorre in territorio di Capo d’Orlando, è un idronimo che deriva il suo etimo da mainomai (ma, anche, mainw) = infuriarsi, essere invasati, con evidente riferimento alla trance in cui cadevano i seguaci del Dio durante le danze e i pasti rituali. Da questa comune radice deriva anche il termine mainades =menadi. Il regime torrentizio del corso idrico sembra giustificare la denominazione.
- La contrada Maina è sita nel territorio municipale del comune di Naso, quasi incollata, però, a Capo d’Orlando. Dall’evidenza linguistica, il toponimo sembrerebbe, tout court, derivare dal precedente mainomai (o mainw), ipotesi che qui non viene contestata, ma alla quale viene aggiunta la seguente, a riprova della derivazione greca del toponimo stesso. Mani o, ambivalentemente, Maina, era, ed è tuttora, la regione estrema del Peloponneso greco. Più precisamente della Laconia (Lakwnikh), di cui era capitale Sparta (Lakedaimwn). La regione ci interessa e ci è nota, poiché da essa, secondo uno studioso (Ivan Dujcev, Cronaca di Monemvasia) fuggì, pressato dall’avanzata degli Avari e Slavi, un contingente di Laconi, o Lacedemoni o Demenniti che, approdato sulle coste settentrionali della Sicilia, si fermò nella contigua Alunzio a cui essi diedero il nome di Demenna (e Demenniti furono detti i suoi abitanti) prima che Ruggero d’Altavilla, il Granconte, la chiamasse San Marco in omaggio a San Marco Argentano nel Bruzio da dove era iniziata la sua fortunata conquista del Meridione italico continentale e insulare. Sempre dal riferito etnonimico è derivata la denominazione del più orientale dei Valli, il Valdemone, in cui gli Arabi suddivisero la Sicilia (gli altri due erano: il Val di Noto e il Val di Mazara).
- La contrada Catutè, dal greco kata=giù e odos =strada, discesa. “Contrada attraversata da una strada che dai pressi di San Martino, dopo una parte di percorso pianeggiante, scende verso la pianura alluvionale di Capo d’Orlando” (V. Sardo Infirri, Vagando per il Valdemone). Ma, anche e più semplicemente, aggiungiamo noi, da kata wdew=andare giù.
- La contrada Certari o Certiri, dal greco karteros =luogo fortificato. Secondo le supposizioni di Sardo Infirri (cit.), qui i Romani costruirono le fortificazioni per controllare il territorio e la città di Agatirno, che sorgeva più a valle presso l’attuale contrada San Martino.
- La contrada Muscàle, dal greco mascalh=ascella (secondo la traduzione letterale), ma, poi, ala rientrante di promontorio. “Contrada presso la stazione ferroviaria, che si estende sotto una rientranza collinare riparata dal Capo d’Orlando” (Sardo Infirri, cit. supra).
- La fonte Lia. Con questo idronimo i naturali del luogo sono soliti indicare una sorgente d’acqua nel territorio di Capo d’Orlando. Dioniso, tra gli innumerevoli appellativi a lui attribuiti, era anche detto Lieo, aggettivo che discende da luw=sciogliere. E’ evidente il riferimento alla potestà che aveva il Dio di liberare dagli affanni e da ogni elemento perturbatore della psiche indicando, attraverso la follia mantica, la strada della vera sapienza. Questa prerogativa salvifica e salutare viene attribuita alla fonte anche ai nostri giorni, se è vero, come sembra e come attesta Damiano (cit. supra) che i nativi attribuiscono alle sue acque un potere litolitico, ossia di scioglimento dei calcoli renali.
- La contrada Colliri. E’ ubicata nel limitrofo territorio della città di Naso dalla quale, un tempo, Capo d’Orlando dipendeva amministrativamente. Se si pone mente al fatto che alcune sacerdotesse di Dioniso erano dette Colliroe, non si può non provare un certo turbamento per l’atmosfera piena di religiosa magia che ancora oggi aleggia, attraverso i toponimi, in questi luoghi. Da quest’ultima considerazione discendono, allo stesso modo matematico con cui da un teorema discende il suo naturale corollario, alcune brevi e conclusive considerazioni su un altro toponimo del Capo:
- La contrada San Martino. E’ una tra le contrade più belle, popolose e meglio esposte di Capo d’Orlando ed è quella in cui più di un Autore ha visto il sito dell’antica Agatirno o Agatirso che dir si voglia. E’, quindi, l’erede (oseremmo definirlo, a causa di un tentatore lapsus freudiano, testamentario) dell’antico insediamento urbano che ha visto fiorire e prosperare il culto dionisiaco. Il toponimo è, come ognuno intende, un agionimico che si riferisce ad uno dei Santi cristiani più amati e dal culto più diffuso, Martino di Tours, il cui anniversario cade, ogni undici di novembre, in concomitanza con la pratica della prima, rituale vinificazione stagionale. Molti di noi ricordano come i nostri vecchi, in occasione dell’assaggio delle primizie stagionali della terra, avessero l’abitudine di dire “In nome di Gesù”, che, a ben guardare, altro non è se non il retaggio dell’offerta delle primizie alle divinità pagane. A questo punto, si potrebbe pure ipotizzare (absit iniuria verbis) che la denominazione toponomastica di derivazione cristiana sia stata determinata da un intento ben preciso, quasi un calcolo fatto a tavolino e, cioè, quello di cancellare il ricordo di un Dio pagano “falso e bugiardo”, innestando nel culto preesistente quello di un Santo cristiano che la credenza popolare ritenga esserne l’esatto omologo, così come, del resto, è avvenuto in moltissimi paesi della Sicilia nei quali un radicato, vecchio culto pagano ha mantenuto le proprie ritualità salienti, rivivendo nella tradizione liturgica popolare cristiana (fenomeno che, come abbiamo sopra accennato, è conosciuto con il termine di skeuomorfismo e che si ha quando un nuovo credo religioso soppianta uno più antico non cancellandolo totalmente, ma mantenendone le peculiarità principali).
Per tale fenomeno di conservazione religiosa, Dioniso è diventato, nel calendario agionimico cristiano, San Dionigi, mantenendo, tuttora, non solo il suo legame con Nasso, quanto il suo patrocinio sul vino. Artemide degli Efesini ha mutato sesso ed è divenuta Sant’Artemido, guaritore, per una sottile legge del contrappasso, dei bambini malaticci, mentre la dea greca era la causa, tramite le sue ancelle, della loro malattia. Demetra è diventata San Demetrio che -udite! udite!- è un patrono delle messi e della fertilità della terra. Il Dio Sole, Helios, è diventato il profeta Elia; quest’ultimo scritto nella lingua greca mantiene la “acca” iniziale. Hermes, con qualche piccola operazione di chirurgia plastica (l’elmo ha cambiato forma; le ali sono state posizionate diversamente; i serpenti e le penne del caduceo sono diventati una spada fiammeggiante), è diventato San Michele Arcangelo. E l’elenco potrebbe ancora continuare.
Possiamo ricordare, infine, senza con questo volere intraprendere un elenco esaustivo, che la maggior parte delle feste popolari cristiane presentano nel loro elemento liturgico forti connotazioni di origine pagana, come è possibile osservare, ai nostri giorni, a San Michele di Ganzaria, Catania, Trapani, Siracusa, Capizzi, Petralia, Alcara Li Fusi, San Marco d’Alunzio.
Anche a Capo d’Orlando, San Martino… per dimenticare Dioniso.
Bibliografia
B. Brea “La Sicilia prima dei Greci” Milano
N. Damiano “Dal Capo Agatirno ai Monti Nebrodi al Val Demone al Capo d’Orlando” Archeoclub d’Italia, Capo d’Orlando
I. Dujcev “Cronaca di Monenvasia”, Palermo
V. Sardo Infirri “Vagando per il Valdemone”, Capo d’Orlando