I Fatti di Brolo del 1921
di Michele Manfredi-Gigliotti
Da qualche tempo gli operai iscritti alla Camera del Lavoro di Brolo erano in stato di agitazione a causa di una sanzione erogata nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti di un loro compagno, MIRENDA CARMELO, che era stato licenziato ad nutum da una fabbrica esistente in paese producente citrato di calcio di proprietà e gestita dai signori Germanà.
Malgrado i buoni uffici della locale Camera del Lavoro e dello stesso maresciallo dei Regi Carabinieri, Bollani, comandante la locale stazione, non si era riusciti a fare riammettere al lavoro il Mirenda, essendosi la proprietà impuntata nel mantenimento della decisione già presa in quanto, secondo la causale del licenziamento, il Mirenda era per motivi di malattia ed inesperienza poco atto ad un proficuo lavoro.
Vista l’ostinazione del datore di lavoro, la Camera del Lavoro e, in modo specifico, il suo segretario, DE RIU SALVATORE, decisero di indire una pubblica manifestazione di protesta per richiamare l’attenzione di tutta la comunità brolese sulla incresciosa vicenda che faceva venir meno al Mirenda l’unica fonte di sostentamento della sua famiglia.
Fu così che la mattina del 14 marzo 1921, una folla considerevole (formata dai manifestanti contro il licenziamento del Mirenda, ai quali si erano aggregati anche numerosi altri cittadini che intendevano portare avanti una loro particolare protesta veicolandola contro l’amministrazione comunale per la mancanza nel paese di una farmacia e del medico condotto), si riunì nei pressi della Chiesa Madre.
Nonostante il massiccio afflusso di partecipanti, la manifestazione procedeva ordinatamente, in modo composto e senza grida sediziose.
Dal centro di Brolo il corteo si diresse verso la stazione ferroviaria dove sarebbero dovuti arrivare da Messina alcuni compagni della Camera del Lavoro Provinciale, i quali avrebbero dovuto assumere la direzione della manifestazione al fine di controllarne il regolare svolgimento. All’arrivo del treno proveniente dal capoluogo di provincia, i manifestanti si trovarono di fronte, anzichè i compagni che essi attendevano, un plotone di Carabinieri di stanza alcuni presso la Compagnia e altri presso la Stazione di Patti, i quali scesero dal convoglio ferroviario al comando di un tenente della Regia Arma.
Successivamente, si venne a conoscenza che i compagni provenienti da Messina, stranamente (in quanto è da escludersi che essi abbiano potuto scambiare una stazione ferroviaria per un’altra), anziché a Brolo, erano scesi dal treno a Patti, nello stesso momento in cui i Carabinieri vi salivano. La presenza del contingente dei Carabinieri era stata sollecitata dal comandante la Stazione di Brolo, maresciallo BOLLANI, il quale temeva che la manifestazione potesse degenerare, straripando nella commissione di eccessi di qualsiasi genere o, addirittura, di comportamenti penalmente rilevanti.
L’arrivo, anche se del tutto imprevisto e imprevedibile, del contingente dei RR. CC. non provocò, tuttavia, alcun atto ostile da parte della folla dei manifestanti che, con lo stesso contegno disciplinato e pacifico tenuto sino a quel momento, si pose in movimento per tornare dalla stazione ferroviaria al centro di Brolo.
Giunta che fu dinanzi la Chiesa madre, la folla si arrestò e De Riu Salvatore, unitamente ad altri esponenti della Camera di Lavoro locale, andò a parlare con il tenente comandante il plotone della Benemerita, il quale promise che sarebbe intervenuto per cercare di comporre amichevolmente e in modo pacifico, la vertenza per il licenziamento in tronco dell’operaio.
A questo punto, rassicurata dalle parole dell’ufficiale dell’Arma, l’adunata stava per sciogliersi, quando, in modo improvviso ed imprevedibile, da una stradina laterale sbucò una frotta di donne che inneggiava al socialismo e alla Camera del Lavoro. Una di esse, in particolare, tale MARZULLO GIUSEPPA, raccattata una pietra da terra, la scagliò nel mucchio colpendo alla testa l’ufficiale dei Carabinieri. Sull’esempio della Marzullo, la stessa cosa fecero le altre donne al grido di “Viva il socialismo! Viva la Camera del Lavoro!”, mentre gli uomini alzarono i bastoni in aria e i Carabinieri mossero verso i manifestanti e cercarono di impossessarsi della bandiera rossa.
Echeggiarono colpi di arma da fuoco, alcuni dei quali erano stati esplosi in aria dai Carabinieri con finalità di crimino-desistenza, altri da parte dei maggiorenti del paese, anch’essi armati e qualcuno forse anche dai dimostranti.
In conseguenza dell’esplosione di quei colpi, la folla si disperse in tutte le direzioni, ma una ragazzina di appena dieci anni, BARA’ ANGELA FRANCESCA, che si trovava sul marciapiede nei pressi della Chiesa incuriosita da quell’assembramento insolito, veniva attinta alla testa da un proiettile che la balistica stabilì essere stato esploso da una rivoltella, cadendo esanime per terra.
Il giorno dopo, 15 marzo 1921, decedeva.
Anche il De Riu venne attinto allo stomaco da un proiettile di pistola, che dall’esame medico-balistico risultò esploso a bruciapelo, ma il colpo non si rivelò mortale, tanto che il sindacalista, dopo quasi un mese di degenza ospedaliera, viene dimesso. Alla benevolenza del destino che gli aveva risparmiato la vita, non fu speculare il comportamento postumo degli uomini: con provvedimento di polizia, infatti, il De Riu Salvatore venne etichettato come sovversivo pericoloso e finì, come quel Merenda per la cui difesa aveva mobilitato la Camera del Lavoro, senza lavoro.
L’episodio, nella sua componente complessiva, dava origine a due distinti procedimenti penali:
A) Il primo, a carico di GEMBILLO DOMENICO, sospettato quale artefice della morte della piccola Barà Angela Francesca, per omicidio;
B) Il secondo, a carico di MARZULLO GIUSEPPA, RICCIARDI CALDERARO CALOGERO, RICCIARDO CALDERARO CARMELO, SVELTI CALOGERO, TRAMONTANO NUNZIO, SCAFFIDI MILITONE BARTOLOMEO, CERAOLO GIUSEPPE, PRINCIOTTA GIUSEPPE, AVENA VINCENZO, CASELLA CARMELO, MANIACI CARMELO, FONTI TEODORO, PIZZINO CONO, DE RIU SALVATORE, STARVAGGI CASELLA GIUSEPPE, per i reati che saranno sotto elencati in riferimento a ciascuno degli imputati.
Veniva emesso mandato di cattura in testa a tutti gli imputati, esclusi Tramontano Nunzio, Casella Carmelo, Fonti Teodoro, che furono indagati restando a piede libero.
Per i fatti sopra narrati, furono formulate le seguenti imputazioni in base al codice penale all’epoca vigente (Codice cosiddetto Zanardelli dal nome del ministro Guardasigilli):
1)Delitto p. e p. dall’art. 190, n. 2, C.P., per avere in unione di altre dieci persone, con armi, usato violenza e minaccia a pubblici ufficiali (Carabinieri) mentre adempivano ai doveri del proprio ufficio;
2)Contravvenzione p. e p. dall’art. 434 C.P., per avere trasgredito all’ordine di sciogliersi legalmente dato dai predetti Carabinieri;
3)Contravvenzione p. e p. dall’art. 1 della Legge di P.S., per essersi resi promotori di una riunione pubblica senza averne dato il prescritto avviso all’autorità di P. S.;
Inoltre, per De Riu Salvatore:
a)Delitto p. e p. dall’art. 246, n. 2, C.P., per avere pubblicamente istigato i dimostranti a delinquere dicendo: ARMATEVI TUTTI, PRENDETE I COLTELLI, SCASSATE LE CASE;
b)Delitti p. e p. dagli artt. 372 e 379 C.P., per avere, mediante bastone, cagionato al maresciallo dei RR. CC. Bollani lesioni guarite in giorni dieci.
Per Marzullo Giuseppa:
a)Delitto p. e p. dagli artt. 373 p.p. e 373 C.P., per avere prodotto lesioni personali volontarie mediante colpi di pietra in persona del tenente dei RR. CC., sig. SCOLARO, che guarì in giorni otto.
Per Svelti Calogero:
a)Delitto p. e p. dagli artt. 61, 372 p.p. e 373 C.P., per avere tentato di produrre lesioni personali tramite arma insidiosa (pugnale) nei confronti di un Carabiniere;
b)Contravvenzione p. e p. dagli artt. 464 n. 2 e 465 C.P. e art. 1 e seguenti Legge 2 luglio 1908, n. 319, per avere portato, senza licenza dell’autorità di P.S. competente, fuori dalla propria abitazione il detto pugnale;
c)Contravvenzione p. e p. dall’art. 1 n. 2 R.D. 3 agosto 1917 n. 1360, per avere omesso di denunziare il pugnale, di cui al capo di imputazione che precede, all’autorità di P. S..
Per tutti, inoltre, tranne Fonti Teodoro:
a)Delitto p. e p. dagli artt. 63, 372 p.p. e 373 C.P., per avere concorso nella produzione delle lesioni volontarie cagionate con bastoni e pietre all’appuntato dei RR. CC. Zangla e al Carabiniere Castellino, il primo guarito in giorni sei e il secondo in giorni otto.
Fatti tutti accaduti in Brolo il 14 marzo 1921.
Per tali fatti, dai quali sono scaturite le imputazioni sopra riportate, tutti vennero tratti a giudizio dinanzi il Tribunale Penale di Patti, composto dai signori: CALABRESE cav. ANTONIO, che fungeva da presidente del Collegio giudicante; TODARO LUIGI, pretore del mandamento di Patti; NATOLI cav. GAETANO, vice pretore del medesimo mandamento. La Pubblica Accusa venne sostenuta dal Sostituto Procuratore del Re, NATOLI EDUARDO.
Gli imputati che vennero tratti a giudizio ribadirono reiteratamente la loro innocenza, dichiarandosi estranei ai fatti delittuosi per i quali il Tribunale procedeva. Il Tribunale, però, ritenne di avere a disposizione una prova definita cosiddetta “esuberante” per i dieci imputati che furono riconosciuti, alla fine del dibattimento, colpevoli e, quindi, come tali dichiarati responsabili dei reati loro ascritti. Il Giudice collegiale, nella sostanza, diede pieno credito soltanto alle testimonianze a carico degli imputati tutte conferite al processo dal maresciallo Bollani, Carabiniere Zangla, Francesco Germanà, datore di lavoro, e tale Cucinotta Domenico non meglio identificato.
Gembillo Domenico, sospettato, come si diceva, dell’omicidio della piccola Barà Angela Francesca, veniva liberato dalla relativa accusa, senza neppure dovere affrontare il pubblico dibattimento, essendo stato il provvedimento liberatorio emesso addirittura in camera di consiglio, ritenendo il Tribunale essere di tutta evidenza la estraneità del Gembillo ai fatti contestati.
Tutti gli altri imputati venivano, invece, rinviati a giudizio e, a conclusione dell’istruttoria dibattimentale, dopo avere modificato la rubrica dalla originaria imputazione in quella di oltraggio con violenze e minacce contro agenti della forza pubblica (RR. CC.) a causa e in dipendenza delle loro funzioni, il Tribunale dichiarava Marzullo Giuseppa, Ricciardo Calderaro Calogero, Svelti Calogero, Tramontana Nunzio, Scaffidi Militone Bartolomeo, Princiotta Giuseppe, Avena Vincenzo, Casella Carmela, Maniaci Carmelo e De Riu Salvatore responsabili dei fatti a loro addebitati condannandoli nel modo seguente: Marzullo a mesi sei di reclusione e alla multa di lire 3oo; Ricciardo Calderaro Calogero, Tramontana Nunzio, Scaffidi Militone Bartolomeo, Princiotta Giuseppe, Avena Vincenzo, Casella Carmela e Maniaci Carmelo alla pena ciascuno di mesi quattro di reclusione e lire 200 di multa; De Riu alla pena di mesi quattro di reclusione e lire 200 di multa.
Assolveva Ricciardo Carmelo, Ceraolo Giuseppe, Fonti Teodoro, Pizzino Cono e Starvaggi Casella Giuseppe per insufficienza di prove. Pena sospesa per tutti tranne che per Princiotta Giuseppe.
Contro la sentenza imputati e Pubblico Ministero interponevano gravame dinanzi la Corte di Appello, Sezione Penale, di Messina, la quale, all’esito del dibattimento di secondo grado, inasprì di molto le pene erogate dal Tribunale di Patti, anche se i condannati in prima istanza avevano impugnato la sentenza. Anche contro quest’ultima decisione, adottata in peius, gli imputati interponevano gravame tramite ricorso per cassazione.
La Corte Suprema, però, non poté entrare nel merito dei ricorsi proposti, in quanto vincolata dalla circostanza sopravvenuta e consistente nel fatto che il Legislatore dell’epoca, medio termino, aveva concesso l’amnistia e i reati contestati, in riferimento alle pene edittali, rientravano tutti nell’ambito del provvedimento di clemenza.
Così la decisione della Corte della legittimità fu di non doversi procedere per intervenuta amnistia.
La sentenza di non doversi procedere per intervenuta amnistia non può qualificarsi, come è stato detto in qualche occasione, come sentenza assolutoria, in quanto il provvedimento normativo amnistiale si indirizza ed interviene nei confronti della pena e non del reato, per cui non viene annichilita la condanna emessa, ma viene annullata semplicemente la pena conseguente a quella condanna, con evidente beneficio reale dei condannati soprattutto perché l’esecuzione della pena che era stata erogata non era stata sospesa.
Nel caso in rassegna, il titolo dei reati (che, si rammenta, aveva subito una riqualificazione da parte del Collegio del Tribunale di Patti) non era ostativo alla concessione del beneficio, ma rientrava nei limiti del beneficio concesso.
Per la ricostruzione storica dei fatti del procedimento penale prima ricordato, oltre che alla sentenza emessa dal Tribunale di Patti in data 13 giugno 1921, il riferimento viene effettuato ad un piccolo memoriale attorno a tali fatti, concepito in concomitanza con il loro accadimento e, quindi, rappresenta una testimonianza cartolare de visu del suo autore, l’avvocato brolese Giuseppe Piccolo.
Per penetrare il valore degli avvenimenti di quei giorni, occorre avere presenti le condizioni socio-economiche dell’anno di riferimento: 1921.
Brolo, come la stragrande maggioranza dei paesi del Meridione e dell’Isola, aveva pieno diritto di cittadinanza in quella sacca di povertà, miseria, analfabetismo e, spesso, anche vera e propria fame, in cui versavano le terre del Sud d’Italia all’epoca alla quale si verificarono i fatti insurrezionali che si stanno trattando. Mentre in altre regioni (Emilia-Romagna, Toscana, Veneto) si sperimentava la cooperazione di lavoro, il Meridione stentava a sopravvivere e quelle sparute fonti reddituali esistenti al tempo dei Borbone (l’Ansaldo in Sicilia e le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana in Calabria, altopiano delle Serre) venivano trasferite al nord (a Genova, l’Ansaldo), oppure sfruttate dal governo sabaudo senza alcun utile diretto per il popolo e senza alcuna programmazione politica, al punto che l’attività venne dismessa nel 1881.
In questo contesto, chi aveva un posto di lavoro, anche se malamente retribuito o retribuito saltuariamente, poteva reputarsi fortunato.
L’economia dell’intero aggregato urbano brolese e del suo immediato hinterland era supportata essenzialmente dalla agricoltura, da una piccola area del terziario, dalla pesca, da due piccole fabbriche, che dalla lavorazione dei prodotti agrumari ricavavano citrato di calcio e olio essenziale, da due fornaci artigianali di laterizi e da due attività per la conservazione del pesce (essenzialmente pesce azzurro: acciughe e sarde).
Brolo era, è vero, un mercato di transito dei prodotti agricoli dell’entroterra (principalmente nocciole, mandorle, castagne, legumi, fichi secchi e olive), i quali per raggiungere i mercati di sbocco prendevano da questo insediamento la via del mare tramite una imbarcazione chiamata ’a marticana (termine di origine meridionale, probabilmente napoletana, di incerta semantica con il quale veniva indicato un piccolo veliero mercantile del settecento).
In questo contesto di povertà e sofferenza, si verifica un episodio che finisce (è naturale) per colpire l’immaginario collettivo. E’ l’episodio relativo al licenziamento ad nutum dell’operaio Mirenda Carmelo, il quale era stato prima schiaffeggiato dal sovrintendente alla fabbrica e, quindi, licenziato, come era stato scritto nel provvedimento, in quanto lo stesso era stato ritenuto per motivi di malattia ed inesperienza poco atto ad un proficuo lavoro.
Ognuno vede in quell’episodio una sopraffazione iniqua e non è difficile, né ultroneo, immaginare come ciascuno degli operai abbia visto nella figura del povero Mirenda Carmelo, la propria immagine proiettata su uno schermo cinematografico.
Qualcuno degli agrari che avevano assistito agli episodi incita i Carabinieri a sparare e a sequestrare ai manifestanti la bandiera rossa. I Militi sparano in aria a scopo intimidatorio al fine di fare desistere i manifestanti dal compimento di ulteriori atti di violenza. Una pallottola attinge una bambina di dieci anni, BARA’ ANGELA FRANCESCA, che il giorno successivo, a causa della ferita, muore.
Quando le truppe alleate, durante l’ultima grande guerra, sbarcarono in Sicilia, il De Riu, fidando nel nuovo clima politico e sperando nella instaurazione di un regime di Giustizia più Giusta, cercò con tutti i mezzi di fare riaprire il processo inoltrando una istanza di revisione dello stesso, ma tutto fu inutile, perché le cose, mutatis mutandis, rimasero esattamente come prima.
E’ necessario giungere all’anno di grazia 2009, perché l’anima democratica di Brolo, attraverso il suo primo cittadino, SALVO MESSINA, sentisse il bisogno di prendere coscienza di alcuni fatti di prevaricazione ed iniquità non per alimentare l’odio nella perpetuazione dei rancori e delle barriere di classe, ma per sottoporsi ad un processo catartico che ci preservi dalla tentazione di ripetere i medesimi errori del passato.
Dalla storia dobbiamo imparare non già i dati formali per ripeterli in un esercizio mnemonico che faccia fare bella figura, ma la sostanziale lezione che essi ci tramandano.
Nel 2009, si diceva, nella sala “RITA ATRIA” (altra vittima femminile sacrificata sull’ara di una violenza inconcepibile e crudele della quale fu vittima, divenendo alla fine giudice di se stessa tramite l’emissione di una sentenza di morte) della biblioteca multimediale, il popolo brolese ha voluto procedere alla rivisitazione storica dei moti popolari e alla riabilitazione dei quindici operai condannati per avere difeso il posto di lavoro, ricordandoli tutti, in particolare la piccola Barà Angela Francesca.
La consulenza per la ricostruzione storica dei fatti venne affidata all’ Avv. Michele Manfredi-Gigliotti, mentre la difesa degli operai venne affidata all’Avv. Cristina Manfredi-Gigliotti.
Nella relazione per la revisione è stata messa in evidenza la discrasia esistente tra la sentenza penale dell’Autorità giudiziaria di contenuto condannatorio e il diffuso e solidale sentimento popolare di supporto ai condannati.
E’ regola di comune esperienza che, quando le sentenze penali, soprattutto di condanna, vengono percepite dal popolo come giuste e legittime, ad esse consegue sempre un sentimento popolare di disistima nei confronti del condannato e di approvazione del giudizio giuridico.
Nel caso in rassegna, riteniamo di potere affermare che il popolo brolese, nella sua stragrande maggioranza, abbia ritenuto che questa sentenza di condanna non abbia titolo per essere considerata come espressa in nome del popolo italiano, men che meno in nome del popolo brolese, ma nel nome di qualcos’altro che nulla probabilmente ha a che fare con la giustizia.
Concludiamo, ricordando che la manifestazione, curata dall’Ufficio Turistico Comunale nell’ambito del programma “Brolo città educativa”, ha dovuto, in modo particolare, la sua riuscita all’impegno profuso, oltre che dall’intero staff amministrativo e organizzativo, in modo particolare da MARIA RICCIARDELLO e MASSIMO SCAFFIDI.
Durante l’incontro-convegno è stato, anche, presentato un pre-demo del cortometraggio del regista ITALO ZEUS “Ogni giorno come se fosse l’ultimo”, incentrato, per l’appunto, sui fatti avvenuti in Brolo, le cui scene sono state girate in loco, nei posti in cui agirono i veri protagonisti storici nel 1921, con un cast formato, prevalentemente, da attori non professionisti, presi coralmente, dal popolo di Brolo e dai paesi vicini.
LE FONTI
Per la ricostruzione dei fatti ho fatto riferimento alla sentenza emessa dal Tribunale collegiale di Patti del 13 giugno 1921 e a quella in appello, anche se di semplice conferma sostanziale degli stessi, emessa dalla Corte d’Appello, Sezione Penale, di Messina e, infine, per cognizione indiretta, al breve memoriale steso dall’avvocato brolese Giuseppe Piccolo.
La presente ricostruzione riproduce e si rifà a quella già elaborata in sede storica e a quella della difesa tecnica dei manifestanti da parte degli avvocati Michele e Cristina Manfredi-Gigliotti in occasione della commemorazione tenutasi a Brolo nella sala “Rita Atria” nel 2009.
N.B. le foto inclese nel pezzo sono da intendere con “riserva di copyright”