Il culto Dionisiaco
di Michele Manfredi-Gigliotti
Se si guarda al panorama degli dei della Grecia, subito si percepisce che Dioniso è un dio diverso da tutti gli altri. Quando egli si presenta alla porta del πανΘεων (panteon) dell’Ellade, dove approda per la prima volta proveniente dall’Oriente, provoca un vero e proprio sisma religioso.
I credi e i riti olimpici tremano dalle fondamenta più profonde. Si ripete lo stesso fenomeno che si ebbe, riguardo ad un’altra religione iniziatica, al momento della introduzione dei μυστήρια (musteria: culto di iniziazione) di Eleusi.
Eppure, in entrambi i casi, non si avvertono crisi di insofferenza o di rigetto se non su registri eccezionali e a carattere locale. Il ricettacolo politeista e panteista greco era in grado di reperire uno spazio vitale a qualsiasi tipo di religione, anche se, bisogna riconoscerlo, non fu capace di fagocitare e metabolizzare del tutto i due riti misterici e iniziatici che mantennero sempre una loro spiccata aseità.
Nel vaso c. d. Francois, rinvenuto a Vulci (Etruria) in un ripostiglio ceramico-buccherale, si vede dipinto un carro sul quale prende posto l’intero pantheon degli dei di Olimpia, per lo più onomasticamente revirginati e ribattezzati, mentre a parte e a piedi, seguono Dioniso, Demetra e Kore.
Anche il mondo epico-eroico di Omero guarda con diffidenza, anzi, per essere precisi, non guarda per niente alle pratiche del culto dionisiaco, assolutamente incomprensibili per la sua mentalità. Gli eroi omerici sono tutti orientati, sotto il profilo religioso, verso Olimpia.
La religiosità estatico-orgiastica tipica di questo culto non è riuscita a penetrare appieno nella società greca di allora, molto tradizionale ed ostica alle trasformazioni radicali e, quindi, non preparata ad accogliere una novità così forte e, soprattutto, sconvolgente i vecchi canoni.
Nel mondo romano, poi, nel quale il culto del dio fu portato dai “Greci d’Occidente”, esso ebbe una sorte addirittura peggiore. I Romani non solo furono diffidenti nei confronti di questa ritualità sui generis, quanto posero in essere veri e propri rimedi legislativi.
Famosissimo, su tutti, il Senatus consultum de Bacchanalibus (provvedimento legislativo che vietava i riti orgiastici), il cui testo inciso su una lamina di rame venuta alla luce a Tiriolo, vicino Catanzaro, ci dice che appartenere alla religione dionisiaca era considerato alla stregua di una vera e propria condotta criminosa sanzionata con la morte.
Come si è detto, Dioniso arrivò in Grecia proveniente da terre lontane, poste all’Oriente, come attesta in modo inequivoco l’etimo del nome: Διόνυσος (Dionusos) che agevolmente può scindersi in Θεός (teos) e Nῡsηs (Nuses), il dio di Nisa o Niso.
Era un dio venerato, dunque, a Niso (così erano chiamati svariati monti) e a Nisa, nome di altrettante svariate città, tutte ad oriente della Grecia.
E i riferimenti non finiscono qui.
Secondo la mitologia greca, infatti, Nisa si chiamava anche la ninfa che aveva nutrito il giovane Dioniso. Anche se la sezionatura onomastica è, diciamo, etimologicamente riuscita, restano, però, ancora molti e fondati dubbi sulla individuazione esatta del luogo dal quale la divinità, vero e proprio migrante dei tempi antichi, è stata esportata.
Gli studiosi che circoscrivono la provenienza del dio alla Tracia o alla Lidia sono legione. Fermo restando la probabile fondatezza della riportata individuazione, appare opportuno, tuttavia, sottolineare che, a sostegno di tale tesi non vengono addotti elementi logico-storico-mitologici tali da consentirci di esaminarne il percorso mentale.
I risultati, infatti, sono più il portato di un intuito professionale, certamente rispettabile, che l’approdo di una ricerca scientifica. Qui si intende richiamare l’attenzione (e non altro) sulla circostanza che un’altra terra orientale è fortemente e fondatamente candidata ad assumere la titolarità dell’espatrio di questa divinità.
E’ noto che uno degli elementi fondanti la ritualità dionisiaca sia costituito dall’oιnos (oinos), il vino, propellente necessario al raggiungimento della follia sapienziale. Orbene, se per un verso si ha la ragionevole certezza della provenienza orientale del dio, non si può, altrettanto ragione- volmente, prescindere, per altro verso, dal fatto che nel luogo di provenienza dovesse neces- sariamente essere radicata una forte e consolidata tradizione culturale della vite e della produzione enologica.
Ad ulteriore supporto della epicentrica importanza del vino in questa ritualità, si rammenta che il simbolo araldico-totemico del dio è rappresentato dal Θύρσοs (tursos), il tirso, portato dalle menadi e costituito da un bastone adornato di pampini, edera e con in cima una pigna.
La coltivazione della vite, con la conseguente lavorazione del suo frutto per produrre il vino, è stata pratica diffusa presso quasi tutti i popoli e la civiltà del bacino del Mediterraneo, anche se con retrodatazioni diverse. Le fonti storiche, tuttavia, e non solo le fonti storiche, sembrano indicare decisamente una terra come antesignana di questo tipo di agricoltura: la Georgia, regione caucasica, corrispondente alla mitica Colchide (Koλκís) (Colchis), antica denominazione della regione della costa asiatica del Ponto Eusino, alla volta della quale partirono, alla ricerca del fantastico (ma non tanto) vello d’oro (1), gli Argonauti capeggiati da Giasone.
E’ dato storico tràdito dalle fonti letterarie e pacificamente riconosciuto, anche per l’apporto dei risultati archeologici, che in Georgia la viticoltura venisse già praticata a partire dall’VIII millennio prima della nascita di Cristo. E’ molto probabile, quindi, che in questa terra di vinificatori Dioniso diventi la “proiezione” sovrannaturale dei desideri, delle speranze, delle virtù di quegli uomini. Diffusosi e consolidatosi, così, il culto del dio, la sua emigrazione verso le terre occidentali, la Grecia, prima, e il sistema delle αποικιαι (2) (apoichiai) greche, poi, è una conseguenza ineluttabile della tessitura delle fitte ragnatele commerciali e federative tra queste terre.
Il viaggio degli Argonauti di Giasone, come si è visto, al di là della pura e semplice narrazione mitologica, sottintende, sotto il profilo squisitamente storico, la ricerca di punti di contatto tra occidente e oriente al fine di instaurare rapporti di scambio di merci e beni di consumo in genere.
In tale quadro storico, sarebbe fortemente fuorviante non ipotizzare, come fondatamente probabile, anche un flusso commerciale di ritorno, ossia con direzione oriente-occidente, ovverosia Colchide-Grecia. Lo stesso mito del vello d’oro, come già si è detto, al di là della architettura mitologica realizzata con toni epico-eroici altro non è se non l’attestazione sul piano storico della conclusione di una transazione commerciale.
Per quanto abbiamo detto, il vello d’oro non rappresenta affatto una creazione del mito, ma una realtà storicamente esistita, semmai enfatizzata dal mito. Se, dunque, tra Grecia e Colchide si era instaurato un flusso commerciale di andata e ritorno, è facile immaginare come il contatto etnico tra mondi politeisti, abbia potuto facilitare e promuovere la mutualità e lo scambio, oltre che di merci, anche di divinità come spesso avveniva nel mondo antico.
Il filo conduttore della penetrazione geografica, per quello che ci riguarda, in tutta l’Europa di questa religione misterico-iniziatica, è costituito, a ben guardare, dal correlato diffondersi della viticoltura e, di conseguenza, dalla pratica della vinificazione. Ciò è anche confermato dal fatto che l’affermarsi del culto è avvenuto simultaneamente all’affermarsi della supremazia del vino sulle altre bevande inebrianti. Dioniso, secondo la versione mitologica più accreditata, è nato da un matrimonio misto e, precisamente, dall’unione del re degli dei, Zeus, con una mortale, Semele, figlia, a sua volta, di una coppia celebre dell’antichità, Cadmo e Armonia.
Questo tipo di unione non era eccezionale, essendo pratica quasi costante che un dio si congiungesse con una mortale o, anche viceversa, che un mortale si congiungesse con una dea, anche se la seconda ipotesi si verificava con minore frequenza per quella legge naturale che i Latini riassunsero nel noto brocardo mater semper certa est, pater nunquam: una donna poteva sempre dire di essere stata fecondata da un dio; più difficile, al contrario, per un uomo sostenere di essere giaciuto con una dea. Parecchie grandi religioni, tra le quali lo stesso Cristianesimo, non riuscirono a restare immuni dal fascino dell’intervento divino per spiegare la nascita dell’Uomo-Dio. In particolare, il Cristianesimo fu fortemente influenzato dalla religione dionisiaca anche riguardo ad altri aspetti precipuamente teologici e misterici, come:
1) La morte e la resurrezione, non solo dell’elemento spirituale dell’entità uomo, ma anche dell’ elemento fisico e appariscente. Di tale dogma fideistico il rito dionisiaco è stato un precursore. Dioniso viene ucciso dai Titani, che ne divorano le carni, ma viene riportato in vita dall’intervento della nonna, Rea. La compartecipazione alla natura divina e a quella umana importa la morte corporale, comune a tutti i mortali, e la rinascita dell’anima nella vita eterna, comune alla natura divina.
2) La doppia natura del dio. Dioniso è Zagreo (Zαγρεύs) (Zagreus), ossia grande cacciatore, ma è, anche, Nebrodense, ossia, una preda, in quanto simile al cerbiatto (νεβρώδηs) (Nebrodes). Dioniso= cacciatore-preda; Cristo= Dio-Uomo.
3) La teofagia Θεός (teos)=dio e φαγέιν (fagheein) – da έδω (edo)= mangiare. Per il rito dionisiaco, la teofagia ha carattere di episodio unico e di cannibalismo vero e proprio, mentre per quello cristiano è salvifica, simbolica, incruenta e, per questo, iterativa.
4) L’uso rituale di due sostanze simboliche. Il rito dionisiaco prevede l’uso della carne e del vino, elementi che restano sempre, rispettivamente, carne e vino. Il rito cristiano si fonda sull’uso del vino e, al posto della carne, del pane.
Questi due elementi, però, subiscono una transustanziazione e diventano il sangue e il corpo di Cristo. L’uso del pane nel rito cristiano, che simbolicamente, però, rappresenta la carne di Cristo, è un chiaro riferimento ai misteri eleusini, nei cui riti, in un primo tempo, si adoperavano le spighe del grano e, poi, il pane, il quale ultimo veniva dal sacerdote pagano “elevato”, così come l’officiante cristiano solleva l’ostia, nella parte del tempio a ciò destinata, il τελεστήριoν (telesterion).
A quest’ultimo proposito, ricordiamo che, in un paesino degli Abruzzi, Pratola Peligna, in provincia dell’Aquila, si pratica, durante la celebrazione degli sponsali, un rito che proviene dritto, senza contaminazioni di sorta, dai riti misterici di Eleusi.
La madre dello sposo attende, dinanzi la porta di casa, l’arrivo della sposa, tenendo sollevato sulla testa, a braccia tese, un pane che, poi, viene poggiato sulla testa della nubenda e, con una leggera pressione, viene spezzato.
5) Lo zoomorfismo. Il richiamo costante effettuato dal Cristianesimo al suo Fondatore, Cristo, l’Uomo-Dio, inteso come Agnus Dei, Agnello di Dio, è un riferimento fin troppo evidente, speculare e simmetrico allo zoomorfismo dionisiaco, all’interno del quale muta soltanto la specie animale, pur se nella identica mansuetudine di entrambe le specie, l’agnello e il cerbiatto. Procedendo storicamente a ritroso, l’Agnus Dei non è forse la traduzione latina del νεβρόs (nebros) Θεoῦ (teu), (cerbiatto del Dio) greco?
6) Il divieto di mangiare carne. Il precetto, consistente in un non facere, deriva in modo evidente dal divieto imposto dalla religione orfica di mangiare carne. L’orfismo basava il proprio credo sul vegetarianismo, ritenendo immorale e, addirittura, infettivo cibarsi del corpo di un altro essere vivente. La carne doveva essere assolutamente bandita, sia cotta che, ipotesi orripilante, cruda. Tale divieto è stato mantenuto nel corredo precettivo del Cristianesimo, anche se limitatamente alla giornata del venerdì di tutte le settimane e in determinate altre occasioni solenni. Nel culto dionisiaco vengono costantemente adoperati tre strumenti simbolico-rituali dai quali non si può prescindere:
a) Il θύρσos (tursos), tirso. E’ un bastone usato dai baccanti e dalle baccanti, ornato di edera e pampini, recante in cima una pigna. Gli officianti il rito dionisiaco erano, dunque, tutti αγαΘυρσoι, (agatursoi), ossia portatori del tirso.
b) La νεβρίs (nebris), nebride, pelle di cerbiatto. Da qui la derivazione del verbo νεβρίζω, nebrίzein (nebrizo, nebrizein), indossare la pelle del cerbiatto, operazione, questa, alla quale dovevano sottoporsi tutti coloro che partecipavano al rito. La vestizione aveva grandissima importanza. I celebranti assumevano, così, le sembianze della preda, ma, in effetti, erano proprio loro che si mettevano in caccia dell’animale sacro al dio, lo catturavano e, infine, lo sbranavano.
c) L’oιnos (oinos), il vino. Questo elemento non veniva considerato alla stregua di un prodotto qualsiasi della manipolazione di un frutto della terra. Intanto, bisogna dire che nell’epoca alla quale si fa riferimento, il vino era qualcosa di assolutamente dissimile da quello che conosciamo ai nostri giorni.
Allora, era più simile ad uno sciroppo, molto denso e molto alcolico, tanto che, per poterlo bere, era necessario annacquarlo in modo tale che la percentuale d’acqua fosse sempre maggiore di quella del vino. L’operazione si effettuava in uno speciale recipiente, detto kρατεr (crater), dal quale, poi, si attingeva.
Data la sua alta gradazione alcolica era pressocchè impossibile ingerire il vino allo stato puro (merum, per i romani), il quale ultimo veniva usato soltanto per le libagioni in onore degli dei. I romani impazzivano letteralmente per il mulsum, che si ricavava da una miscela fatta di vino e miele. Il vino era considerato, ed era, un vero e proprio φάρμakon (farmacon), nel senso non già di medicina, ma di droga, di sostanza stupefacente, attraverso l’ingestione della quale gli officianti raggiungevano la manίa (pazzia, furore, estasi).
Anche questa forma di pazzia non era una pazzia qualunque, bensì manίa, mantikά (mania, manticà), da μανΘάnω (mantano : imparo, vengo a conoscenza, percepisco). Follia sapienzale, dunque, durante la quale la verità viene appercepita, secondo il concetto aristotelico del termine, ossia intravista ed appresa non tramite il λόγos (logos), ossia la ragione e il ragionamento (analitico o sintetico) da essa prodotto, ma tramite l’apparato sensoriale, meglio ancora, tramite l’intuito, che è un mezzo di conoscenza, primitivo e animalesco, quindi naturale e, appunto, intuitivo, il quale viene attivato, in questo caso, dalla partecipazione alla όργια (orghia).
Il furore rituale degli officianti trova, contemporaneamente, una valvola di sfogo e una fonte di ricarica nel δρόμos (dromos), la corsa forsennata per i boschi che si esaurisce e culmina con la caduta in trance, così come la danza ossessiva del rito voodoo fa cadere in trance la mambo e la danza roteante fa raggiungere lo stesso effetto ai dervisci islamici.
Al rito iniziatico dionisiaco partecipano le menadi (μαιναδεs, mainades), ossia forsennate, furibonde, pazze, da μαινόμαι (mainomai); i satiri (sατυρos, saturos), probabilmente da σαινω (saino), scodinzolare, dimenare la coda, i sileni (silηνόs, silenos), procreati da una ninfa e dal dio Pan, dei quali si diceva avessero avuto cura di Dioniso fanciullo. Erano in maggioranza le donne (menadi) che rendevano omaggio al dio e prevalentemente di donne era composto il suo corteo, il tiaso (Θίασos, tiasos). Esse indossavano la nebride che alcune volte sostituivano con una pelle di volpe (ἀλωπekίs) (alopechis) e avevano il capo cinto da una corona di edera. L’edera, pianta sacra a Dioniso, serviva, oltre che come elemento liturgico di parata, anche perché era in grado di produrre effetti stupefacenti e obnubilanti. Infatti, se vengono masticate, le foglie di edera (3) producono una sorta di ebbrezza, come avviene masticando foglie di coca o assumendo il mescal (dal quale deriva l’etnonimico dei pellerossa Mescaleros) che si ottiene dal pequote, il frutto del cactus.
La corsa del tiaso dionisiaco era accompagnata dal suono ritmato ed ossessivo dei flauti, dei timpani e dei cembali. Il rito culminava, poi, nello sπαραγμόs (sparagmos), ossia nelle manifestazioni di omofagia (omόs), (omos= crudo e (φαγέιν), (fagheein), dalla radice fag (fag) dal verbo έδω (edo)=mangiare. Durante l’iter rituale e simbolico in onore del dio cominciò a prendere piede l’usanza di comporre dei versi in suo onore.
Le menadi, coperte dalla nebrίs (nebris) e con il Θύρσos (tursos) in mano, correvano per i boschi inseguendo il cerbiatto e, una volta raggiuntolo, lo sottoponevano allo sπαραγμόs (sparagmos), dilaniamento e sbranamento delle carni che venivano ingerite crude, accompagnate dal vino e da urla acute e lancinanti.
Da questa embrionale forma poetica, comune, in verità, a tutte le società rurali, nacque il ditirambo (diά (dià9- Θύρσos (tursos)- άμβos (ambos), quest’ultimo da αναβoαω (anaboao)= urlo, άμβos (ambos) – δια([dià)= durante la cerimonia del tirso (Θύρσos) (tursos), componimento poetico urlato e di natura femminile, a carattere comico e satirico, di forte ispirazione lirica, generalmente polimetro, di natura corale, che finì con l’avere un posto preminente nel panorama della letteratura greca.
Questa forma poetica non fu, però, l’unico prodotto letterario della ritualità e simbolismo dionisiaci. Da questo rito iniziatico nacquero, anche, la tragedia e la commedia. La tragedia (τραγῳdία, tragodia) da τραγos (tragos)= capro e ωδή (odé)= canto: (il canto del capro) esibisce un etimo di evidente discendenza dionisiaca. Sin dall’ origine, la tragedia esprimeva un’azione fortemente drammatica (δραμoύμαι) (dramumai) dalla radice δραμ (dram) di τρέχω (treco)= (muoversi), comune anche alla commedia, pure collegata al culto religioso e al mito eroico.
Solo in un secondo tempo la tragedia assunse quella fisionomia che mantiene ancora ai giorni nostri. La commedia (da kωμῳδια, comodia), parola composta da kωμos (comos)= estasi susseguente al banchetto dionisiaco e ώδή (odé)= canto; canto dell’estasi orgiastica), come la tragedia ha, dunque, origine religiosa e, specialmente, dionisiaca.
Allo stesso modo, come la tragedia, ha origine melodica ma maschile. Per la sua multiformità e universalità, Dioniso fu un dio polinomio: fu detto Ctonio (kτόνιos) (ctonios)= appartenente alla terra, al demo, alla tribù) (4); Bacco, da un originario Iacco da ιακέιν (iacchein) = urlare, ossia colui che lancia l’urlo; Lieo, da λύειν(luein) = sciogliere e, quindi, colui che scioglie l’incantesimo, la malia; Zagreo, da ζαγραιos (zagraios) = cacciatore: colui che va a caccia; Nebrodense, da νεβρώδηs (nebrodes), simile al cerbiatto, colui che viene cacciato; Bromio, da Brόmios, (bromios) fremente, strepitante; Sabazio, da Σαβαζιos (sabazios) nome di una divinità traco-frigia in origine, divenne, poi, epiteto di Dioniso, colui che scuote; delle paludi, con riferimento al mito di Teseo che riunì in una sola città-stato, Atene, le terre (χώραι, chorai) che comprendevano i templi di Zeus Olimpico, Apollo Pizio, Madre Terra e Dioniso delle paludi; Plutodote, da πλoύτos (plutos)= ricchezza; δoτήρ (doter), dalla radice di διδωμι (didomi), nel senso di elargitore, donatore, dispensatore di ricchezze; Salvatore, da sωτήρ (soter)= salvatore, il salvifico. Possiamo pacificamente affermare che quello di Dioniso, assieme all’altro di Iside (che, diffuso dai marinai – dei quali la divinità era protettrice – in tutto il bacino del Mediterraneo, originerà, poi, il culto cristiano delle Madonne Nere), fu l’ultimo, grande culto del politeismo prima dell’avvento di Cristo.
Il culto cristiano molto attinse rifacendosi alla concezione e alla liturgia dionisiache, nonché a quelle orfiche, anche se attraverso altre importanti mediazioni, come il pitagorismo e il platonismo. La kαΘαρσιs (catarsis) attraverso la morte e la resurrezione trova, dopo Dioniso e Orfeo, la sua αkμή, (acmé) in modo definitivo consacrato dalla sua plurimillenaria esistenza, nell’uccisione e resurrezione di Yoshua ben Mariam (Gesù figlio di Maria) in una città, Gerusalemme (Aelia Capitolina, per i Romani), di una lontana provincia di Roma, la Palestina.
A conclusione di questo breve excursus sul culto dionisiaco, si può ragionevolmente affermare che la piattaforma di lancio di tale culto nell’Occidente di influenza magno-greca sia da individuare nella zona dei monti Nebrodi ove va collocata Agatirso (odierna Capo d’Orlando), nel cui territorio si praticavano i riti orgiastici in onore del Dio (riti che provocarono l’applicazione di dure sanzioni al tempo del dominio di Roma: il console Levino ordinò, per questo, la deportazione di quattromila abitanti di Agatirso, dalla zona pedemontana dei Nebrodi a quella dell’Aspromonte, nel territorio di Reggio nel Bruzio).
Sotto questo ultimo profilo, non è certo senza importanza ricordare come tutta la χωρα dell’Agatirside (nonché quella delle frontistanti isole Eolie) fosse rinomata nell’antichità a cui si fa riferimento per la produzione di un vino assolutamente d.o.c., molto ricercato.
NOTE
(1) Dal mito si può ricavare, evidentemente, la narrazione di un tentativo di allacciare rapporti commerciali tra Grecia e Colchide. Oggi, si propende a ritenere Giasone e Argonauti, come una delegazione di Greci finalizzata a stringere patti commerciali con la Colchide, i cui corsi d’acqua erano, e in parte tuttora sono, ricchi di granuli e pagliuzze d’oro che venivano estratte con un metodo particolarmente ingegnoso, praticato tale e quale anche ai nostri giorni, consistente nella canalizzazione delle acque fluviali per un tratto medio, facendole sboccare, alla fine, su una pelle di ariete che con i fili della sua lanugine catturava le pagliuzze del minerale pregiato. La quantità di pagliuzze di oro catturata faceva apparire tutto il vello luccicante e dorato.
(2) Con il termine apoichia si indicavano le colonie greche fondate quasi su tutte le coste del Mediterraneo. Curiosamente, la lingua greca non possedeva un termine specifico per indicare la “colonia”, giacché apoichia significa letteralmente “lontano da casa”.
(3) A quanto pare, l’usanza di porre un serto di edera sul capo dei poeti per attestarne la grandezza, deriverebbe da questo potere della pianta di dare l’ebbrezza, con chiaro riferimento all’estasi poetica.
(4) Concetto assolutamente similare a questo della “ctonia” credo si possa rinvenire in un termine appartenente alla lingua ojibwa dei Pellerossa dei Grandi Laghi dell’Ontario, Canada (Irochesi, Algonkini, Onondaga): “OTOTEMAN” che si traduce con “Egli è del mio clan”. Per aferesi del prefisso “O” e del suffisso “AN”, residua il termine “TOTEM”, che altro non è se non un “simbolo” (da σύν e βαλλω=mettere assieme) che indica un qualcosa in cui una comunità umana si identifica riconoscendo se stessa (per gli Italiani: il tricolore, la figura muliebre turrita, lo stivale ecc.ecc.)
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